Israele nella NATO per una evidente scelta di guerra
di Piero Visani - 29/01/2007
Q
uando le cose vanno male, si cercanoalleati: questo il succo dei piani -
ormai sempre più definiti - del
governo israeliano per entrare nella NATO.
Le ragioni di un orientamento del genere
sono facili da comprendere: il conflitto dell’estate
scorsa contro gli Hezbollah libanesi
ha dimostrato che l’incontrastata superiorità
militare dello Tsahal è un pallido ricordo,
mentre cresce la minaccia rappresentata dai
nemici dello Stato ebraico, a cominciare dall’Iran.
Molte sono le ragioni di questo mutamento
epocale, a cominciare dal fatto che, quanto
più si occidentalizza, tanto più la società
israeliana vede svanire quelle qualità militari
che per oltre mezzo secolo sono state la
ragione stessa della sua esistenza. Ma c’è dell’altro,
come il crescente accesso dei suoi
nemici alla modernità e a tutte le sue componenti,
con in testa le tecnologie più avanzate,
militari e non, ciò che ha ovviamente ridotto
il divario tra le due parti in lotta. E c’è,
soprattutto, la questione demografica che
condanna Israele molto di più di quanto non
la potrebbe condannare lo spauracchio (in
genere agitato ad arte) del nucleare iraniano:
contro quest’ultimo, infatti, Gerusalemme
può difendersi molto bene grazie al suo arsenale
atomico, tenuto rigorosamente segreto,
ma certo non trascurabile,
mentre contro l’insidia
della pressione demografica è -
con i suoi tassi di natalità -
pressoché inerme.
Su questo sfondo, l’autonomia
strategica di Israele è ormai
una scommessa ad alto rischio
e quanto sta accadendo in questi
giorni in Libano sta a dimostrare
che la “guerra per procura”
dichiaratale dall’Iran non
solo non è cessata, ma si
appresta a riprendere. Un tempo,
l’orgoglio nazionale israeliano
avrebbe risposto a questa
sfida con la soluzione tradizionale
dell’attacco preventivo
per battere in breccia i suoi
nemici, nella certezza della vittoria.
Ora, però, è proprio tale
certezza a vacillare e qui
comincia la ricerca di alleati.
Già esiste - è noto - il solido
legame bilaterale con gli Stati
Uniti, ma anche questi ultimi
hanno oggi problemi strategici
molto gravi, a cominciare dal
loro coinvolgimento nel pantano
iracheno. Inoltre, si tratta di
un rapporto bilaterale assai
carente in termini di legittimità,
in quanto stretto tra due
potenze note essenzialmente
per il loro decisionismo e la
propensione ad imporre la loro
volontà al prossimo. L’Alleanza
Atlantica, per contro, pur
essendo fin dalla sua origine
nient’altro che una congrega di
Stati clienti raccolti intorno ad
una potenza egemone - gli
USA -, chiamata a garantirne la
sicurezza ed a riceverne in
cambio una serie di servigi,
gode del prestigio che le deriva
dal fatto di essere uscita vincitrice
dalla “Guerra fredda” ed è
governata da una serie di meccanismi
formali che cercano di
farla somigliare ad un patto tra
eguali, cosa che, peraltro, assolutamente
non è. Per di più, tra
questi meccanismi vi sono
clausole (per tutte l’art. 5 del
trattato costitutivo) che consentono
agli Stati membri di
richiedere l’intervento militare
degli alleati in caso di minacce
alla sicurezza comune.
È evidente, quindi, il grande
interesse che Israele ripone
oggi nell’entrare a far parte
della NATO, in quanto la sua
eventuale ammissione all’interno
dell’Alleanza significherebbe
ottenere per via indiretta
quella garanzia alla sicurezza
nazionale che non riesce più ad
acquisire da sola. Resta da
chiedersi se esista un analogo
interesse da parte degli altri
Stati membri e la risposta è
decisamente negativa. È vero
che, al momento dell’attacco
americano contro l’Iraq di Saddam
Hussein (2003), era stata
formulata l’idea di un “Grande
Medio Oriente” riorganizzato
in base ai desideri di Washington.
