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La globalizzazione e la sua vulnerabilità

di Mario Spinetti - 28/01/2007

 

Le società umane sempre più ingigantite e mostruosamente diseguali, si sono progressivamente sviluppate con il denominatore comune di una crescita illimitata, a qualunque costo, non importa se il conto debba essere pagato dalle vite umane (sia in senso fisico che qualitativo) o dall’ambiente naturale. Il liberismo dei mercati ormai sempre più senza freno, il produttivismo crescente in buona parte di beni inutili o in ogni caso non strettamente necessari, crea ricchezza come al solito solo ai paesi della fascia ricca (si ricorda che nel mondo milioni di persone vivono nella miseria più cupa con un effimero o forse sarebbe meglio dire irrisorio reddito giornaliero; per loro la singola giornata deve essere interamente dedicata a “racimolare” il minimo indispensabile per non morire di fame e non sempre ciò riesce!), e libera continuamente diseguaglianze economiche e impoverimento drammatico delle risorse naturali. Ci troviamo di fronte ad una situazione simile ad una valanga che iniziata la sua discesa con un piccolo fronte va man mano allargandosi e ingigantendosi (acquista insomma progressivamente sempre più energia) nel suo precipitare a valle provocando una distruzione totale di tutte le cose che si frappongono al suo rovinoso cammino. La cecità dei mercati capitalistici non ignora questo pesante prezzo, ma se ne disinteressa completamente perché lo fa pagare ad altri (ma in fondo anche a se). Ovviamente questo solo per una visione miope perché ci si illude che la crescita, pur se con la consapevolezza che avrà qualche battuta d’arresto, sarà sempre illimitata e linearmente in salita. Ora sappiamo dagli insegnamenti ecologici che ciò non è strutturalmente possibile e, superato il limite di rottura, il crollo vertiginoso non sarà solo una certezza ma ineluttabilmente inevitabile. I grandi imperi finanziari governati dalle nazioni opulenti e ricche hanno pianificato sagacemente questo irresponsabile sviluppo ma dopo lungo tempo si sono resi conto che la demoniaca pianificazione presentava ad un certo punto dei forti limiti di saturazione e di espansione oltre ad una debolezza basata sul continuo consumo e sullo spreco. Ed ecco l’illusoria “formula magica”: globalizzare in un unico corpo il mercato ed i costumi del consumo e della voluttà. Ovviamente sempre con la decisa distinzione tra i “governanti” della situazione (in altri termini coloro che tessono la tela) e i sottomessi a causa degli eventi. I potenti del mercato, incalzati da coloro che contestano la globalizzazione, si dipingono la bocca con apparenti astute politiche “universali” ed “umanitarie” facendo credere alle masse ignare (ignare perché attingono acriticamente ciò che gli viene inculcato con un sagace e sottile “lavaggio del cervello”) che tutti gli esseri umani, paesi ricchi e paesi poveri, potranno attingere liberamente e “illimitatamente” ai nuovi beni che saranno raccolti da ogni parte e da ogni ceto. Il gigante si ingrandisce sempre più, si lega sempre più, cercando di giungere ad una società paurosamente piatta dove solo il Dio economico apparentemente unisce e rafforza. Ben sanno i paesi ricchi che è loro avido interesse mettere nelle migliori condizioni i paesi poveri per creare improvvisamente immensi nuovi mercati dove convogliare la loro ricchezza produttivistica e far diventare le società del pianeta terra le une unite alle altre per diffondere il consumo. E, se il piano riesce, ecco ancora una volta i due pesi e le due misure: i paesi poveri si illudono dell’improvvisa ed apparente “manna” che cade dal cielo (ma che in ogni caso pagano sempre a caro prezzo), mentre quelli ricchi rimpinguano il loro salvadanaio e soprattutto salvano, almeno per un po’, la loro ormai traballante società consumistica/capitalistica. Quando si vede il baratro si cerca di voltare lo sguardo e si punta a qualcos’altro sperando che funzioni. Ma la globalizzazione, così come è stata concepita, ha dei piedi ancor più fragili dell’argilla: sono piedi poggiati su delle sabbie mobili, sono quindi totalmente instabili e fortemente dipendenti (vedasi per esempio la sudditanza energetica). Ma per argomentare con maggior rigore descrittivo è bene ragionare sulle riflessioni di Luciano Gallino (2001) che sono quanto mai eloquenti e sufficientemente complete per una più lineare comprensione del discorso pur breve che sia (la parte in corsivo sono le sue testuali parole). Gli errori strutturali della globalizzazione sono facilmente riscontrabili nell’aver voluto focalizzare la sua costruzione su sistemi tecnologici e sociali che debbono essere giganteschi, in grado di abbracciare ogni recondito recesso del pianeta sempre con il medesimo leimotiv, sempre funzionanti a ciclo continuo ora per ora, giorno per giorno, sette giorni su sette. Si è in altri termini puntato a fare del tutto come una sorta di orologio d’immane grandezza, automatico, estremamente preciso e controllato. Così com’è stato impostato esso contiene nella sua genesi tutti gli elementi della sua facile vulnerabilità. Questo super orologio si può anche fermare, chi può dire il contrario, ed anche per cause estranee ad esso (leggasi guerre, rivoluzioni, ecc.), ma le vere cause sono insite all’interno stesso del suo meccanismo e non certo fuori. “Sistemi di trasporto di merci e persone, sistemi di comunicazione, sistemi produttivi, con le loro componenti sociali e tecnologiche: più si globalizzano, più tendono a diventare vulnerabili. Una prima causa di vulnerabilità è identificabile nel fatto che qualsiasi sitema socio-tecnico è formato necessariamente da tanti pezzi, ovvero da una molteplicità di sottosistemi. A mano a mano che i sottosistemi diventano più numerosi, perché si vuole che il sistema che li comprende arrivi a coprire tutto il globo, aumenta la probabilità che tra di essi ve ne sia qualcuno che funziona male, o si rompe. Oppure che saltino i collegamenti tra l’uno e l’altro. In ambedue i casi l’intero sistema può andare in crisi, e mandarne subito in crisi altri…….. Una seconda causa di vulnerabilità dei sistemi globali è la perdita della capacità di adattamento ai mutamenti locali, di qualsivoglia natura: sociali, economici, ambientali. Essa consegue sia dalla riduzione della varietà della natura e dei comportamenti che i costruttori di sistemi globali tenacemente perseguono, sia dalla perdita di autonomia decisionale che i soggetti locali subiscono perché i centri di decisione sono stati trasferiti altrove. In ampie regioni del globo, Europa compresa, i sistemi economici locali sono stati de-costruiti e poi ricostruiti in un modo tale che le decisioni attinenti i modi di produrre beni d’uso o alimenti, l’occupazione, i consumi, la distribuzione delle popolazioni sul territorio, che un tempo erano prese sul luogo da artigiani, piccoli imprenditori, coltivatori, amministratori locali, sono ora prese da qualcuno che sta a migliaia di chilometri di distanza. Un decisore lontano non è necessariamente un decisore malvagio. E’ però un decisore al quale della regione in cui le sue decisioni ricadranno importa probabilmente poco, non foss’altro perché nel suo ordine di priorità globali quella regione magari occupa il decimo posto. Nel migliore dei casi finirà per prendere decisioni tardive o inadeguate…….”.

