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Intuizione intellettuale, induzione e scienza dimostrativa in Aristotele

di Paolo Scroccaro - 14/11/2005

Fonte: estovest.net

Premessa generale
L'insegnamento della Filosofia giace in una situazione sconfortante: l'abbiamo denunciato più volte, in riferimento alla preparazione limitata e confusionaria di troppi professori di Filosofia, e alle variegate carenze di molti manuali, compresi quelli più recenti. Troppo spesso, le lacune riscontrate riguardano perfino aspetti tutt'altro che marginali della disciplina, con ripercussioni negative sulla formazione dei docenti, degli studenti, dei laureati, favorendo fenomeni di semianalfabetismo filosofico, la cui diffusione è preoccupante. In ordine a quanto sopra, e a titolo esemplificativo, riportiamo testualmente quanto compare in alcuni manuali a proposito del tema che figura come titolo di questo approfondimento.

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Vegetti, Alessio, Fabietti, Papi: Filosofie e società - Vol. I - Zanichelli 1985 - pag. 171
L'induzione
Ma il maggiore problema dell'epistemologia aristotelica riguarda l'individuazione delle premesse della dimostrazione. I principi e le definizioni di cui esse constano sono indimostrabili: le dimostrazioni con cui esse dovrebbero venir provate richiederebbero infatti a loro volta altre premesse, e così si risalirebbe all'infinito (distruggendo in effetti la possibilità di ogni dimostrazione), oppure si giungerebbe a pochi principi universali della realtà (come il bene e l'uno di Platone: ma così si distruggerebbe l'autonomia delle singole scienze).
Come si ottengono allora le premesse? Si è già visto che il sillogismo è inutile a questo scopo: si tratta di una macchina logica che funziona solo a partire da premesse già stabilite. A questo punto resta soltanto una via, che Aristotele imbocca decisamente: le premesse, i principi, le definizioni vengono derivati dall'esperienza mediante l'induzione.

Il processo induttivo si articola nel modo che segue.
L'osservazione estensiva, per quanto è possibile completa, dei fenomeni di un determinato campo dà luogo a generalizzazioni empiriche, che valgono per tutti i fenomeni osservati, o per la gran parte di essi. Per esempio, di tutti gli uomini da noi conosciuti empiricamente si può dire che sono bipedi. La generalizzazione empirica ci porta a considerare gli individui privi di una gamba come eccezioni, e consente di affermare il bipedismo della specie umana.

Il "nous" come intuizione della verità delle premesse induttive
Ma le premesse scientifiche devono essere vere, universali e necessarie: come escludere che un individuo umano sfuggito alla nostra osservazione presenti già ora, p. es., tre gambe, o che il fenomeno si possa verificare nel futuro? La generalizzazione empirica, cui perviene l'induzione, deve allora venir trasformata in premessa scientifica, secondo Aristotele, da un atto di pura intuizione razionale (il nous su cui pure si fondava la dialettica platonica). Fra tutte le premesse ottenibili induttivamente, questa intuizione, nella sua evidenza e nella sua certezza, ci rivela quali siano scientificamente degne di fede. Solo allora possiamo dire che "tutti gli uomini sono bipedi" è effettivamente un principio della scienza, e non una regolarità occasionale e transitoria.


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L. Geymonat: Immagini dell'uomo, Garzanti, Vol. I, 1989, pag. 175
La verità delle premesse è fondata sull'induzione da cui la deduzione trae le conseguenze implicite
Esso consiste nel processo con cui argomentiamo che una proprietà vale per tutta una classe dl cose, dopo aver constatato in base ai dati dell'esperienza che essa vale per più individui della stessa classe (induzione). Per esempio, la constatazione che tutti gli uomini finora vissuti sono morti, ci permette di affermare "Tutti gli uomini sono mortali"; affermazione da cui è possibile concludere che un singolo individuo ora vivente morirà.
La scienza, quindi, si costruisce sul duplice processo della deduzione (sillogismo), che trae le conseguenze implicite nelle premesse, e di induzione (epagoghè), che fissa le premesse a partire dall'osservazione. Ponendosi come fondamento del sapere, l'induzione deve procedere attraverso criteri rigorosi.

