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Capire, riscoprire i valori ed i saperi della civiltà contadina per incamminarci verso la decrescita

di Guglielmo Giuliano - 29/01/2007

 
 
Lo scorso settembre, in occasione delle vacanze estive, ho fatto ritorno nel paese dove sono nato e cresciuto (un piccolo centro rurale del sud del Lazio) per fare visita alla mia famiglia che non vedevo da tempo. Durante il viaggio ho parlato molto con mia moglie Liana delle mie ultime letture sulla decrescita felice (tra cui l’omonimo libro di Maurizio Pallante, gli atti del convegno dell’assemblea di Norcia ed il documento - pubblicato sul sito di Fare Verde - “Cambiare il mondo con un vasetto di yogurt”) e con entusiasmo abbiamo ragionato sulla necessità di rivedere l’attuale modello di sviluppo economico, basato sulla crescita illimitata della produzione e dei consumi, e di ritornare ad uno stile di vita più sobrio, meno consumista e sprecone, riscoprendo ad esempio l’autoproduzione dei beni, il dono, la condivisione comunitaria e tutti quei principi morali, ecologici ed etici che sono racchiusi nelle parole “DECRESCITA FELICE”. Abbiamo anche riflettuto sull’esigenza di poter scambiare con altre persone questi pensieri andando a scovare e conoscere qualche realtà di vita comunitaria composta da gruppi di persone e famiglie che già praticano la decrescita nella loro vita quotidiana e dai quali poter prendere esempio per imparare a “vivere felicemente, con meno”. Abbiamo però riscontrato una certa difficoltà nell’individuare dei modelli da seguire, in particolar modo pensando al contesto urbano in cui attualmente viviamo, ma non sapevamo che la vacanza che stavamo per trascorrere ci avrebbe fatto scoprire proprio quella fonte di valori che stavamo cercando.
Appena arrivati a casa dei miei genitori, dopo i festosi saluti, ci hanno raggiunto anche i miei nonni paterni, portando in dono una cesta in vimini stracolma di fichi appena raccolti, rigorosamente autoprodotti in modo biologico, appartenenti ad un’antica varietà in via di estinzione che loro hanno saputo sapientemente coltivare e “salvare”. Gustando la loro infinita dolcezza ho pensato, data la mia deformazione ambientalista, a quanti valori fossero racchiusi in quel gesto: bene autoprodotto; di provenienza locale (quindi zero inquinamento per trasportarlo dal luogo di produzione a quello di consumo); metodo di produzione biologico (quindi tutela dello spazio agricolo come habitat naturale e della sua biodiversità); zero imballaggi per il confezionamento (quindi nessun rifiuto prodotto); condivisione di un bene attraverso il dono e lo scambio comunitario; salvaguardia di una varietà di frutta autoctona e in via di estinzione. Risultato: QUESTA E’ DESCRESCITA!!!
Dopo i saluti non ho potuto fare a meno di fare una passeggiata nella campagna che circonda la casa dei miei. Era tanto che non rimettevo piede in quella terra dove sono cresciuto e dove ho imparato ad amare la natura. Tutto sembrava essersi fermato o meglio procedere lentamente seguendo i cicli della natura, e ogni cosa appariva come la tessera di un meraviglioso mosaico verde che faceva trapelare l’incessante lavoro svolto da mia nonna: dal grande orto che di stagione in stagione regala tanta verdura per tutta la mia famiglia, agli alberi da frutta sapientemente innestati per rinnovare le varietà tipiche locali. Allungando lo sguardo attorno a me riuscivo a scorgere tante campagne simili alla nostra. Si tratta di terreni coltivati al limite della convenienza economica, grazie al lavoro svolto soprattutto dagli anziani che continuano a produrre limitando al minimo l’impatto sull’ambiente e, allo stesso tempo, preservando l’integrità del paesaggio rurale e gli equilibri idrogeologici. Anche in questo caso le prime parole spontanee che mi sono uscite di bocca sono state: QUESTA E’ DECRESCITA!!!
Il giorno seguente mi sono recato a casa dei miei nonni paterni, scorgendo nel loro garage una miriade di beni autoprodotti: bottiglie di salsa, barattoli di pomodori pelati, vasetti contenenti melanzane, formaggi e funghi sott’olio, damigiane di vino, fusti di acciaio pieni d’olio extravergine d’oliva, corone di pomodori “de vièrno” (pomodori raccolti in estate ma che si conservano per tutto l’inverno), aglio e cipolle appese ai muri. Ogni bene era rigorosamente autoprodotto e per la sua produzione e consumo non avrebbe comportato alcuna eliminazione di rifiuti, né tantomeno sprechi di energia per il trasporto. Tutti gli involucri utilizzati (bottiglie, fiaschi e barattoli), una volta vuoti, vengono infatti opportunamente lavati e recuperati per l’utilizzo successivo. Addirittura tra le bottiglie utilizzate per la salsa ne ho trovate alcune dalla forma strana con cui una volta veniva venduta la birra e che oggi sarebbero quasi da collezione. Chissà da quanti anni svolgono egregiamente il loro compito senza trasformarsi mai in rifiuti!
Anche questa volta non ho potuto fare a meno di pensare : QUESTA E’ DECRESCITA!!!
Girando ancora nel garage ho scorto altre bottiglie che mio nonno utilizza per andare a prendere l’acqua alla vicina sorgente di “Pallummaro” (nonostante molta gente dica che non è più potabile), rifiutandosi categoricamente di acquistare l’acqua in bottiglia. Anche in questo caso non potevo non constatare l’estrema ecologicità di questo gesto: i contenitori utilizzati per raccogliere l’acqua sono sempre gli stessi  (la produzione di rifiuti derivata dall’utilizzo di bottiglie monouso è pari a zero); la fonte è situata a circa 2 chilometri da casa (quindi l’impatto ambientale connesso al trasporto è enormemente inferiore a quello delle acque minerali che per arrivare nelle nostre case percorrono centinaia di chilometri su grossi camion). ANCHE QUESTA E’ DECRESCITA!!!
Sempre nel garage ho scorto infine alcuni ombrelli appesi da cui spesso mio nonno prende dei pezzi di ricambio per ripararne altri. Ricordo ancora tutte le volte che durante le elementari gli portavo l’ombrello rotto e lui sapientemente me lo rimetteva a posto. Riparare, recuperare e riutilizzare sono anche questi verbi della decrecita che vanno in senso opposto all’attuale modello di sviluppo che, per far girare l’economia ed accrescere il PIL, vuole beni sempre meno durevoli, che una volta rotti o danneggiati devono trasformarsi subito in rifiuti per far posto a prodotti sostitutivi nuovi di pacca.
 