Infiniti eventi tra i più disparati metteranno in risalto la facile vulnerabilità del sistema globale (si veda il caso, per fare un solo esempio, degli attentati avvenuti in America nel settembre del 2001). Infatti, conclude così Gallino: “…. Oltre ai dolori che hanno arrecato e che arrecheranno, la tragedia americana e la guerra ci stanno facendo toccare con mano la vulnerabilità globale. Essa comporta sin da ora costi umani addizionali, come una decina di milioni di nuovi poveri, quelli che vivono con meno di un dollaro al giorno. Potrebbe essere giunto il momento per cercare di comprendere perché il mondo sembra rifiutarsi di funzionare come un orologio. E per provare eventualmente a cambiare disegno”.

E per completare si ricorda che la globalizzazione dei mercati porta inscindibilmente con sé il risvolto negativo della propria medaglia. Scrive infatti paradossalmente Kaczynskj (1997): “I rivoluzionari dovrebbero favorire misure che tendono a legare l’economia del mondo in un meccanismo unico....... Sarà più facile distruggere il sistema industriale su base planetaria se l’economia del mondo è così unita che il collasso in una delle sue maggiori nazioni provoca il crollo delle altre nazioni industrializzate”. Questo crollo alla fine potrebbe anche essere “vantaggioso” per la natura anche se purtroppo avverrà in un contesto umano disastroso, iniquo e disperato. D’altronte chi male semina, male raccoglie.