C’era una volta «Potere operaio», ma prima ci furono Mario Tronti e la sua «Bibbia»
di Giuseppe Cantarano - 29/01/2007
In una piovosa sera d’inverno del 1969, stipati su una scassata Fiat 600 e su una smarmittata Citroen Dyane, un gruppo di giovani del movimento studentesco romano si reca a Ferentillo. Un paesino umbro vicino Terni. Hanno in cantiere una rivista e vanno a chiedere lumi a Mario Tronti. La rivista si chiamerà Classe operaia. Sarà la rivista di Potere Operaio, il gruppo della sinistra extraparlamentare che si pone su un terreno di rottura con la tradizione del movimento operaio. E che trae la sua ispirazione dall’operaismo di Tronti e dalle analisi sulla trasformazione dell’organizzazione del lavoro nelle fabbriche di Raniero Panzieri.
Ma è soprattutto nella reinterpretazione leninista del Capitale di Marx, fornita da Tronti, che Potere Operaio individua gli strumenti teorici per conferire alla politica rivoluzionaria del movimento operaio quella potenza dirompente in grado di abolire il dominio del capitale. Dentro e fuori le fabbriche. Tuttavia, nonostante fosse il punto di riferimento teorico principale, Tronti non diventerà mai il leader di Potere Operaio. Anzi, ne prenderà subito le distanze. Come le prenderà, qualche anno dopo, dal suo operaismo. Perché era consapevole che al di fuori della tradizione del movimento operaio, non avrebbe mai potuto darsi una mobilitazione di massa. Infatti, a differenza degli esponenti di Potere Operaio, Tronti riteneva che la rottura del sistema capitalistico - operata dalla nuova classe operaia, quella delle fabbriche neocapitalistiche dell’ «operaio massa», cresciuta alla scuola del «Marx delle macchine» e di un Lenin antiromantico - dovesse essere guidata dal Pci. Al quale in quegli anni Tronti rimaneva iscritto.
In particolare, erano tre i saggi di Tronti a suscitare l’interesse di quei ragazzi: Lenin in Inghilterra e 1905 in Italia, apparsi nel 1964 e Marx, forza-lavoro, classe operaia, del 1965. Nel 1966 i tre saggi, arricchiti con altre analisi, verranno pubblicati da Einaudi in un libro che diventerà un classico della storia del movimento operaio e del marxismo italiano: Operai e capitale. Che rinnovò non solo il vocabolario della classe operaia, ma indicò le strategie teoriche per la lotta del sessantotto e dell’autunno caldo.
Ora quel libro di culto è stato ripubblicato da Derive Approdi (pp. 315, euro 20,00 ). Un libro «inattuale». Ma, come abbiamo appreso da Nietzsche, sono spesso le idee, i pensieri inattuali ad afferrare meglio l’epoca alla gola. La sua tesi è che la rottura dello sviluppo capitalistico si produce non nel punto in cui il capitale risulta più debole, ma dove sembra esser più forte la classe operaia. In quella fase è proprio l’Italia a offrire le condizioni più favorevoli per realizzare l’alternativa operaia al capitale. La sola alternativa che le contraddizioni del capitale possono realmente prefigurare. Dal punto di vista operaio - sostiene Tronti - le contraddizioni del capitale non vanno né rifiutate né risolte, ma utilizzate. E per utilizzarle, bisogna esasperarle. Anche quando si presentano come ideali del socialismo: «Ricostruire la catena delle contraddizioni, riunificarla, e col pensiero collettivo della classe possederla di nuovo come un processo unico di sviluppo del proprio avversario: questo è il compito della teoria, questa la necessità di una rinascita strategica del movimento operaio internazionale».
Spezzare la catena in un punto critico dove massime appaiono le contraddizioni vuol dire - secondo Tronti - far convergere su quel punto tutte quelle forze che intendono reciderla in blocco. Si rivela del tutto inutile l’appello che chiama a raccolta le forze del capitale in un blocco monolitico, poiché questa azione presuppone un inevitabile processo di ricomposizione della classe operaia. Dunque, una nuova forma di organizzazione politica. È insomma attorno al partito, alla forma dell’organizzazione politica, che l’operaismo si divide.
Mentre Tronti - e Cacciari, Asor Rosa e altri - cercherà anche in ulteriori esperienze politico-culturali di individuare altri linguaggi del politico dentro la crisi del pensiero borghese e operaio, così da rendere espressive le masse, gli esponenti di Potere Operaio - Negri, Piperno - si illudono di poter fuoriuscire dalla crisi sostituendo la ragione borghese con la ragione operaia. La ragione del capitale - che dopo il rovesciamento diventa irrazionale - con quella di Marx, Lenin e Mao. Che prima del rovesciamento era considerata irrazionale dalla ragione classica e borghese.
Per l’operaismo di Tronti resta invece decisiva la questione della forma dell’organizzazione. Dunque del partito. Che rappresenta l’ultimo residuo in cui sopravvive l’appartenenza alla tradizione classica del marxismo. Il partito diventa l’ultimo strumento appartenente alla tattica del passato con cui si cerca di pensare strategicamente il futuro. Poiché solo attraverso il partito è possibile stare dentro la crisi e scomporla nelle sue fasi transitorie. Solo il partito consente di comprendere le singole fasi della crisi e afferrarle una per una.
Bisogna scoprire - scrive Tronti - «le necessità di sviluppo del capitale e ribaltarle in possibilità di sovversione della classe operaia: sono questi due i compiti elementari della teoria e della pratica, della scienza e della politica, della strategia e della tattica». Si tratta, pertanto, nella prassi politica, di tenere nettamente distinta la tattica dalla strategia senza mai sovrapporre l’una all’altra, né tantomeno identificarle, pena l’impossibilità ad agire. All’opposto, bisogna pensarle unite nella teoria, non separarle mai, in quanto una volta distinte «distruggono gli uomini, li dimezzano, ne fanno quest’ombra grigia a cui è ridotto oggi il dirigente politico».
Poi, nell’elaborazione di Tronti, ci sarà l’«autonomia del politico». Dal Marx antigramsciano al decisionismo apocalittico di Carl Schmitt, dalla sovversione operaia al disincanto anti-idolatrico. Per approdare, più recentemente, ad un «pensiero destinale» dai toni malinconici e pessimistici. Nel cui cupo orizzonte tramonta la grande politica del Novecento. Ma questa è un’altra storia. O forse è il solo epilogo «realistico» della storia di quell’operaismo.