Black book: solo in Italia è stato accusato di tendenze "revisioniste". (recensione)
di Franco Cardini - 25/01/2007
Fa discutere gli storici la nuova opera cinematografica di Paul Verhoeven, candidato all’Oscar, che mette sotto accusa anche i partigiani: il revisionismo approda sugli schermi?
Parlar di Resistenza, e farci sopra dei film, dovrebbe ormai esser una cosa tranquilla e pacifica, sessant'anni e qualcosa dopo i fatti. Invece no: pare proprio che i nervi siano, al riguardo, sempre più scoperti. Ma bisogna dire che ciò accade soprattutto in Italia: e, un po' meno, in Francia. Vale a dire proprio dove il fenomeno collaborazionista fu più articolato e radicato. Sarà un po' di coda di paglia?
Questo va detto perché altrove le cose vanno in altra maniera. In Olanda, ad esempio, dove la gente si strinse sul serio attorno alla sua casa reale e dove gli ebrei - la comunità ebraica olandese era una delle più numerose e ricche d'Europa - furono aiutati in modo più sistematico e coraggioso a sopravvivere. Le carte di Anna Frank, ma anche le vicende di Edith Stein ed Etty Hillesum, testimoniano la drammaticità e la pericolosità di quegli anni nei Paesi Bassi. Gli olandesi non amavano i tedeschi, a differenza dei loro cugini fiamminghi; e tra loro allignarono poco anche i movimenti fascisti o nazisti. Non a caso, la personalità di maggiore spicco dei Paesi Bassi in quel senso fu un vallone, Léon Degrelle.
Ebbene: sarà forse per questo che proprio dall'Olanda ci viene un film straordinario e agghiacciante: un film nel quale gli eroi della Resistenza sono sovente in combutta con doppiogiochisti e con criminali politici e non, e dove non si tacciono gli orrori e le sevizie inflitte - talora per puro spirito di vendetta, talaltra per opportunismo servile - dai vincitori agli sconfitti. Accolto generalmente con favore dalla critica, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, Black Book (in uscita nelle sale italiane il 2 febbraio) vede il ritorno del regista olandese Paul Verhoeven al suo paese d'origine, dopo una parentesi americana durata oltre vent'anni. Il punto di partenza è il "libro nero" del titolo, conservato fino al 1946 da una giovane donna uccisa da ignoti. L'agenda, mai ritrovata, conteneva i nomi di insospettabili traditori e impensati collaborat ori.
Unica superstite di una famiglia di ebrei olandesi in fuga brutalmente sterminata dai nazisti durante la fuga, Rachel Stein (l'attrice teatrale Carice van Houten) si unisce alla Resistenza; assumendo una falsa identità, quella della biondissima "ariana" Ellis de Vries, seduce un alto ufficiale tedesco (l'attore Sebastian Koch) e assume un incarico nel suo ufficio, in modo da poter passare informazioni sensibili ai suoi compagni. I buoni propositi sono tuttavia complicati: Rachel/Ellis si innamora gradualmente del tedesco che dovrebbe solo spiare, a sua volta personaggio complesso, dotato di una forte sensibilità; nel frattempo distinguere fra nemici e amici diviene per la donna un compito sempre più difficile. In un quadro da spy-story tradizionale, con la sua buona dose di sorprese, doppiogiochismi, storie d'amore impossibili, tradimenti, sacrifici e tensioni tali da tener lo spettatore incollato alla poltrona per oltre due ore, Verhoeven non rinuncia tuttavia ad alcuni fra i suoi marchi di fabbrica, soprattutto al gusto per le immagini schoccanti e talvolta al limite del grottesco, che non mancano di suscitare qualche perplessità. Tuttavia non sono queste immagini, crediamo, ad aver lasciato freddi se non resi ostili alcuni critici italiani, quanto piuttosto la ferma volontà del regista di astenersi da qualunque forma di moralismo nei confronti dei protagonisti e della storia narrata. Verhoeven si sottrae infatti a ogni manicheismo, rifuggendo da una divisione netta fra bene e male; fra coloro che si battono per la libertà le tonalità di grigio prevalgono sul bianco/nero; le motivazioni, anche quelle meno cristalline (il perseguimento dell'interesse personale, la volontà di vendetta, la lussuria) di tutti i personaggi, anche quelli che militano dalla parte "giusta", sono messe in luce con la dovuta complessità.
In tal senso, il finale è rivelatore: lungi dal rappresentare il trionfo del bene e della giustizia, i vincitori si abbandonano a vendette ripugn anti, moralmente non meno condannabili comportamenti che le hanno indotte. In fondo, lo scenario della Seconda guerra mondiale sembra essere per il regista solo una delle possibili dimensioni nelle quali il dramma potrebbe svolgersi, uno degli infiniti momenti in cui i lati peggiori della natura umana (codardia, ipocrisia, avidità, crudeltà) possono esplodere senza freni. Dalla bassezza morale mostrata dai vincitori, sembra chiedersi Verhoeven, può nascere vera giustizia? Insomma, è un film che pone domande, induce alla riflessione. E, di questi tempi, non è poco.
Per esser più chiari, solo in Italia questo film è stato accusato di tendenze "revisioniste". Verhoeven ha raccontato una storia magari non "vera", ma molto verosimile: e basata su dati che già ben conoscevamo tutti. Ha avuto il "torto" di ricordarci che i "cattivi" non erano tutti e necessariamente tali, che anche dalla parte "sbagliata" c'era spazio per la generosità e l'onestà: e viceversa. Da qui le riserve di qualche critico italiano: un po' vilmente mascherate da critiche di natura filmica. Dopo la querelle Pansa-Bocca, c'è davvero da chiederci quando ci decideremo, da noi, a mandar definitivamente in soffitta non la Resistenza e la sua memoria ma la bigotteria e l'intollerabile retorica manichea che ne è stata fatta. Quando decideremo una buona volta di piantarla con l'agiografia laica e sopporteremo di affrontare i problemi con un minimo di onesto senso storico.