Ma è altrettanto vero che
tale progetto è stato sconfitto
sul campo ed è precipitato nella
più totale impasse. Per sottrarlo
a quest’ultima, la NATO
è stata chiamata ad operare al
di fuori dei suoi tradizionali
confini, come sta accadendo da
qualche anno in Afghanistan,
in funzione di supporto operativo
alle Forze armate statunitensi
e ora si vorrebbe ampliare
questo ruolo subalterno e surrettizio
anche ad Israele.
Una scelta del genere viene
presentata da varie fonti interessate
quasi come un automatismo,
come una “scelta obbligata”
per ampliare e al tempo
stesso garantire i confini della
sicurezza occidentale, ma non
è assolutamente così. In primo
luogo, far entrare Israele nell’Alleanza
Atlantica avrebbe
conseguenze molto pesanti nei
rapporti con il mondo arabo,
tanto più se una scelta del
genere fosse operata - come
appare scontato - senza esercitare
la benché minima pressione
sostanziale sulla dirigenza
dello Stato ebraico per un
impegno concreto nella soluzione
della questione palestinese.
È vero che, per attenuare
l’impatto negativo di una decisione
unilaterale, già da ora si
pensa a far entrare nella NATO
anche qualche Paese arabo
moderato, come l’Egitto o la
Giordania, ma un palliativo di
questo tipo, pur se effettivamente
adottato, non sarebbe
minimamente in grado di attenuare
lo schiaffo tirato in faccia
al mondo arabo con una
soluzione così manichea.
In secondo luogo, l’ingresso di
Israele nell’Alleanza Atlantica
costituirebbe una scelta di
guerra e non di pace, l’ennesima
dimostrazione del fatto che
l’Occidente è sempre più incline
a percepirsi come una riproposizione
dell’impero bizantino,
intento non a costruirsi un
futuro, ma a procrastinare la
propria fine grazie all’impiego
della tecnologia militare. Del
resto, c’è chi ha il coraggio di
affermare che l’entrata di
Gerusalemme in ambito atlantico
potrebbe avere un forte
effetto deterrente sugli intendimenti
aggressivi (reali o presunti
che siano) di Teheran, la
qual cosa, oltre che tutta da
dimostrare, tende a fare astrazione
di un aspetto cruciale,
vale a dire che l’aumento della
sicurezza di Israele avrebbe
luogo al prezzo di una diminuita
sicurezza per la NATO.
Come sempre succede in questi
casi, già si stanno attivando
i meccanismi di ricatto e di
pressione psicologica, e presto
verrà lanciato lo slogan “Morire
per Gerusalemme?”, nell’evidente
intento di tracciare un
parallelismo con il ben noto
“Morire per Danzica?” e innescare
le altrettanto note dinamiche
della “necessità di resistere
alla tirannide prima che
sia troppo tardi”, ricreando per
l’ennesima volta una contrapposizione
tra Bene (presunto) e
Male (altrettanto presunto) che
- come ha giustamente fatto
notare lo studioso americano
Ivan Eland -, per come è concepita,
nelle attuali condizioni
del mondo islamico equivale a
muoversi davanti ad un toro
infuriato agitando un drappo
rosso.
In definitiva, se mai dovesse
accadere - ed è molto probabile
che accadrà -, l’entrata di
Israele nell’Alleanza Atlantica
sarà presentata come un atto di
stabilizzazione e di potenziamento
della sicurezza collettiva,
mentre si tratterà di una
scelta altamente destabilizzante
e tale da minare alla radice la
sicurezza dei membri europei
della NATO, che da quel giorno
non saranno più solo ostaggi
delle decisioni prese a Washington,
ma anche di quelle
prese a Gerusalemme, e diventeranno
bersagli di tutti coloro
che, nel mondo islamico, si
battono per l’indipendenza della
Palestina.