Bush e l’innominabile fallimento iracheno
di Roberto Zavaglia - 29/01/2007
«L
’Iraq è il tipodi conflitto
che guiderà
la nostra politica e il nostro
governo per i prossimi venti,
trenta o quarant’anni. Dobbiamo
vincere e abbiamo lo stomaco
di combattere per lungo
tempo». Con questa dichiarazione
del 14 gennaio a Fox
News, il Vicepresidente USA,
Dick Cheney, ha chiarito che
l’attuale Amministrazione non
pensa affatto a un exit strategy.
Nel contempo, ha dimostrato
come il governo statunitense
sia preda di quella follia che,
talvolta, coglie i capi delle
nazioni sull’orlo della sconfitta
militare, inducendoli a immaginare
scenari apocalittici nei
quali la totale distruzione del
territorio di guerra, compresi i
suoi abitanti, possa ribaltare la
situazione.
La decisione di Bush di inviare
altri 21mila soldati in Iraq
sembra ispirata dalla stessa
“logica”. La Commissione
Esteri del Senato di Washington
ha bocciato l’iniziativa del
Presidente, raccogliendo pure
il voto di un rappresentante
repubblicano. Anche se la
riunione plenaria del Senato, la
prossima settimana, darà parere
negativo, il “Commander in
Chief” Bush andrà comunque
avanti con il suo piano. Sono
in molti a chiedersi come si
potrà “portare a temine il lavoro”
con altri 21mila soldati se i
130mila già presenti, insieme
alle forze del governo collaborazionista
e a quelle
degli alleati, non sono in
grado di porre un limite al
caos iracheno.
La nuova strategia è,
comunque, già operante ad
Haifa street, un quartiere di
Baghdad a maggioranza
sunnita, roccaforte delle
resistenza, non lontano dalla
Green Zone, dove le
truppe USA stanno conducendo
una pesante offensiva
con l’appoggio di elicotteri
e artiglieria. La popolazione,
alla quale mancano
cibo e acqua, è allo stremo.
La stessa sorte, secondo i
piani USA, la dovrebbero
subire prossimamente le altre
zone “non pacificate”. Bush,
infatti, intende rendere “sicuri”
i territori ribelli, espugnandoli
ad uno ad uno e mantenendovi
poi forti presidi per impedire il
ritorno dei guerriglieri. Così gli
statunitensi guadagnerebbero
finalmente il consenso della
popolazione che lamenta,
soprattutto, la mancanza di
sicurezza.
Washington avrebbe deciso di
agire con decisione anche contro
l’esercito del Mahdi di
Muqtada Al Sadr, la milizia
che con più ferocia combatte la
guerra civile contro i sunniti.
L’obiettivo è lo smantellamento
di tutte le milizie religiose,
per lasciare campo libero solo
alle forze governative. A prescindere
dal fatto che gli stessi
esercito e polizia sono abbondantemente
infiltrati dagli
estremisti sciiti, il quartiere
generale dell’esercito del Mahdi
si trova a Sadr City, una
zona densamente abitata della
capitale. Per scacciarvi gli
uomini di Sadr occorrerebbe
un attacco massiccio, con l’abbondante
impiego di armi
pesanti, che produrrebbe una
strage tra la popolazione. Le
truppe d’assalto, poi, sarebbero
composte dai guerriglieri curdi,
con l’inevitabile conseguenza
di inasprire la loro rivalità
con gli sciiti.
L’offensiva a Sadr City, con
ogni probabilità, scatenerebbe
contro gli USA le milizie sciite
nel sud del Paese, che, fino a
questo punto, hanno mantenuto
un atteggiamento altalenante
verso le truppe di occupazione,
senza comunque attaccarle in
modo massiccio e continuo. Il
futuro scenario sembra, quindi,
quello dell’estensione di un
conflitto nel quale gli USA si
troverebbero contro un maggiore
numero di nemici che i
prossimi rinforzi non basterebbero
a domare.
Effettivamente, la “follia” di
Bush non è priva di un
metodo. La guerra in Iraq è,
per certi versi, condotta in
maniera assurda: gli invasori
combattono gli insorti,
ma “tollerano” che essi
mantengano le loro basi
perfino nella stessa capitale,
mentre milizie irregolari
di ogni genere spadroneggiano
nel Paese. L’idea
sarebbe quella di riportare
il tutto sotto la sovranità del
governo collaborazionista,
in modo da far cessare la
guerra civile e da garantire
la ripresa del Paese. Peccato
che si tratti di un progetto
irrealizzabile, se non al
patto di devastare definitivamente
l’Iraq e di provocare
una carneficina senza precedenti.
La vittoria per gli USA
non è più possibile. I marines
potranno forse innalzare la
bandiera su qualche nuovo territorio,
ma poi avranno bisogno
di maggiori forze e di armi
più dirompenti per fronteggiare
la reazione dei propri nemici.
Su un solo aspetto l’Amministrazione
ha ragione: l’opposizione
democratica critica il
Presidente, ma non possiede
un piano alternativo. La verità
è che l’unico piano credibile
per gli USA, anche se ormai
anch’esso di difficile attuazione,
sarebbe quello di ammettere,
in qualche modo, la sconfitta,
favorendo il dialogo fra tutte
le componenti della società
irachena, compresa la resistenza,
e coinvolgendo nella stabilizzazione
del Paese Siria e
Iran. L’Iraq, però, fin dalla Prima
Guerra del Golfo ha rappresentato
il test del nuovo
ordine mondiale a guida statunitense.
Perdere in Mesopotamia,
per Washington, significherebbe
ridimensionare,
anche simbolicamente, la propria
egemonia. E questo nessun
Presidente lo può accettare
a cuor leggero. Gli USA stanno
cercando di fare digerire al
governo iracheno il progetto di
legge sugli idrocarburi, che
garantirebbe alle compagnie
occidentali contratti ultradecennali
di condivisione dei
proventi del petrolio, cosa che
non avviene in nessun Paese
dell’Opec.
È difficile fare previsioni sul
futuro dell’Iraq, perché eventuali
mutamenti politici e strategici
di carattere internazionale
potrebbero cambiare lo scenario
attuale. La speranza è
che non prevalgano politici
come Cheney che, pur di mantenere
il controllo dei pozzi nel
deserto, sarebbero disposti a
protrarre, per generazioni,
l’“intervento umanitario”.