L'induzione deve fondarsi su dati non accidentali ma essenziali, ovvero che si verifichino "per lo più".
In generale, affinché l'induzione sia giustificata, occorre che i dati raccolti esprimano non già delle semplici proprietà accidentali degli individui, ma qualche proprietà essenziale della loro natura. Se la raccolta di dati non è in grado di esprimere proprietà essenziali, ogni tentativo di trasformarla in premessa di un sillogismo è illusorio. Sorge allora un problema fondamentale, in quanto l'induzione non può fondarsi sull'osservazione di tutti i casi di una determinata proprietà; in questo senso, Aristotele la giudica un'argomentazione più debole del sillogismo. Relativamente alla natura, tuttavia, egli ritiene sufficiente a stabilire premesse universali il fatto che certi fenomeni si verifichino "per lo più"; ciò basta a indicare che essi derivano dalla natura delle cose cui si riferiscono (cioè dalla loro essenza), in base al principio che "la natura non opera a caso".

L'essenza delle cose è colta sulla base dell'esperienza, ma in virtù di una "intuizione intellettuale"
L'induzione dunque non si fonda sull'enumerazione, ma si serve di questa come base di un processo di astrazione e di intuizione intellettuale dell'essenza delle cose. In concreto: l'osservazione di un numero anche limitato di casi basta all'intelligenza, secondo Aristotele, per distinguere nelle cose osservate i caratteri essenziali da quelli accidentali (astrazione), e per cogliere quindi - con una specie di salto intuitivo dai particolari all'universale - l'essenza delle cose stesse. Questo metodo è ancor più valido quando si tratti di conoscere i principi primi di ogni scienza (assiomi).
In conclusione, per ciascuna scienza l'intelligenza (nóesis) stabilisce principi e le premesse, da cui poi il ragionamento (diánoia) trae le conclusioni specifiche. L'intera logica aristotelica è fondata su principi non dimostrabili ma colti direttamente dall'intelletto.


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Cioffi, Luppi, Vigorelli, Zanette: Il testo filosofico Mondadori 1991, pagg. 507-508
L'induzione. I principi primi sono tratti dalla generalizzazione di dati empirici
Una ulteriore, importante via d'accesso alla conoscenza dei principi è rappresentata dalla generalizzazione dei dati dell'osservazione sensibile. Aristotele considera due differenti modalità secondo cui tale generalizzazione si verifica, definite entrambe col termine epagoghé (per lo più tradotto con "induzione") (vedi Unita' 15, Dizionario: Induzione e deduzione). In un primo senso epagoghé indica il processo, di ordine psicologico, attraverso cui successive percezioni di oggetti appartenenti a una stessa specie, conservandosi nella mente in virtù della memoria, vengono a sovrapporsi l'una all'altra, per dar luogo, in conclusione, all'atto intuitivo che da quel materiale di origine empirica trae il concetto. La forma intelligibile conveniente a tutti i membri della specie ed espressa nella definizione (quest'ultima. come abbiamo visto, rientra tra i principi "propri" della scienza dimostrativa). Così, sulla base di successive sensazioni di calore prodotte dal contatto (o dalla vicinanza) col fuoco e conservate dalla memoria, è possibile giungere con un atto di intuizione intellettuale (nous) a cogliere nel calore un tratto costitutivo dell'essenza del fuoco; la conseguente definizione di quest'ultimo come "elemento caldo" rappresenta uno dei "principi propri" delle indagini fisiche.

In un secondo senso, il termine epagoghè denota il procedimento detto in seguito "induttivo", il quale - muovendo da premesse particolari, cioè da proposizioni riguardanti singoli oggetti e formulate sulla base dell'osservazione sensibile - consente di pervenire a conclusioni di carattere generale, per quanto senza il rigore che è proprio della dimostrazione apodittica, le cui inferenze sono di tipo deduttivo (vedi Unità 15). Così, muovendo da premesse fondate sull'osservazione di casi particolari, quali per esempio: "Mosso dall'ira, Tizio ha agito in modo violento" e "Mosso dall'ira, Caio ha agito in modo violento" e ancora "Mossa dall'ira, Giulia ha agito in modo violento ", è possibile derivare la conclusione generale: "Tutti coloro che sono mossi dall'ira (gli iracondi) agiscono violentemente". Questa proposizione -guadagnata "induttivamente"- può divenire uno dei principi da cui muovere -questa volta deduttivamente- nell'indagine sui comportamenti umani: "Tutti gli iracondi sono violenti"; "Alcuni genitori sono iracondi"; dunque "Alcuni genitori sono violenti".

