La storia telefalsificata
di Ryszard Kapuscinski - 24/01/2007
Lo scrittore e giornalista polacco Ryszard Kapuscinski è morto ieri a Varsavia. Aveva 74 anni. Kapuscinski era diventato famoso, tra le altre cose, per i suoi reportage di guerra da paesi dell'Asia, dell'Arica e dell'Europa, e per i suoi libri sulla caduta di Haile Selassie e Mohammad Reza Phlevi.Lo vogliamo ricordare con questo suo discorso sui pericoli di disinformazione che corrono i popoli che vivono sotto l’influenza dei media: la civiltà dipende sempre più dalla versione della storia immaginata dalla televisione.
In quale misura i mezzi di informazione sono uno specchio fedele del mondo? Da quando le nuove tecnologie hanno rivoluzionato il giornalismo e permesso la creazione di grandi gruppi mediatici con ambizioni planetarie, questa domanda risulta più pertinente che mai. L’istantaneità e la trasmissione in diretta hanno cambiato le condizioni del giornalismo di inchiesta e l’imperativo del beneficio ha preso il posto di altre e più nobili esigenze civiche. Ma in tutti gli altri contesti l’altro giornalismo resiste, più preoccupato per la verità e il rigore, come si è visto per esempio in Iran, In Burkina Faso, in Algeria, in altri luoghi...
Nei dibattiti sui media si concede un’attenzione eccessiva ai problemi
tecnici, alle leggi di mercato, alla competenza, all’innovazione e all’indice di gradimento. E un’attenzione insufficiente agli aspetti umani. Non sono un teorico dei media, ma un semplice giornalista, uno scrittore che ormai da 40 anni si dedica a raccogliere ed elaborare l’informazione (e anche a usufruirne). Mi piacerebbe condividere le conclusioni a cui sono giunto alla fine di questa lunga esperienza.
La mia prima osservazione si riferisce alle dimensioni. Affermare, come si fa spesso, che “tutta l’umanità” dipende esclusivamente da ciò che dicono i media è un’esagerazione. Compreso quando eventi come l’apertura dei Giochi Olimpici sono visti da due miliardi di spettatori, questo non rappresenta più di un terzo della popolazione del pianeta. Altri mega-eventi (mondiali di calcio, matrimoni o funerali di grandi personalità) sono diffusi in modo massiccio attraverso gli schermi e soltanto il dieci o venti per cento degli esseri umani li guarda.
Si tratta sicuramente di masse gigantesche, ma non “tutta l’umanità”. Centinaia di milioni di persone non hanno assolutamente alcun contatto con i media. In diverse regioni dell’Africa, la televisione, la radio e anche i giornali sono inesistenti. Nel Malawi non c’è più di un solo periodico, in Liberia due, per di più piuttosto mediocri, e nessun canale televisivo.
In numerosi paesi la televisione non funziona più di tre ore al giorno. E in vaste estensioni dell’Asia - per esempio in Siberia, nel Kazakistan o in Mongolia - c’è qualche rete televisiva, ma le persone non possiedono ricettori che permettano loro di captare i programmi. All’epoca di Leonid Brezhnev, nei grandi spazi della Siberia sovietica, i programmi delle radio occidentali non erano intercettati perché, non essendoci ricettori, nessuno poteva sentirli.
Gran parte dell’umanità vive fuori dall’influenza dei media e non ha alcuna ragione per inquietarsi a causa delle manipolazioni mediatiche o della cattiva influenza dei mass media. Spesso, in particolare in America latina e in Africa, l’unica funzione della televisione è il divertimento. S’incontrano televisori nei bar, nei ristoranti e negli alberghi. Le persone hanno l’abitudine di andare al bar per bere qualcosa e guardare la televisione. E a nessuno viene l’idea di esigere che questo mezzo di comunicazione sia serio o abbia una qualsiasi funzione informativa o educativa. La maggior parte degli africani e dei latino-americani non si aspetta dalla televisione un’interpretazione seria del mondo, bensì quello che si aspetterebbe da un circo.
