I ragazzi del’36 (recensione)
di Stenio Solinas - 16/01/2007
N
ella primaveradel
1937 il ventisettenne
Dante Pacini,
da poco
laureato in
medicina e ora ufficiale medico nel
Corpo truppe volontarie in Spagna,
vide la sua prima corrida nella
plazade toros
di Saragozza. La giornataera calda, l’insieme impressionante
per colori, atmosfera, emozioni,
fra le quindicimila persone
che affollavano gli spalti sedeva nel
palco d’onore il generale Gonzalo
Queipo de Llano, già conquistatore
di Siviglia, fra i numi tutelari dell’
alzamientoe quindi della guerra
civile... Agli occhi del giovane
Pacini, che dell’Italia conosceva
solo la Toscana e prima di allora
non era mai stato all’estero, tutto
era solenne, ieratico, fantastico. Al
culmine dello spettacolo, la morte
del toro per mano del torero, un
rumore distante tuttavia cominciò a
diffondersi nell’aria, un brusio
come di mosconi, sempre più forte,
sempre più minaccioso, che presto
si tramutò in un rombo di tuono,
denso, implacabile. Il tenente Pacini
cominciò a fissare il cielo e vide
in lontananza dei puntini neri avvicinarsi
in progressione: bombardieri
dell’Aviazione repubblicana. Le
bombe cominciarono a cadere sulla
periferia della città e poi di colpo il
pubblico della plaza di Saragozza si
ritrovò gli aerei sulla testa, quindicimila
persone imprigionate in un
catino che per salvarsi nella fuga si
sarebbero probabilmente massacrate
a vicenda... Fu allora che dal palco
d’onore il generale de Llano si
alzò e in piedi si mise a cantare
l’inno della Falange,
Cara al sol,faccia al sole, si alzarono le altre
autorità e gli andarono dietro, il
pubblico fece altrettanto e la banda
prese a suonare, fra colonne di
fumo e scoppi assordanti. Cantò
anche Pacini e intanto si rendeva
conto quasi meravigliato di come
quella guerra, civile appunto, avesse
per gli spagnoli una irrimediabilità
tragica che la rendeva se non
incomprensibile, certo non divisibile
con uno straniero. Mentre cantava
si chiese se non sarebbe stata la
prima e l’ultima volta...
Perché Dante Pacini andò in Spagna?
Voleva fare il chirurgo, non
aveva entrature universitarie e/o
ospedaliere per fare il tirocinio, non
si rassegnava all’idea di medico
condotto di provincia. Lì c’era la
guerra, lui era fascista, come più o
meno tutti nell’Italia del 1936, il
Duce appoggiava Franco, cosa si
poteva dire di più? Pacini era solo
uno dei settantamila volontari che
vi parteciparono e chiedersi che
cosa spinse un numero così elevato
di persone è - a settant’anni da quei
fatti - una domanda storica, non
retorica e/o di parte, che vale la
pena di porsi.
È quello che ha fatto Massimiliano
Griner con
I ragazzi del’36. L’avventuradei fascisti italiani nella
guerra civile spagnola
(Rizzoli,ricerca viene fuori merita alcune
considerazioni.
Su “gli italiani in Spagna” grava una
triplice maledizione storico-ideologica.
La prima attiene, e può sembrare
un paradosso, allo
stesso regime fascista. Si
andò facendo finta di non
andarci. C’erano ragioni di
politica internazionale, il
“non intervento” dei Paesi
europei, che giustificavano
l’
escamotage, ma c’eranoanche, come dire, ragioni di
politica interna: Mussolini
non voleva una guerra in
nome del Fascismo, da un
lato perché Franco con il
Fascismo aveva poco a che
vedere, dall’altro perché
così facendo avrebbe danneggiato
quel ruolo di
Kingmaker
della politica europeache lo rendeva plausibile
agli occhi delle democrazie
occidentali: non voleva
apparire come il perturbatore
dell’ordine europeo con
cui non si può più trattare,
ma come il garante con cui
si può venire a patti. Crociata
contro la barbarie comunista
sì, dunque, tema al quale era
sensibile l’Inghilterra, internazionale
fascista assolutamente no.
La seconda è dovuta dall’aver vinto
la guerra “sbagliata”. I fascisti italiani
vinsero in Spagna e la moderna
ricerca storica ci dice che Franco
vinse grazie a loro e no nonostante
loro, come la propaganda storiografica
italiana del
secondo dopoguerra
si affrettò
a spiegare. Persero
però rovinosamente
la
Seconda guerra
mondiale e le
colpe dei vinti si
tirarono dietro
come una calamita
quelle dei
vincitori
d’
antan: l’essereandati in Spagna
divenne l’aggravante
e la prova provata del “fascismo”
di cui erano fatti.
La terza è che in Spagna andarono
due Italie, la fascista e l’antifascista
e quando quest’ultima, dopo il ’45,
si ritrovò dalla parte dei vincitori stabilì
che la “vera” guerra di Spagna
era stata la sua, che l’aveva vinta
nonostante l’avesse persa e che quindi
andava onorata quella partecipazione
e dannata l’altra.