Scienza - Epistème
La scienza consiste nella conoscenza della causa (vedi) per cui una cosa è in un determinato modo. Il metodo della scienza è la dimostrazione o sillogismo scientifico. La ricerca delle premesse vere ("principi propri") da cui muove la dimostrazione in ogni ambito disciplinare avviene con procedure dialettiche (vedi) o "induttive". Le scienze "teoretiche" si distinguono da quelle "pratiche" e "poietiche" per l'oggetto e per lo scopo.


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Per giustificare gli autori, si può concedere che nella stessa trattazione aristotelica vi sono zone d'ombra, che spiegano le difficoltà e le peripezie concettuali degli interpreti.
Ammesso questo, occorre aggiungere che troppi autori nulla hanno fatto per portare un po' di luce su certe parti oscure dell'Aristotelismo, nel rispetto delle esigenze anche didattiche. Si noti infatti l'ammucchiata delle affermazioni, a volte accettabili, a volte insensate, che finiscono per negarsi a vicenda: discutendo la verità delle premesse, in poche righe si riesce ad affermare, a chiaro titolo, che essa dipende dall'induzione, e subito dopo a negarlo, in nome del nous aristotelico. Si noti anche la disinvoltura del linguaggio:
"generale" viene impiegato in luogo di "universale", e in un caso il nous diventa perfino una "pura intuizione razionale", il che costituisce una contraddizione in termini e un deplorevole coacervo linguistico-concettuale.

Cosa potranno mai ricavare i nostri studenti da certe argomentazioni così farraginose ed incerte? Cosa pensare di certi "strumenti didattici" (?!)? Come si può pretendere una buona didattica, quando manca una conoscenza chiara e adeguata dei contenuti?

Il punto di vista di Aristotele negli "Analitici secondi"
Lasciamo parlare Aristotele, prendendo come riferimento privilegiato gli Analitici secondi, in cui fornisce precisazioni indispensabili, operando una distinzione fondamentale: quella tra Scienza dimostrativa e Intelletto intuitivo (Nous).

«Per dimostrazione, intendo il sillogismo scientifico ... sarà pure necessario che la scienza dimostrativa si costituisca sulla base di premesse vere, prime, immediate...». (I, 2, 71b).
«La dimostrazione è un sillogismo fondato su premesse necessarie. Bisogna dunque stabilire quali siano, e quale natura abbiano le premesse, onde discendono le dimostrazioni». (I, 4, 73a, 25)

«... la scienza dimostrativa si costituisce dunque sulla base di principi necessari ... è evidente che il sillogismo dimostrativo dovrà discendere da certe premesse contenenti determinazioni per sé. Qualsiasi determinazione, in effetti, o appartiene in questo modo all'oggetto, oppure vi appartiene accidentalmente. Ma le determinazioni accidentali non sono necessarie» (I, 6, 74b, 5 e 10).

Proponendo queste riflessioni, Aristotele si sofferma sulla nozione di scienza dimostrativa, spiegando che essa deve avere, necessariamente, una struttura sillogistica, come tale capace di ricavare conclusioni necessarie da premesse vere e necessarie. Mentre per un sillogismo non scientifico è sufficiente la coerenza interna tra premesse e conclusioni, tale coerenza è condizione indispensabile ma non sufficiente per il sillogismo scientifico, cioè per la scienza dimostrativa; questa richiede un prerequisito di grado superiore, vale a dire la verità e l'incontrovertibilità delle premesse fondamentali. Esse, ovviamente, non possono essere a loro volta ricavate tramite dimostrazione o deduzione, perché è proprio la scienza dimostrativa a fondarsi su di esse: qualsiasi ragionamento dimostrativo dipende in ultima analisi da premesse principiali che non possono essere raggiunte per via di procedimenti logici-razionali-deduttivi-dimostrativi.

