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Il Pentagono contro la libertà di stampa

di Norman Solomon - 26/01/2007

 

La giornalista americana Sarah Olson è stata sollecitata a comparire per testimoniare al processo a carico del luogotenente dell’esercito Usa Ehren Watada – accusato di essersi espresso contro la guerra in Iraq e di essersi rifiutato di prendere parte all’occupazione. L’attacco del Pentagono al giornalismo Usa è un attacco al Primo Emendamento. La resistenza è più che mai essenziale per la democrazia

Sentiamo spesso dire che il Pentagono esiste per difendere le nostre libertà, ma in realtà esso si sta muovendo contro una libertà fondamentale, quella di stampa.

Non molto tempo fa, la giornalista americana Sarah Olson è stata sollecitata a comparire per testimoniare, il prossimo mese, davanti alla corte marziale al processo a carico del luogotenente dell’esercito Usa Ehren Watada – accusato di essersi espresso contro la guerra in Iraq e di essersi rifiutato di prendere parte all’occupazione. Sembrerebbe che gli ufficiali del Pentagono siano così ansiosi di punire Watada da aver deciso di andare alla ricerca dei giornalisti che del soldato hanno rese pubbliche le dichiarazioni.

Coloro che conducono le guerre sono notoriamente ostili ad una stampa libera. Fanno presto ad elogiarla – a meno che le notizie fornite non vadano oltre la mera stenografia per i signori della guerra e a meno che non si tratti di un giornalismo che mette l’esercito a disagio.

Chiaramente, questo spiega il motivo per cui il Pentagono ha inviato un mandato di comparizione alla Olson. Vogliono che testimoni per legittimare le sue citazioni delle parole di Watada – che equivale a dire volerla obbligare ad accusare il giovane militare. "Gli avvocati militari imbrogliano quando cercano di perseguire la propria azione legale selezionando reporter chiamati a testimoniare", scrive il Los Angeles Times in un editoriale datato 8 gennaio.

Il quotidiano aggiunge: "Nessuno dovrebbe forzare un reporter a testimoniare su una dichiarazione rilasciata da una fonte – oppure cercare di ottenere informazioni che vanno oltre a quelle riportate da un giornalista – a meno che ciò non sia assolutamente vitale per proteggere i cittadini americani da serie minacce. Questo principio dovrebbe applicarsi in qualunque caso, che le dichiarazioni rilasciate dalla fonte siano o meno confidenziali, o se il reporter lavori per un media oppure no".

La Olson è una giornalista freelance; il suo articolo su Watada è apparso sul seguitissimo sito web Truthout.org ed è stato trasmesso dal programma radiofonico pubblico Usa Making Contact. (Rivelazione: sono stato uno dei fondatori di quel programma e vi ho lavorato come consulente). Da molti anni la Olson svolge la professione di giornalista. Ora il Pentagono, per il modo in cui alla stessa Olson si sta rapportando, sta spregevolmente cercando di calpestare il Primo Emendamento della Costituzione Americana1.

Così ha commentato il Los Angeles Times: "C’è qualcosa di agghiacciante nel tentativo dell’esercito Usa di trascendere la propria autorità per costringere un cittadino statunitense, non appartentente all’esercito, col compito di raccogliere notizie, a testimoniare in un tribunale militare, semplicemente per sostenere un caso legale in corte marziale... Incoraggiare i mandati di comparizione militari creerebbe un grave precedente. È ora che l’esercito faccia marcia indietro".

Ma dai comandi militari non è giunto alcun segnale di retromarcia, nonostante grida di protesta si siano levate da un esteso gruppo di eminenti giornalisti, media ufficiali e associazioni a favore del Primo Emendamento.

"Cercare di obbligare una reporter a testimoniare davanti ad una corte marziale è un pessimo messaggio per i media e per l’esercito", ha dichiarato James W. Crawley, presidente dell’organizzazione Military Reporters and Editors (lett. Giornalisti e redattori militari). Crawley ha commentato: "Una delle caratteristiche del giornalismo americano, come documentato nel Bill of Rights e difeso dalle forze armate statunitensi, è una netta separazione tra stampa e governo. Usare i giornalisti per aiutare l’esercito a perseguire la propria azione legale si presenta come una vera e propria violazione".

Con l’invio dei mandati di cui sopra a Sarah Olson e a un altro giornalista che ha parlato di Watada (Gregg Kakesako dell’Honolulu Star-Bulletin), il Pentagono sembra voler a tutti i costi mandare in frantumi il rispettabile ruolo della stampa.

Due ufficiali del PEN American Center , una stimata organizzazione che si batte per la libertà di espressione, hanno esposto molto bene la questione in una recente lettera indirizzata al Segretario della Difesa Usa Robert Gates: "Se la Olson e Kakesako rispondono a quesi mandati testimoniando, parteciperanno fondamentalmente all’accusa della propria fonte. I reporter non dovrebbero fungere da braccio investigativo del governo. Un tale ruolo compromette la loro oggettività e può avere effetti inquietanti sulla stampa".

In un articolo per la rivista Editor & Publisher, la Olson ha ben sintetizzato l’importanza della posta in gioco: "Un responsabile della stampa non dovrebbe mai essere messo nella posizione di favorire un’accusa avanzata dal governo. Questo va contro persino al più elementare principio di libertà di stampa del Primo Emendamento, e si scontra con l’aspettativa di una democrazia che fa affidamento su un libero flusso di informazioni e prospettive senza il timore di censure o punizioni". E ha aggiunto: "Vi potreste domandare: ‘Voglio essere mandata in prigione dall’Esercito Usa per non aver collaborato con il procedimento legale da loro avanzato contro il luogotenente Watada?’ La mia risposta sarebbe: ‘Certo che no!’ Vi potreste anche chiedere: ‘Contribuiresti piuttosto ad accusare una fonte di notizie per aver espresso punti di vista rispettabili su una questione di interesse nazionale?’ Prima di tutto, si tratta di una domanda che disapprovo, interamente".

L’attacco del Pentagono al giornalismo è un attacco al Primo Emendamento – e un tentativo di mettere disaccordo tra giornalisti e dissidenti dell’esercito. La resistenza è più che mai essenziale per la democrazia.


1. Il primo emendamento garantisce, tra le altre cose, la libertà di parola e di stampa (NdT).

2. L’acronimo PEN sta per “Poets, Playwrights, Editors, Essayists, and Novelists” – poeti, drammaturghi, redattori, saggisti e romanzieri (NdT).

L’ultimo libro di Norman Solomon è “War Made Easy: How Presidents and Pundits Keep Spinning Us to Death”, pubblicato da Wiley nel 2005 ed edito in Italia da Nuovi Mondi Media con il titolo MediaWar. Dal Vietnam all’Iraq, le macchinazioni della politica e dei media per promuovere la guerra. Solomon è fondatore e direttore esecutivo dell’Institute for Public Accuracy.
È inoltre autore dell'introduzione a Censura 2006 – Le 25 notizie più censurate.
Sull'Iraq vedi Iraq Confidential – Intrighi e raggiri: la testimonianza del più famoso ispettore ONU (Prefazione del premio Pulitzer Seymour Hersh – Prefazione all'edizione italiana di Gino Strada), di Scott Ritter.

 

Fonte: Common Dreams
Traduzione a cura di Arianna Ghetti per Nuovi Mondi Media