La costruzione del male. Dall’Olocausto all’11 settembre (il Mulino, Bologna 2006, pp. 239, euro 15.00) è uscito nel giugno dello scorso anno. E finora, purtroppo, è passato inosservato. Il che è un peccato, perché si tratta di un libro importante, e almeno per due ragioni.
In primo luogo perché permette di scoprire la ricchezza della ricerca teorica di Jeffrey C. Alexander, docente a Yale, dove è anche co-direttore del Center for Cultural Sociology. L'autore, un sociologo, ha scritto da solo e con altri, una trentina di libri. Tra i quali l’importantissimo Theoretical Logic Sociology (1982 -1983, 4 voll.), l’ intrigante raccolta su Durkheim (Durkhemian Sociology: Cultural Study, 1988), nonché un dissacrante saggio dedicato a Pierre Bourdieu (racchiuso in Fin-de-Siècle Social Theory: Relativism, Reduction and the Problem of Reason, 1995). Oltre, ovviamente, ad altri notevoli lavori dedicati alla sociologia culturale. Una disciplina, che Jeffrey concepisce, non tanto come analisi delle istituzioni (compito che già appartiene alla sociologia della cultura), quanto dei codici narrativi e discorsivi, che caratterizzano in termini funzionali, interagendo tra di loro, ogni cultura. Di conseguenza, la cultura viene vista come insieme di pratiche, volte alla riproduzione del sistema sociale. In questo senso, anche il sociologo vive immerso nella culura, anzi lui stesso, studiando e insegnando, fa cultura, o, appunto, sociologia culturale. Per chi desideri saperne di più sull’Alexander “teorico”, si consiglia la lettura della voce Funzionalismo e neofunzionalismo (da lui scritta in collaborazione con Paul Colomy), in “Enciclopedia delle Scienze Sociali”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1994, pp. 199-214. Anche perché, finora, Alexander, al di là degli ambienti specialistici, è poco noto. La costruzione del male, se ricordiamo bene, è il suo terzo libro tradotto in italiano.
In secondo luogo, la sociologia culturale, non è solo “roba” da professori. La costruzione del male, ribadisce come ogni società abbia proprio nella cultura il suo centro vitale. Un cuore pulsante, dove si mescolano emozioni, speranze, paure. Tutti sentimenti che, inevitabilmente, si traducono in narrazioni, che spesso assumono valore normativo. Dal momento che l’uomo sociale è capace di "costruire" il bene come il male”. Attenzione : non solo di “fare” il bene e il male, ma di “rappresentarli”, attraverso determinate strutture culturali, normative. Di qui il funzionalismo al contrario di Alexander, che si volge allo studio del male, che in apparenza, può sembrare “disfunzionale”. Mentre in realtà non lo è: perché svolge una precisa funzione identitaria e culturale. Certo, si tratta di un'antica idea filosofico-teologica, quella della dialettica tra bene e male. Ma Alexander ne fa una lettura sociologica, privilegiando il lato del male. Come nel caso dell’Olocausto, del quale, e giustamente, non viene mai messa in discussione in tutto il libro la verità storica. Alexander ne studia la rappresentazione culturale che i superstiti e le generazioni successive ne hanno dato. Sotto questo aspetto anche l'Olocausto diviene uno strumento simbolico, che come ogni strumento di questo tipo, ha fornito, dopo il 1945, senso storico e morale alle sue vittime, fornendo codici linguistici, letterari, cinematografici, giornalistici, dei quali il sociologo di Yale ricostruisce, molto attentamente origini e sviluppo. Tuttavia, come capita alle rappresentazioni collettive, a un certo punto, come scoprirà il lettore, anche la rappresentazione dell'Olocausto assume forza propria, andando oltre gli iniziali desiderata umani. E così i codici che avrebbero dovuto favorire il superamento del “dramma traumatico”, legato all’ evento-storico-Olocausto, e lenire funzionalmente le ferite, ottengono l'effetto contrario. Perché? Alexander pone l’accento sul “dilemma dell’unicità”. Lasciamolo parlare: “ Fu proprio questo status - di evento unico - che alla fine lo fece diventare generale e departicolarizzato. Questo perché come metafora del male radicale, l’ Olocausto forniva un criterio di valutazione per giudicare il male delle altre manifestazioni. Fornendo un tale criterio di giudizio comparato, l’Olocausto è diventato una norma, e ha dato il via ad una successione di valutazioni metonimiche, analogiche e legali, che l’hanno deprivato della sua unicità stabilendo il grado di somiglianza o differenza da altre possibili manifestazioni del male” (p. 103).
Per metterla in termini teorici generali: per un verso, la costruzione sociale del male subito, divenendo fonte di identità, può stabilizzare una collettività, spingendola ad andare oltre il suo passato, per quanto doloroso; per altro verso, la forzata "unicizzazione" del male subito, favorendo comparazioni e conflitti (non solo interpretativi) con altri gruppi sociali , può finire per porre in discussione la verità storica del male stesso e, di riflesso, la capacità della costruzione sociale stessa di individuare un punto di equilibrio tra la cura di ferite ancora aperte e il naturale bisogno collettivo di identità.
Ovviamente, abbiamo fornito una ricostruzione molto semplificata di un libro complesso, ma ricco di stimoli, non solo sociologici (si leggano le interessanti pagine dedicate all’ “idealizzazione americana dell’11 settembre”. Che aiuta a capire - scivolando purtroppo nella triste attualità politica italiana - che il disegno di legge Mastella per punire il negazionismo della Shoah, se approvato, finirà per non giovare alla stessa comunità ebraica, e in prospettiva, alla causa di Israele. Perché, essendo basato sull' idea dell' unicità, moltiplicherà le comparazioni e i conseguenti conflitti, e per giunta, consentirà ai negatori ideologici dell’Olocausto di atteggiarsi a perseguitati.