Aggiungeremo che Aristotele, riflettendo sulla comprensione delle essenza (le premesse devono infatti contenere le determinazioni essenziali, non quelle accidentali), esclude che l'essenza di qualsiasi ente possa esser colta con un processo induttivo (quello dimostrativo l'abbiamo già accantonato):

«Colui che definisce, allora, come potrà dunque provare [...] l'essenza? [...] non si può dire che il definire qualcosa consista nello sviluppare una induzione attraverso i singoli casi manifesti, stabilendo cioè che l'oggetto nella sua totalità deve comportarsi in un certo modo [...] chi sviluppa un induzione, infatti, non prova che cos'è un oggetto, ma mostra che esso è, oppure che non è. In realtà, non si proverà certo l'essenza con la sensazione, né la si mostrerà con un dito [...] oltre a ciò, pare che l'essenza di un oggetto non possa venir conosciuta né mediante un'espressione definitoria, né mediante dimostrazione» (II, 7, 92a-92b).

In special modo nella parte finale degli Analitici secondi, Aristotele affronta perciò il nodo decisivo: come vengono colti i principi primi e le essenze?
«Quanto ai principi, chi aveva in precedenza dei dubbi potrà comprendere chiaramente da ciò che segue, in che modo essi divengano manifesti, e quale sia la facoltà che giunge a conoscerli [...] che senza conoscere i primi principi immediati non sia possibile conoscere mediante dimostrazione, già si è detto in precedenza» (II, 19, 99b).

A questo punto, Aristotele dice che occorre distinguere tra le facoltà di conoscenza, poiché alcune «risultano sempre veraci», altre, invece, «possono accogliere l'errore»; e tra queste ultime indica «l'opinione e il ragionamento, mentre i possessi sempre veraci sono la scienza e l'intuizione, e non sussiste alcun genere di conoscenza superiore alla scienza, all'infuori dell'intuizione. Ciò posto, e dato che i principi risultano più evidenti delle dimostrazioni, e che, d'altro conto, ogni scienza si presenta congiunta alla ragion discorsiva, in tal caso i principi non saranno oggetto di scienza (dimostrativa); e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l'intuizione, sarà invece l'intuizione ad avere come oggetto i principi» (II, 19, l00b).

Nessun dubbio: l'intuizione intellettuale dei principi (e delle essenze) è superiore alla scienza e alla ragion discorsiva, le quali dipendono interamente da tale apprensione intuitiva; infatti la ragione, da sola, potrebbe accogliere l'errore, proprio come l'opinione, sottolinea Aristotele. Perciò l'intelletto intuitivo (nous) è il vertice del conoscere anche per Aristotele, e solo esso può fornire al ragionamento sillogistico-deduttivo quei principi primi (e quelle essenze) da cui partire per costruire elaborazioni logiche veraci. Perciò «l'intuizione dovrà essere il principio della scienza»: questa è la chiara e indiscutibile conclusione degli Analitici secondi.

Cosa scrive Aristotele nelle altre opere?
«In primo luogo noi riteniamo che il sapiente conosca tutte le cose nei limiti del possibile, senza che, però, egli abbia conoscenza di tali cose nella loro particolarità [...] risulta indispensabile che la conoscenza scientifica di tutte le cose sia proprietà di colui che conosce l'universale nella maniera più elevata, giacché questi, in un certo senso, conosce tutto ciò che all'universale soggiace, ed è senza dubbio molto arduo per gli uomini saper discernere queste cose, ossia le più universali, giacché esse sono molto remote dalle sensazioni; d'altra parte, le scienze più esatte sono quelle che si attengono massimamente ai primi principi.». (Metafisica,I, 2, 982a).

«l'esperienza è conoscenza del particolare, mentre l'arte è conoscenza dell'universale. [...] Gli empirici, infatti, sanno il che, non il perché [...] noi riteniamo che l'arte, più che l'esperienza, possa accostarsi alla scienza [...] le sensazioni, da parte loro, sono indubbiamente fondamentali per l'acquisizione di conoscenze particolari, ma non ci spiegano le cause.». (Metafisica I, 1, 981a -981b).

«[...] principio di tutto è l'essenza: dall'essenza, infatti, partono i sillogismi.». (Metafisica VII, 9, 1034a, 30-31).

