Compromessi con il nemico
di Emanuele Severino - 11/01/2007
La Chiesa parla al mondo, cioè allo Stato; da quando esiste, ha avuto a che fare con Stati autoritari, la democrazia è un fenomeno recente: ma il dialogo tra Chiesa e Stato non può essere che un compromesso.
Che l'arcivescovo dimissionario di Varsavia Stanislaw Wielgus abbia collaborato con il regime comunista non deve dunque troppo sorprendere.
Se i nemici non dialogano, combattono a occhi bendati. Questi, però, son nemici che hanno in comune alcuni tratti non secondari.
La Chiesa è assolutismo religioso; il comunismo è assolutismo politico. La Chiesa si è sempre voluta servire dello Stato; lo Stato della Chiesa.
Ognuno dei due vuole che la dottrina e l'agire da essi proposti siano lo scopo della società.
Ognuno vuole distruggere l'altro. Non si tratta di una deviazione della «Chiesa di pietra» dalla «Chiesa dei santi».
La Chiesa è dei santi proprio perché vuol distruggere quel che a suo avviso è l'errore. Gesù è il santo per eccellenza. Dicendo di dare a Cesare, ossia allo Stato, quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, Gesù non vuole che a Cesare venga dato qualcosa che sia contro Dio: vuole che Cesare non si opponga a Dio, e che pertanto le leggi dello Stato abbiano come scopo quelle di Dio — del Dio di Gesù e, poi, della Chiesa. Dire che la Chiesa è assolutismo religioso non è «laicismo».
La si offenderebbe negando che essa sia teocrazia. Nemmeno in Polonia la Chiesa può aver voluto il comunismo, ossia un Cesare le cui leggi si opponessero a quelle di Dio.
Se un membro della Chiesa l'avesse fatto, l'avrebbe fatto come nemico del cristianesimo.
Va però anche aggiunto che, se nei Paesi comunisti la Chiesa ha avuto bisogno del compromesso col potere, diventa più difficile sostenere che essa sia stata l'artefice del crollo del comunismo.
È l'ultimo caso grandioso, tale crollo, del tramonto ormai secolare, che è destinato a travolgere anche le forme superstiti di assolutismo, come quella religiosa e quella economica.
L'assolutismo economico del paleocapitalismo, che si ritiene la forma definitiva di produzione della ricchezza, tende a essere oltrepassato da una concezione «sperimentale» del capitalismo, dove si ammette la possibilità del fallimento della sperimentazione.
Anche la Chiesa condanna le forme teologiche che in qualche modo ripropongono in senso «sperimentale» l'esistenza religiosa. La recente conversione della Chiesa alla democrazia è spiegabile in modo analogo al movimento del capitalismo nella stessa direzione.
Già Max Weber rilevava la maggior consonanza tra capitalismo e democrazia, rispetto a quella con lo Stato totalitario.
Ma il vero motivo è che in effetti quest'ultimo è, per il capitalismo, un ostacolo ben più consistente della democrazia procedurale. Lo stesso accade alla Chiesa, che alla democrazia, figlia dell'Illuminismo, ha preferito lo Stato autoritario, dove l'assenza dell'opposizione rende più agevole il dialogo e il compromesso.
Adottando la democrazia, Chiesa e capitalismo hanno sempre tentato, e con maggiori probabilità di successo, di modificarla: la Chiesa, condannando in essa «la libertà senza verità», ed esigendo che la «verità» a cui la democrazia deve adeguarsi sia da ultimo la verità cristiana; il capitalismo, impedendo che la «solidarietà» abbia a subordinare a sé l'«efficienza».
E anche il capitalismo è un Cesare a cui non si può dare quel che è contro Dio. Per la Chiesa il fine non giustifica i mezzi; ma è della Chiesa anche la dottrina della preferibilità del male minore.
Forse in Polonia, e altrove, minor male è stato dare provvisoriamente a Cesare qualcosa di quel che è contro Dio, sperando che da ultimo, davanti a Dio, egli avesse a inginocchiarsi.