La grande rivoluzione delle nuove tecnologie è un fenomeno recente. La sua prima conseguenza importante è stato un cambiamento radicale nell’universo del giornalismo. Pensiamo al primo vertice di capi di stato dell’Africa. Si è celebrato ad Addis Abeba (Etiopia) dove sono arrivati giornalisti da tutto il mondo. Circa duecento inviati speciali e corrispondenti di grandi periodici internazionali, agenzie di stampa e stazioni radio. Alcune équipe giravano documentari informativi, ma non c’era nessuna equipe televisiva. Ci conoscevamo tutti, sapevamo ciò che faceva ognuno di noi ed eravamo addirittura amici. Autentici maestri di penna e veri esperti delle grandi questioni internazionali erano presenti. Quando penso a questo, e senza alcuna nostalgia per una “età dell’oro” che non è mai esistita, mi sembra che sia stata l’ultima riunione di inviati in tutto il mondo, e la fine di un’epoca eroica in cui il giornalismo era considerato una professione riservata ai migliori, una vocazione elevata, nobile, a cui l’interessato si dedicava interamente per tutta la vita.
Dopo è cambiato tutto. La ricerca e la diffusione di informazioni si è convertita in un’occupazione praticata in ogni paese da migliaia di persone. Le scuole di giornalismo si sono moltiplicate formando, anno dopo anno, gli esordienti che arrivano alla professione. Questo non c’entra niente. In altri tempi il giornalismo era una missione, non una carriera. Oggi non si contano gli individui che praticano il giornalismo senza identificarsi con questa professione, o senza aver deciso di dedicarvi pienamente la propria vita e il meglio di se stessi. È, per qualcuno, una sorta di hobby, che può abbandonare in ogni momento per fare qualcos’altro. Numerosi giornalisti attuali potrebbero andare a lavorare domani in un’agenzia pubblicitaria e convertirsi, dopodomani, in agenti di cambio. Le tecnologie di punta hanno provocato una vera proliferazione nei media. Quali saranno le conseguenze? La principale è la scoperta che l’informazione è una merce la cui vendita e diffusione possono portare grandi vantaggi. In passato, il valore dell’informazione era associato a diversi parametri, in particolare a quello della verità. Era concepito anche come un’arma che favoriva la lotta politica. È ancora giovane il ricordo degli studenti che nell’epoca del comunismo bruciavano sulla strada copie del giornale del mattino urlando “la stampa mente”. Oggi è tutto cambiato. Il prezzo dell’informazione dipende dalla domanda, dall’interesse che suscita. Ciò che importa è la vendita. Un’informazione sarà considerata senza alcun valore se non riesce ad interessare un pubblico ampio.
La scoperta dell’aspetto commerciale dell’informazione ha motivato l’affluenza di grandi capitali verso i media. I giornalisti idealisti, questi dolci sognatori in cerca della verità, che prima dirigevano i periodici, sono stati sostituiti, spesso, negli incarichi direzionali, da uomini d’affari.
Tutti quelli che visitano le redazioni dei periodici più importanti possono confermare questi cambiamenti. Prima i media erano installati in edifici di seconda categoria e disponevano di uffici stretti, oscuri e mal arredati, nei quali giravano giornalisti straccioni e sempre al verde, circondati da montagne di disordine, da giornali e da libri. Oggi, basta visitare i locali di una grande rete televisiva: gli edifici sono sontuosi, tutti marmo e specchi. I visitatori sono condotti da uscieri-guida attraverso larghi corridoi ricoperti di moquette. Questi palazzi sono ora le sedi di un potere di cui prima solo i presidenti degli Stati e i capi di governo disponevano. Questo potere si trova ora in mano ai proprietari dei nuovi gruppi di media.
È il mercato che verifica
Da quando è considerata una merce, l’informazione non è più sottomessa ai criteri tradizionali di verifica, di autenticità o di errore. Oggi è retta dalle leggi del mercato. Questa evoluzione è la più significativa tra tutte quelle che hanno influenzato il terreno della cultura. Di conseguenza: si sono sostituiti i vecchi eroi del giornalismo con un numero imponente di lavoratori dei media, praticamente tutti confusi nell’anonimato. La terminologia usata negli Stati Uniti è rivelatrice di questo fenomeno: media worker soppianta spesso giornalista.
Il mondo dei media è esploso in tal modo che comincia a vivere come un’entità autosufficiente. La guerra interna tra gruppi mediatici è una realtà più intensa di quella del mondo che li circonda. Importanti equipe di inviati speciali viaggiano per il mondo. Formano una grande mandria, in seno alla quale ogni corrispondente vigila l’altro. Deve ottenere l’informazione prima del vicino. Lo scoop o la morte. Per questo, anche se certi eventi si producono simultaneamente nel mondo, i media si occupano di uno alla volta, quello che ha attirato tutta la mandria.