«Quanto all'intelletto, sembra sopra sopravvenire in noi con una sua esistenza sostanziale e non corrompersi. [...] Il ragionare, l'amare o l'odiare non sono affezioni dell'intelletto, ma del soggetto [...] l'intelletto è, senza dubbio, qualcosa di più divino e di impassivo.» (Dell'anima I, IV, 408b).

«Riguardo all'intelletto (nous) [...] sembra che esso solo possa esser separato, come l'eterno dal corruttibile.» (Dell'anima II, I, 413b).

«[...] la sensazione in atto ha per oggetto cose particolari, mentre la scienza ha per oggetto gli universali e questi sono, in certo senso, nell'anima stessa» (Dell'anima II, V, 417b).

Dicendo così, Aristotele segue sostanzialmente una lunga tradizione, e sulla scia di questa mette a punto, o meglio riconferma, l'a-b-c del linguaggio della metafisica, quale poi ritroveremo anche nel nostro Medio Evo e nell'età moderna, quasi fino a Kant, il quale ha avuto il demerito (non solo lui) di contribuire a ingrovigliare quel che era la precisa terminologia basilare di una grande tradizione, apportando delle innovazioni abusive che hanno ingenerato più che altro equivoci e confusione, come è facile constatare leggendo le opere di Kant e Hegel, per non dire di altri autori a noi più vicini. Come è noto, l'arbitrio più immediatamente visibile riguarda proprio l'assurda inversione dei rapporti tra ragione e intelletto, pretendendo di ridurre quest'ultimo a semplice intelletto discorsivo (Kant) o ad intelletto astratto (Hegel), ed affidando alla ragione un ruolo sovraintellettuale e "metafìsico", che è del tutto inconcepibile ed improponibile, alla luce della tradizione filosofica e delle considerazioni già svolte a proposito di Aristotele, là dove viene focalizzato in modo ineccepibile il corretto rapporto tra le facoltà ed il ruolo primario dell'intelletto intuitivo (nous).

Aristotele empirista-induttivista?
Come abbiamo potuto notare, Aristotele in moltissimi luoghi di varie opere (ne abbiamo citato solo alcuni) riconferma la funzione insostituibile e principiale del nous, nel mentre ridimensiona le esperienze sensibili. Ciò nonostante, i sostenitori della tesi filoempirista si basano unilateralmente su pochi e controversi passi delle opere aristoteliche, per avvalorare la loro interpretazione. Due passi si trovano negli Analitici secondi, là dove si dice:

«Orbene, la dimostrazione parte da proposizioni universali, mentre l'induzione si fonda su proposizioni particolari; non è tuttavia possibile cogliere le proposizioni universali, se non attraverso l'induzione, poiché anche le nozioni ottenute per astrazione saranno rese note mediante l'induzione.» (I,18,81b).

«È dunque necessario che noi giungiamo a conoscere gli elementi primi con l'induzione» (II, 19, l00b).

Naturalmente, essi ignorano volutamente gli innumerevoli passi in cui Aristotele riafferma di affidarsi al nous; per esempio, in aggiunta a quelli già citati: «Ed allo stesso modo che negli altri campi il principio è qualcosa di semplice [...] nella sfera della dimostrazione e della scienza è l'intuizione intellettuale» (Analitici secondi I, 23, 84b-85a).

«Inoltre, la dimostrazione universale è oggetto d'intuizione intellettuale, mentre quella particolare sfocia nella sensazione» (Analitici secondi I, 24, 86a).

