La Francia s’incendia?
di Alain De Benoist - 13/11/2005
Fonte: alaindebenoist.com
« Che cosa aspettiamo per mettere tutto a fuoco ? » diceva non molto tempo fa una canzone del gruppo rap NTM (« Nique Ta Mère »). La risposta non si è fatta attendere. Oltre 3000 vetture bruciate, ginnasi, depositi di carburante, magazzini e rimesse d’autobus incendiati, pallottole contro poliziotti e pompieri, forze dell’ordine bombardate da sassi, bocce e bottiglie d’acido solforico e da carrelli di supermercato lanciati dai tetti, giornalisti aggrediti. Scuole e asili-nido presi d’assalto, posti di polizia, uffici postali, centri sociali saccheggiati, banche e magazzini devastati, posti di soccorso assediati : per più di 12 notti, le periferie francesi si sono infiammate. È un evento spettacolare ampiamente riportato dalle televisioni di tutto il mondo. Ma soprattutto era un evento prevedibile. A tal punto che non c’è da stupirsi per quanto si sta producendo, ma oerché questo non è accaduto prima.
Eppure l’evento prevedibile non era stato previsto da una classe politica, di destra come di sinistra che ha messo in atto un’urbanizzazione selvaggia e h lasciato costituirsi da vent’anni più di 600 « zone senza legge », cioè quartieri-ghetto, quasi del tutto popolate da immigrati, nelle quali la posta non viene più distribuita, dove il pronto soccorso, i medici, i pompieri non entrano più, dove la polizia non si arrischia ad entrare se non pesantemente armata, quartieri trasformati in altrettante « contro-società » che non conoscono altro che la legge della giungla, l’« economia sommersa » e i traffici di ogni tipo. .
In tali quartieri si è sviluppato un odio incandescente nei confronti della società e dei suoi rappresentanti, per cui bastava una scintilla per dare fuoco alle polveri. Stavolta il pretesto è stata la morte accidentale di due giovani di origine africana da Clichy-sous-Bois, alla periferia di Parigi che, credendosi inseguiti dalla polizia, si erano rifugiati in un trasformatore elettrico dove sono morti fulminati.
Partito dalla regione parigina, il movimento ha rapidamente coinvolto tutta la Francia. Praticamente in ogni dipartimento, sono bruciate vetture, sono stati incendiati magazzini, sono stati feriti poliziotti. In totale, una sessantina di comuni sono stati investiti da autentiche azioni di guerriglia, condotte da piccoli gruppi informali od organizzati. « Era come in guerra », ha dichiarato un vigile del fuoco.
La sinistra denunciala soppressione, dal maggio 2002, di una polizia di « prossimità » abbinata ad una rete di mediatori sociali”. La destra perde la testa e s’indigna. I pubblici poteri dichiarano di voler dare prova di “fermezza”, mentre chiedono di “ripristinare il dialogo”. Le autorità religiose musulmane lanciano « appelli alla calma ». Il Ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy, sulla cui persona si concentro tutto l’odio dei giovani delle periferie dopo che si è presentato sul campo a garantire una « ripulita della marmaglia », si ritrova in prima linea.
Ciò che più colpisce è il modo in cui le parole « immigrati » e « immigrazione » non sono quasi mai pronunciate, senza che per questo un tale pudore semantico crei illusioni. In particolare i grandi media praticano sistematicamente l’eufemismo, designando gli agitatori ome dei « giovani » provenienti da ambienti « svantaggiati » e che abitano in quartieri « sensibili » (o « difficili »). In Algeria, il quotidiano El Watan, meno pudico, ha detto l’essenziale parlando della necessità di « ricollocare la problematica delle periferie nel processo più globale dell’immigrazione». Un processo che, evidentemente, oggi più nessuno sa come padroneggiare. .
I rivoltosi non hanno motivazioni fondamentalmente politiche o religiose. Essi incendiano le loro stesse scuole, i loro stessi ospedali, le automobili dei loro vicini. Praticano sui loro “territori” la politica della terra bruciata. Quello che esprimono è un’ostilità assoluta per tutto quello che, da vicino o da lontano, evoca l’autorità , le istituzioni. Lo Stato o i pubblici poteri. La violenza a cui assistiamo in questi giorni è un lungo grido di odio, ma anche di disperazione, da parte di « giovani » che sono quasi tutti disoccupati, in situazione di fallimento scolastico e che constatano di non avere alcun posto in una società globale dove la povertà non cessa di avanzare, mentre le grandi società industriali vedono regolarmente aumentare i loro utili. Essi si ribellano perché constano questo, ma più si ribellano più arretrano. Per questi giovani ribelli, dediti fin dall’infanzia alla delinquenza e alla strada, semplicemente non c’è futuro. Una « vita normale » sembra un sogno inaccessibile.
Molti pensano che tali rivolte segnino il fallimento della « società multiculturale ». La formulazione è troppo facile. Contrariamente a quello che si afferma ovunque, noi non siamo in una società “multiculturale”, ma in una società contemporaneamente multi-etnica e tristemente mpnoculturale (in cui la cultura si riduce ai valori mercantili e alla passione per il consumo). All’apartheid etnico si aggiunge un apartheid sociale favorito dall’applicazione della legge del mercato nel campo immobiliare e dalla privatizzazione di tutti gli spazi di vita. I rivoltosi dicono di non poterne più. Quelli che subiscono le loro violenze non ne possono più. Tutti non ne possono più. . E nessuno sa come questo andrà a finire.
Le responsabilità degli insorti sono evidenti, ma ancora più responsabili sono coloro che hanno lasciato che questa situazione prendesse piede e che restano dell’idea che i problemi siano riducibili ad una semplice questione « etnica ». La Francia è oggi un paese totalmente bloccato. La sua classe politica è la più vecchia d’Europa. Le sue élites economiche non pensano che a « delocalizzarsi ». Ogni dibattito intellettuale è scomparso. Le calma finirà per ritornare. Ma nessun problema di fondo sarà regolato.