In più di un’occasione ho fatto parte di questa mandria. Inoltre l’ho descritta nel mio libro Da una guerra all’altra e so bene come funziona. La crisi provocata nel 1979 dalla presa degli ostaggi statunitensi a Teheran ne è un esempio. Anche se, in pratica, non accadeva niente nella capitale dell’Iran, migliaia di inviati speciali arrivati da tutto il mondo sono rimasti per mesi nella città. La stessa mandria si spostò, anni più tardi, nella zona del Golfo, durante la guerra del 1991, nonostante non potesse far nulla, perchè gli statunitensi vietavano a chiunque di avvicinarsi al fronte. In quello stesso momento, si succedevano degli eventi atroci in Mozambico e in Sudan; però questo non ha impressionato nessuno perchè la mandria si trovava nel golfo. Nel dicembre 1991, durante il colpo di Stato, la Russia ha avuto diritto alle stesse attenzioni. Mentre i fatti veramente importanti, le lotte e le manifestazioni avvenivano a Leningrado, il mondo le ignorava perchè tutti gli inviati di tutti i media non si spostavano dalla capitale, aspettando che accadesse qualcosa a Mosca, dove invece regnava una pace assoluta.
Le nuove tecnologie, soprattutto il telefono cellulare e la posta elettronica, trasformarono radicalmente i rapporti tra i giornalisti e i loro capi. Prima, il corrispondente di un giornale o di un’agenzia di stampa, o di una rete televisiva disponeva di una grande autonomia e poteva dare libero corso alla sua iniziativa personale.
Cercava l’informazione, la scopriva, la verificava, la selezionava, e le dava forma finale. Attualmente, e sempre più spesso, non è più di una semplice pedina che il suo capo sposta attraverso il mondo dal suo ufficio, che magari si trova dall’altro lato del pianeta. Da parte sua, questo capo ha a portata di mano informazioni provenienti da molteplici fonti (catene di informazione ininterrotte, comunicati di agenzie Internet) e può così avere la propria visione personale dei fatti, non di rado molto diversa da quella del giornalista che copre l’evento dove i fatti si svolgono.
A volte, il capo non può aspettare pazientemente che il reporter finisca il suo lavoro. Ed è lui che informa il giornalista dello svolgersi degli eventi e l’unica cosa che spera dal suo inviato speciale è la conferma dell’idea che lui stesso si è fatto sull’argomento. Molti giornalisti oggi hanno paura di cercare la verità da soli. In Messico, uno dei miei amici lavora per le reti televisive statunitensi. Io l’ ho incontrato per la strada, era in procinto di riprendere gli scontri tra studenti e polizia. “Che sta succedendo John?”, gli ho chiesto. “Non ho la benchè minima idea, mi ha risposto senza smettere di registrare. L’unica cosa che devo fare è registrare, mi basta riprendere l’immagine, poi la invio alla rete che fa ciò che vuole con questo materiale”.
L’ignoranza degli inviati speciali riguardo gli eventi che devono descrivere è a volte sorprendente. Quando si sono verificati gli scioperi di Gdansk, nell’agosto del 1981, che hanno dato origine al sindacato Solidarnosc, la metà dei giornalisti stranieri arrivati in Polonia per coprire gli eventi non riusciva a localizzare Gdansk (l’antica Dantzig) in una mappa. Sapevano ancora meno sul Ruanda nel periodo dei massacri del 1994: la maggior parte di loro metteva piede per la prima volta nel continente africano ed era sbarcata direttamente all’aeroporto di Kigali, in voli charter dell’Onu, sapendo a malapena dove si trovava. Quasi tutti ignoravano le cause e le ragioni del conflitto. Ma il problema non era colpa degli inviati. Loro sono le prime vittime dell’arroganza dei loro padroni, dei gruppi mediatici, e delle grandi reti televisive. “Che altro possono esigere da me?”, mi diceva recentemente il cameraman di una équipe di una grande catena di televisioni statunitensi. “In una settimana ho dovuto filmare in cinque paesi di tre continenti diversi.”