Non avendo argomenti sostanziosi, i sostenitori dell'Aristotele empirista-induttivista non tentano nemmeno di spiegare seriamente perché di norma il nous sia comunque segnalato come vertice del conoscere, e preferiscono sminuire questo aspetto centrale della metafisica classica, senza cercare di rendere conto di certe incoerenze che sembrano affiorare in qualche parte oscura delle opere in questione. Trattasi di incongruenze che, se effettive, ridimensionerebbero alquanto il valore del pensiero aristotelico, specie se confrontato con quello del suo maestro Platone e degli eredi "ortodossi" dell'Accademia platonica.
Le eventuali zone d'ombra di Aristotele non autorizzano comunque ad aggiungere confusione: anzi, occorre dipanare la matassa, riportando il tutto all'essenziale. Si ammetta pure che Aristotele, in qualche passo, sembra fare delle concessioni eccessive all'induzione; di qui l'interrogativo: Aristotele non si rendeva conto delle banali contraddizioni in cui incappava, quando sembrava attribuire anche all'induzione una parte delle prerogative riservate al nous? Riflettendo su questo aspetto problematico, anche interpreti che non hanno alcuna simpatia per il nous aristotelico, sono stati costretti a rivedere il concetto di induzione1, precisando che in Aristotele tale termine (induzione - epagoghé) non sembra avere lo stesso significato che ha presso i moderni e l'epistemologia contemporanea2, in cui solitamente si intende un processo di generalizzazione empirica tendente all'universale, ma di fatto impossibilitato a fondare l'universale, non essendovi passaggio logico (necessario) dai particolari allo universale.

Breve rassegna sul tema
E. Berti
Noto studioso di Aristotele, tende a minimizzare il più possibile il nous aristotelico, per supportare una sua personale ricostruzione del pensiero aristotelico, volta alla valorizzazione di altri aspetti di tale filosofia.
Ciò nonostante, commentando la funzione dell'induzione, la considera semplicemente «un processo che parte dagli oggetti più noti a noi (le realtà sensibili)» per dirigersi verso la conoscenza dei principi (v. Aristotele, Colonna ed., 1997, pag. 47, nota 9). Bertì ammette, in definitiva, che i principi indimostrabili si colgono con l'intuizione intellettuale, nel mentre risultano assai problematiche le concessioni all'induzione, a meno di non intenderla in modo ben diverso rispetto a quello oggi corrente; ed infatti Berti, in un altro testo, cerca di delineare con maggior convinzione il rapporto tra induzione e intuizione intellettuale, scrivendo che Aristotele, negli Analitici secondi, «presenta il nous come risultato di una epagogé, cioè di un processo che significa non solo induzione come generalmente lo si intende3, ma anche guida a qualcosa (da ago, condurre, guidare, epì, a, o verso), ossia introduzione. Si tratta del processo attraverso cui il docente guida, o conduce, i discepoli all'apprensione dei principi» (Le ragioni di Aristotele, Laterza ed., 1989, pag.15).

G. Reale
Nella Storia della filosofia antica scrive:

«Aristotele sottolinea che l'induzione non è propriamente un ragionamento, bensì un esser condotto dal particolare all'universale» (vol. V, Vita e pensiero, 1983, pag. 142).

Lo stesso concetto è trattato più estesamente in un altro testo:

«Malgrado Aristotele negli Analitici tenti di far vedere come la stessa induzione possa essere sillogisticamente trattata, non solo non ci riesce, ma questo tentativo rimane del tutto isolato ed egli riconosce invece, solitamente, che l'induzione non è un ragionamento, ma un essere condotto dal particolare all'universale ad opera di una specie di coglimento immediato o di intuizione. [...] L'intuizione è invece il coglimento puro e semplice dei principi primi. Dunque, anche Aristotele ammette l'intelletto intuitivo» (Introduzione a Aristotele, Laterza 1977, pag. 158).

Nello stesso testo, dopo aver riportato un ampio brano degli Analitici secondi (II, 19, l00b 5-17), così commenta:

«Una pagina, come si vede, che dà ragione alla istanza di fondo del platonismo: la conoscenza discorsiva suppone a monte una conoscenza non discorsiva, la possibilità del sapere mediato suppone di necessità un sapere immediato» (pag. 159).

K. Popper
Per quanto riguarda il rapporto induzione-intuizione intellettuale, tutto sommato le precisazioni fornite in La società aperta e i suoi nemici risultano ragionevoli e sensate, nonostante le riserve che è lecito nutrire per il modo alquanto esteriore di valutare l'intuizione intellettuale, certamente dovuto alla diffidenza (se non all'ostilità) di Popper per il nous aristotelico-platonico (diffidenza peraltro manifesta in quasi tutti i moderni e i contemporanei).