Tutto questo aiuta a spiegare perché
ancora negli anni Trenta la pubblicistica
fascista evitò in buona misura
di interrogarsi sul cosiddetto “fascismo
spagnolo” e la coeva memorialistica
d’epoca fece altrettanto,
accontentandosi di similitudini di
facciata, saluti romani e camicie
azzurre anziché nere, e sottolineando
invece, oltre ai ricordi in prima persona,
l’elemento tradizionalista, cattolico,
anticomunista. E perché successivamente
tutto annegò nel mare
magnum della negazione generica,
della ricostruzione di comodo, della
mistificazione demistificante: niente
volontari, ma solo mercenari, nessun
ideale, ma solo coercizione, nessuna
vittoria, ma un’unica Guadalajara...
Da questo punto di vista, esemplare
e per certi versi esilarante è la ricostruzione
appaiata che Griner fa della
guerra di Spagna di Davide Lajolo,
raccontata da fascista in
Bocchedi donne e di fucili
e da antifascistain
Il voltagabbana.Naturalmente, fra quei settantamila
italiani di Spagna c’era di tutto,
come del resto c’era di tutto dall’altra
parte: l’idealista e il teppista, chi
ci andò per soldi e chi per cambiare
aria, l’intellettuale e l’analfabeta, chi
perché non aveva nulla da perdere e
chi per sbaglio... Ci andarono anche
quelli per i quali “menare le mani”
era in fondo il modo più fascista di
risolvere le cose, ma anche qui c’è
una bella differenza fra Arconovaldo
Bonaccorsi, il “conte Rossi” delle
Baleari, una specie di macellaio che
si meritò il disprezzo del Georges
Bernanos di
I grandi cimiteri sottola luna
, e un Ettore Muti che era unguascone ma non un assassino. “A
Siviglia sono già 1300 i fucilati”
scrisse in un rapporto a Galeazzo
Ciano: “E li giudica un tribunale
composto da sei persone, ognuna
delle quali ha un parente che fu a
suo tempo giustiziato dai comunisti.
Il nostro fascismo è tutt’un’altra bellissima
cosa”. Anche Farinacci rimase
colpito dalla spietatezza del conflitto:
“Le barbarie rosse e nazionali
si equivalgono. È una gara al massacro
che è diventata quasi uno sport:
siamo solo noi sentimentali che ci
creiamo le tragedie intime per chi
non le merita”.
Griner coglie un punto importante di
tutta la vicenda quando nota che a
complicar molto le cose fu lo stesso
Franco. Il generalissimo voleva sì
l’aiuto degli italiani, ma non voleva
che a vincere le battaglie fossero
loro. Dal suo punto di vista aveva
ragione, se quella era una guerra
civile fra spagnoli, dovevano essere i
“suoi” spagnoli a guadagnare la partita.
E senza fretta, passo dopo passo.
La sconfitta di Guadalajara nacque
anche da qui, perché Franco
promise e poi non mandò le truppe
necessarie e lasciò scoperto il fianco
degli italiani.
Fra entusiasmi, delusioni, cecità,
velleitarismi e incomprensioni ci fu
anche chi fin dall’inizio ebbe le idee
chiare. Il diplomatico Filippo Angfuso
fu uno di questi. Sapeva che Franco
era esperto solo di battaglie coloniali
che comportavano “piccole
operazioni, molte fucilazioni”: difficilmente
con lui ci sarebbe stata una
“guerra lampo” come Ciano affermava
e il Duce ordinava. L’idea poi
che potesse “pendere” verso l’alleato
tedesco era ridicola: “Il nazismo non
ha presa su di lui perché Franco è
galiziano, razionale, ama rendersi
conto, vuol vedere”. Il rischio semmai
era ritrovarsi nel futuro “uno
stato feudale e clericheggiante che
finirebbe per aggiungere altro sangue
al molto già versato”. Roberto
Farinacci fu un altro con le idee
chiare, visto che chiese a Franco la
giornata lavorativa di otto ore per gli
operai, una previdenza sociale, il
dopolavoro e forme di organizzazioni
giovanili e femminili. Il Generalissimo
lo trovava insopportabile. E
che dire dell’ambasciatore in Spagna
Cantalupo, che giudicava il fine dell’intervento,
tenere lontano il bolscevismo
in Spagna, giusto, ma il modo
sbagliato? L’italia, diceva, rischia di
apparire come una perturbatrice dell’ordine
europeo e non come garante
e in più, fascista e “rivoluzionaria” si
prepara a far mettere le basi a un
regime militare e reazionario. Fu
richiamato in patria.
Fra i pazienti di Dante Pacini ci fu il
capitano Ernesto Botto, asso dell’aviazione.
Nel cielo di Fuentes dell’Ebro
aveva appena abbattuto un
Rata repubblicano quando un proiettile
esplosivo gli tranciò la gamba
destra. Riuscì ad atterrare lo stesso,
ebbe una medaglia d’oro, il
soprannome di Gamba di ferro
e gli aerei del suo gruppo
cambiarono distintivo sulla
fusoliera: una gamba d’armatura
medievale... Nulla Pacini
poté invece fare per il colonnello
Giorgio Morpurgo,
militare di carriera, capo di
Stato maggiore delle Frecce
nere che alla fine del 1938 si
era già fatto, con onore e promozioni,
due anni e passa di
fronte. Una sera gli arrivò la
lettera dal ministero in cui,
causa le leggi razziali allora
varate, veniva sollevato dall’incarico
e rimpatriato. Il
giorno dopo Morpurgo uscì
dalle trincee italiane e cominciò
a camminare verso quelle
del nemico, come facesse
una passeggiata. I repubblicani
lo abbatterono a colpi di
mitragliatrice. E anche questo
fu la nostra guerra di Spagna.