La storia “telefalsificata”
Questa metamorfosi dei media ci pone una questione fondamentale: come capire il mondo? Fino ad oggi, si capiva la storia grazie al sapere che ci collegava ai nostri antenati, a ciò che contenevano gli archivi e a ciò che scoprivano gli storici. Oggi, il piccolo schermo è la nuova (e praticamente l’unica) fonte della storia, distillando la versione già concepita e sviluppata per la televisione. Mentre l’accesso ai documenti continua ad essere difficile, la versione che diffonde la televisione, incompetente e ignorante, s’impone senza che possiamo discuterla. L’esempio più efficace di questo fenomeno è, forse, il Ruanda, paese che conosco bene. Centinaia di milioni di persone al mondo hanno visto le immagini delle vittime o delle stragi etniche con commenti in gran parte completamente erronei. Quanti telespettatori hanno completato questa visione ricorrendo ad opere affidabili sul Ruanda? Il rischio, quindi, è che si consumino molto più facilmente i media dei libri.
La civiltà dipende sempre più dalla versione della storia immaginata dalla televisione. Una versione spesso falsa e senza alcun affidamento. Il telespettatore di massa, alla fine, non conoscerà altro che la storia “telefalsificata”, e soltanto un piccolo numero di persone prenderà coscienza che esiste un’altra versione più autentica della storia.
Rudolph Arnheim, grande teorico della cultura, aveva già previsto, negli anni ‘30, nel suo libro Film as art, che l’essere umano avrebbe confuso il mondo percepito dalle sue sensazioni con il mondo interpretato dal pensiero, e avrebbe creduto che vedere è capire. Ma questo è falso. La televisione, ha scritto Arnheim, “sarà un esame più rigoroso per la nostra conoscenza. Potrà arricchire i nostri spiriti allo stesso modo in cui potrà renderli letargici”. Aveva ragione. La confusione, in generale inconscia, tra vedere e sapere, e vedere e capire, la utilizza la televisione per manipolare le persone. Una dittatura fa ricorso alla censura, una democrazia alla manipolazione. Il bersaglio di queste aggressioni è sempre lo stesso: il cittadino comune. Quando i media parlano di se stessi, nascondono il problema di fondo con la forma, sostituiscono la filosofia con la tecnica. Si domandano come editare, come montare o come stampare. Discutono problemi di montaggio, delle base dati o della capacità degli hard disk. Invece, non discutono il contenuto di ciò che vogliono editare o stampare. Il problema del messaggio è sostituito con quello del veicolo. Disgraziatamente, come lamentava Marshall McLuhan, il mezzo di comunicazione ha la tendenza a convertirsi nel contenuto del messaggio.
Prendiamo per esempio la povertà nel mondo, che è, senz’altro, il problema più grave della nostra epoca. Come ne parlano le grandi reti di televisioni? La prima manipolazione consiste nel presentare la povertà come sinonimo del dramma della fame. Ma i due terzi dell’umanità vivono nella miseria a causa di una ripartizione non equa delle ricchezze del mondo. La fame, però, compare in certi momenti e regioni molto precise, ma è in generale un dramma di dimensione locale. Inoltre, le sue cause si devono, nella maggior parte dei casi, a problemi climatici, a cataclismi come la siccità o le inondazioni, e a volte anche alle guerre. Bisogna aggiungere che i meccanismi di lotta contro la fame, come una piaga imprevista e puntuale, sono relativamente efficaci. Per combatterla, si utilizzano le eccedenze alimentari di cui dispongono i paesi ricchi e si inviano in grande quantità là dove il bisogno si fa sentire. Queste operazioni di lotta contro la fame, come in Sudan o in Somalia, sono ciò di cui ci hanno informato gli schermi televisivi. In cambio, non si è mai pronunciata una sola parola sulla necessità di sradicare la miseria nel mondo.
Il secondo stratagemma utilizzato dai manipolatori della miseria è la sua presentazione in emissioni di carattere geografico, etnografico e turistico, che rivelano regioni esotiche del pianeta. In questo modo, la miseria è assimilata all’esotismo, e la televisione diffonde il messaggio che i luoghi prediletti della miseria sono le regioni esotiche. Vista da questo angolo, la miseria sembra soltanto un fenomeno curioso, un’attrazione quasi turistica. Tali immagini abbondano particolarmente, in reti telematiche come Travel, Discovery, ecc.
L’ultima trovata di queste manipolazioni consiste nel presentare la miseria come un dato statistico, un banale parametro del mondo reale. Questo modo di vedere la miseria la condanna alla perpetuità; l’essere umano non può più sentirla come una minaccia per la civiltà una volta che bisogna imparare a vivere insieme ad essa.