Indipendentemente da ciò, Popper ha il merito di riuscire a focalizzare egregiamente il nucleo più rilevante della problematica in questione, senza farsi sviare dai tentativi aristotelici di differenziarsi da Platone, che tutto sommato risulterebbero quasi sempre velleitari. Nel sostenere la sua tesi, Popper riprende il testo su Aristotele del Grote, citato espressamente e commentato con grande favore, poiché egli condivide pienamente la posizione di Grote ,secondo cui «Aristotele ha ereditato da Platone la sua dottrina di un Nous o Intelletto infallibile».

Secondo Grote, Aristotele ha cercato di rivalutare l'esperienza osservativa rispetto a Platone, che l'avrebbe svalutata; pur tuttavia, l'impostazione teoretica resterebbe sostanzialmente platonizzante, poiché, commenta Popper, «l'esperienza fondata sull'osservazione ha evidentemente solo la funzione di innescare e di sviluppare la nostra intuizione intellettuale per il suo compito, l'intuizione della essenza universale; e, in realtà, nessuno ha mai spiegato come le definizioni, che sono al di là dell'errore, possono essere raggiunte mediante induzione».

Riflettendo sull'induzione aristotelica, Popper accenna ai diversi possibili significati di essa:

«Sembra che Aristotele parli dell'induzione in almeno due sensi [...] in un senso più euristico [...] e in un senso più empirico».

Soprattutto, avanza sostanziose riserve nei confronti dell'induzione così come comunemente intesa, dato che «la massima oscurità si incontra nella trattazione di Aristotele del modo in cui, mediante un processo di induzione, noi risaliamo alle definizioni che sono principi».
Evidentemente, l'induzione aristotelica deve avere un senso diverso da quello usuale, e anche qui Popper aderisce alla tesi del Grote che vede nell'induzione una specie di preparazione all'intuizione intellettuale, dato che Aristotele assegna al nous «una posizione di termine e di correlativo al processo di induzione» (La societa' aperta e i suoi nemici, Armando ed., cfr. note 31, 32, 33 del cap. XI).

Conclusione
Esclusa la possibilità di ridurre l'induzione aristotelica alla generalizzazione empirica e ad una presunta logica induttiva4, gli altri significati evidenziati da autori molto diversi risultano invece compatibili e capaci di fornire utili chiarimenti a questa "parte oscura" della trattazione aristotelica. In particolare, la tesi di Grote e Popper sembra riassorbire anche quelle di Berti e Reale, per cui pare lecito assumerla come punto di riferimento per rileggere correttamente la teoria aristotelica del conoscere, la quale assegna al nous una funzione sovraordinata e conclusiva rispetto all'induzione e all'esperienza sensibile in genere, le quali quindi costituiscono un grado preparatorio di avviamento verso l'intuizione intellettuale. Del resto, non aveva ragione Platone nel dire che l'esperienza umana ordinaria comincia necessariamente dalle "ombre della Caverna", per cui solo in seguito essa può elevarsi all'intuizione intellettuale?

Popper sintetizza così: «L'opinione di Aristotele è meno radicale e meno ispirata di quella di Platone, ma in fin dei conti equivale ad essa. Infatti, benché affermi che arriviamo alla definizione soltanto dopo aver fatto molte osservazioni, egli ammette che l'esperienza sensibile non coglie di per sé l'essenza universale... In conclusione, egli postula semplicemente il possesso, da parte nostra, di una intuizione intellettuale che ci mette in grado di cogliere le essenze delle cose... » (La societa' aperta e i suoi nemici, Armando, 1974, vol. 11, pag. 21).
Soprassedendo sul fatto che in realtà Popper vorrebbe farsi beffe del nous e delle essenze, soffermiamoci su ciò che più importa: ripetute esperienze sensibili di per se stesse non possono implicare logicamente l'universale, poiché, come conferma lo stesso Popper, è impossibile che si dia qualcosa di simile ad una logica induttiva (la logica è solo deduttiva). L'intuizione intellettuale non è perciò la conclusione logica di ripetute esperienze; tra queste e l'intuizione intellettuale vi è un salto extralogico, nel senso che l'intuizione non completa in modo logico un percorso induttivo: quest'ultimo, tuttavia, può creare condizioni favorevoli per l'intuizione noetica, o comunque stimolarla, risvegliarla; essa si realizza quando il nous penetra l'essenza di qualcosa. Detto altrimenti: posso dire che "tutti gli uomini sono mortali" non perché abbia esperienza della morte di molti uomini (da "molti" a "tutti" c'è un salto logicamente incolmabile), ma perché il nous ha intuito che la mortalità appartiene necessariamente alla struttura essenziale dell'uomo5: questo risulta essere il pensiero di Aristotele in merito, che proprio per questo considera il nous come superiore alla scienza e vertice della conoscenza.