In primo luogo perché permette di scoprire la ricchezza della ricerca teorica di Jeffrey C. Alexander, docente a Yale, dove è anche co-direttore del Center for Cultural Sociology. L'autore, un sociologo, ha scritto da solo e con altri, una trentina di libri. Tra i quali l’importantissimo Theoretical Logic Sociology (1982 -1983, 4 voll.), l’ intrigante raccolta su Durkheim (Durkhemian Sociology: Cultural Study, 1988), nonché un dissacrante saggio dedicato a Pierre Bourdieu (racchiuso in Fin-de-Siècle Social Theory: Relativism, Reduction and the Problem of Reason, 1995). Oltre, ovviamente, ad altri notevoli lavori dedicati alla sociologia culturale. Una disciplina, che Jeffrey concepisce, non tanto come analisi delle istituzioni (compito che già appartiene alla sociologia della cultura), quanto dei codici narrativi e discorsivi, che caratterizzano in termini funzionali, interagendo tra di loro, ogni cultura. Di conseguenza, la cultura viene vista come insieme di pratiche, volte alla riproduzione del sistema sociale. In questo senso, anche il sociologo vive immerso nella culura, anzi lui stesso, studiando e insegnando, fa cultura, o, appunto, sociologia culturale. Per chi desideri saperne di più sull’Alexander “teorico”, si consiglia la lettura della voce Funzionalismo e neofunzionalismo (da lui scritta in collaborazione con Paul Colomy), in “Enciclopedia delle Scienze Sociali”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1994, pp. 199-214. Anche perché, finora, Alexander, al di là degli ambienti specialistici, è poco noto. La costruzione del male, se ricordiamo bene, è il suo terzo libro tradotto in italiano.
In secondo luogo, la sociologia culturale, non è solo “roba” da professori. La costruzione del male, ribadisce come ogni società abbia proprio nella cultura il suo centro vitale. Un cuore pulsante, dove si mescolano emozioni, speranze, paure. Tutti sentimenti che, inevitabilmente, si traducono in narrazioni, che spesso assumono valore normativo. Dal momento che l’uomo sociale è capace di "costruire" il bene come il male”. Attenzione : non solo di “fare” il bene e il male, ma di “rappresentarli”, attraverso determinate strutture culturali, normative. Di qui il funzionalismo al contrario di Alexander, che si volge allo studio del male, che in apparenza, può sembrare “disfunzionale”. Mentre in realtà non lo è: perché svolge una precisa funzione identitaria e culturale. Certo, si tratta di un'antica idea filosofico-teologica, quella della dialettica tra bene e male. Ma Alexander ne fa una lettura sociologica, privilegiando il lato del male. Come nel caso dell’Olocausto, del quale, e giustamente, non viene mai messa in discussione in tutto il libro la verità storica. Alexander ne studia la rappresentazione culturale che i superstiti e le generazioni successive ne hanno dato. Sotto questo aspetto anche l'Olocausto diviene uno strumento simbolico, che come ogni strumento di questo tipo, ha fornito, dopo il 1945, senso storico e morale alle sue vittime, fornendo codici linguistici, letterari, cinematografici, giornalistici, dei quali il sociologo di Yale ricostruisce, molto attentamente origini e sviluppo. Tuttavia, come capita alle rappresentazioni collettive, a un certo punto, come scoprirà il lettore, anche la rappresentazione dell'Olocausto assume forza propria, andando oltre gli iniziali desiderata umani. E così i codici che avrebbero dovuto favorire il superamento del “dramma traumatico”, legato all’ evento-storico-Olocausto, e lenire funzionalmente le ferite, ottengono l'effetto contrario. Perché? Alexander pone l’accento sul “dilemma dell’unicità”. Lasciamolo parlare: “ Fu proprio questo status - di evento unico - che alla fine lo fece diventare generale e departicolarizzato. Questo perché come metafora del male radicale, l’ Olocausto forniva un criterio di valutazione per giudicare il male delle altre manifestazioni. Fornendo un tale criterio di giudizio comparato, l’Olocausto è diventato una norma, e ha dato il via ad una successione di valutazioni metonimiche, analogiche e legali, che l’hanno deprivato della sua unicità stabilendo il grado di somiglianza o differenza da altre possibili manifestazioni del male” (p. 103).
Per metterla in termini teorici generali: per un verso, la costruzione sociale del male subito, divenendo fonte di identità, può stabilizzare una collettività, spingendola ad andare oltre il suo passato, per quanto doloroso; per altro verso, la forzata "unicizzazione" del male subito, favorendo comparazioni e conflitti (non solo interpretativi) con altri gruppi sociali , può finire per porre in discussione la verità storica del male stesso e, di riflesso, la capacità della costruzione sociale stessa di individuare un punto di equilibrio tra la cura di ferite ancora aperte e il naturale bisogno collettivo di identità.
Ovviamente, abbiamo fornito una ricostruzione molto semplificata di un libro complesso, ma ricco di stimoli, non solo sociologici (si leggano le interessanti pagine dedicate all’ “idealizzazione americana dell’11 settembre”. Che aiuta a capire - scivolando purtroppo nella triste attualità politica italiana - che il disegno di legge Mastella per punire il negazionismo della Shoah, se approvato, finirà per non giovare alla stessa comunità ebraica, e in prospettiva, alla causa di Israele. Perché, essendo basato sull' idea dell' unicità, moltiplicherà le comparazioni e i conseguenti conflitti, e per giunta, consentirà ai negatori ideologici dell’Olocausto di atteggiarsi a perseguitati.
Un vicolo cieco.