Torniamo al punto di partenza: i media riflettono il mondo? Diciamo che lo fanno in un modo molto superficiale e frammentario. Si concentrano su visite presidenziali ed atti terroristici; e anche questi argomenti sembrano interessarli meno. Negli ultimi anni del ventesimo secolo l’audience dei telegiornali delle tre principali reti statunitensi si è abbassata dal 60% al 38% del numero totale di telespettatori. Il 72% dei temi è di interesse solo locale e si riferisce alla cronaca, alle aggressioni, alle droghe e ai delitti. Solo il 5% del tempo è dedicato alle notizie estere, e ci sono addirittura numerose edizioni che ignorano questo aspetto. Nel 1987, l’edizione statunitense del settimanale Time dedicò undici copertine a temi internazionali, mentre dieci anni più tardi, nel 1997, soltanto una. La selezione dell’informazione si basa sul principio “più sangue c’è, più si vende”.
Gli “anticorpi necessari”
Viviamo in un mondo paradossale. Da una parte ci dicono che lo sviluppo dei mezzi di comunicazione è riuscito ad unire tutte le parti del pianeta, per formare un “villaggio globale”, e dall’altra le tematiche internazionali occupano sempre meno spazio nei media, nascoste dall’informazione locale, dai titoli sensazionalisti, dai pettegolezzi, dai personaggi di moda e da tutta l’informazione-merce.
Ma per essere giusti la rivoluzione dei media è in pieno processo. Si tratta di un fenomeno recente nella civiltà umana; troppo recente per aver prodotto gli anticorpi necessari per combattere le patologie che esso genera: la manipolazione, la corruzione, l’arroganza e la venerazione della pornografia. La letteratura sui media è a volte molto critica, spesso anche implacabile. Prima o poi questa critica influirà almeno in parte sul contenuto dei media.
D’altronde bisogna riconoscere che molte persone si siedono di fronte alla televisione perchè si aspettano di vedere esattamente ciò che la televisione gli offre. Negli anni ‘30, il filosofo spagnolo Ortega y Gasset scriveva nel suo libro La rebelìón de las masas, che la società è una collettività di persone soddisfatte di loro stesse, dei loro gusti e delle loro scelte. Attualmente, il mondo dei media è diverso. È una realtà a diversi piani. Insieme ai “piani bassi” ce ne sono altri formidabili: ci sono alcuni prodigiosi programmi di televisione, eccellenti emissioni radiofoniche e giornali favolosi. Per quelli che desiderano veramente un’informazione onesta, di riflessione in profondità e basata su solide conoscenze, non mancano i media di qualità. A volte è difficile disporre del tempo necessario per assimilare l’offerta esistente. I media sono spesso vilipendiati per giustificare l’inerzia delle nostre proprie coscienze, la nostra passività.
E nessuno ignora che nelle redazioni dei giornali, negli studi di radio e televisione, ci sono giornalisti sensibili e di grande talento, persone che godono della stima dei loro contemporanei, che considerano il nostro pianeta un luogo appassionante, che vale la pena conoscere, capire e salvare. Per la maggior parte del tempo questi giornalisti lavorano dando mostra di abnegazione e di dedizione, con entusiasmo e spirito di sacrificio, rinunciando alle comodità, al benessere, fino ad arrivare ad ignorare la loro propria sicurezza personale. Con l’unico fine di rendere testimonianza del mondo che li circonda. E della moltitudine di pericoli e di speranze che gli appartiene.
Ryszard Kapuscinski (*)
Fonte: http://www.sagarana.net/rivista/numero7/index.html
Link: http://www.sagarana.net/rivista/numero7/saggio1.html
Numero 2 aprile 2002
(*)Ryszard Kapuscinski, polacco, è morto ieri a Varsavia all'età di 75 anni. Era nato a Pinsk (oggi Bielorussia) nel 1932. Cronista fuori del comune, è autore di libri memorabili, tradotti in più lingue: Le Shah (sulla caduta dello scià di Persia), L’imperatore (un profilo di Hailé Selassié e della sua corte), Imperium (uno straordinario viaggio nell’Unione Sovietica a cavallo tra il 1939 e il 1992). Il suo ultimo libro, Ebano, uscito da Feltrinelli, ha per protagonista l’Africa, dove si recò per la prima volta nel 1958, quando, per conto dell’agenzia di stampa polacca, copriva l’intero continente.
Questo testo riprende in sintesi il discorso pronunciato dall’autore a Stoccolma durante la cerimonia di consegna dei premi di giornalismo Stora Jurnalstpriset.