 


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Note
1- Il fatto poi che Aristotele attribuisca addirittura a Socrate l'invenzione dell'induzione, non può che rafforzare i sospetti circa il reale significato del termine epagoghé, dato che Socrate non era certo un induttivista nel senso dell'epistemologia attuale (cfr. Metafisica XIII, 4, lO78b, 25-3O). torna al testo ^

2- E. Severino, commentando il Libro I della Fisica aristotelica, riporta testualmente questo brano: «... gli enti della natura sono, tutti o alcuni, in movimento. Il che è evidente per induzione». Nel commento in nota, Severino si limita a questa considerazione: «Aristotele afferma pertanto: il movimento è evidente per induzione e cioè in base alla percezione sensibile o apprensione immediata del divenire» (I principi del divenire, La Scuola, 1983, pagg. ll-12). In questo caso induzione significa semplicemente intuizione immediata di qualcosa di evidente, e non certo "logica induttiva". torna al testo ^

3- È interessante rilevare che anche nell'Induismo compare un termine solitamente tradotto con "induzione": il termine è "anumana". Anche in questo caso, però, il significato di anumana non è quello di logica induttiva derivante da generalizzazione empirica. Trattasi invece di un procedimento tale per cui «l'induzione s'innalza al di sopra della percezione sensibile e permette dl trasporsi ad un grado superiore...» (R. Guénon, L'uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Ed. Studi Tradizionali, 1965, pag. 24). torna al testo ^

4- Per il resto, occorre considerare che alcune affermazioni dl Aristotele sull'induzione, non depongono di per sé a favore di una impossibile "logica induttiva", e però possono benissimo adattarsi alla rilettura che ne abbiamo proposto: «Induzione d'altra parte è la via che dagli oggetti singoli porta all'universale.. L'induzione è qualcosa di più persuasivo, di più chiaro, di più conoscibile nella sfera della sensazione, e alla portata della stragrande maggioranza delle persone; il sillogismo invece è più possente e più efficace contro gli esperti nell'arte di contraddire» (Topici I, 12, 105a). «L'osservazione della somiglianza è dal canto suo utile sia per i discorsi induttivi, sia per i sillogismi poggiati su di un'ipotesi... Rispetto ai discorsi induttivi essa è utile, poiché siamo convinti di suscitare l'universale attraverso l'induzione fondata sui casi singoli che risultano simili.» (Topici,I, 18, 108b).
Si noti che l'espressione «suscitare l'universale» non indica certo una logica induttiva, ma piuttosto il fatto di risvegliare l'intuizione dell'universale, e in questo senso l'induzione, in quanto capace di contribuire a stimolare-suscitare l'intuizione, sarebbe anche «la via che porta all'universale», di cui al brano precedente. torna al testo ^

5- A rischio di passare per pedanti, rimarchiamo una volta di più questo passaggio decisivo, poiché troppo spesso travisato: la premessa universale "tutti gli uomini sono mortali", proposta in tutti i manuali per motivi didattici, non viene raggiunta "logicamente" sulla base di una generalizzazione a partire da un numero finito di esperienze circa il morire; e però tali esperienze "induttive" possono precostituire le condizioni, per l'intuizione noetica del fatto che la mortalità appartiene all'essenza di qualsiasi uomo. Questo è quanto dice espressamente lo stesso Aristotele, nel contesto di un esempio diverso nel dettaglio, ma non nella sostanza: vedendo come il fenomeno si ripete e si sviluppa nei casi singoli, «potremmo al tempo stesso intuire che tutte le altre volte esso dovrà verificarsi a questo modo» (Analitici secondi I, 31, 88a). torna al testo ^