 
I nostri anziani rappresentano una preziosissima fonte di valori, di saperi e, soprattutto coloro che vivono ancora in un contesto rurale, sono gli ultimi testimoni di un mondo contadino i cui  principi stanno pian piano scomparendo per far posto all’attuale modello consumista.
Se infatti confrontiamo il modello di vita comunitario in cui vivevano i nostri nonni con l’attuale notiamo subito delle enormi differenze sia per ciò che concerne l’organizzazione sociale che per l’impatto ambientale.
Le comunità contadine dei nostri nonni erano essenzialmente autosufficienti. Ogni bene veniva autoprodotto e utilizzato su base locale, all’interno di filiere corte; la produzione di rifiuti era praticamente inesistente in quanto ogni scarto o materia prima secondaria veniva perfettamente riciclata (per esempio si usava la cenere per concimare e lavare la biancheria; gli olii e i grassi di scarto venivano usati per fare il sapone; ogni rifiuto organico era utilizzato per concimare il terreno, ecc.); ogni risorsa era considerata preziosa ed il suo consumo era fatto con molta parsimonia; si cercava di prolungare al massimo la durata di vita degli oggetti (vi era persino l’artigiano che riparava i piatti rotti!); attraverso la coltivazione di piccoli appezzamenti di terra si contribuiva alla tutela del paesaggio, alla stabilità idrogeologica del territorio e alla salvaguardia di antiche varietà di frutta e verdura tipiche locali; molti beni autoprodotti in eccesso venivano scambiati attraverso il dono reciproco; nonostante la vita faticosa si dedicava molto tempo alle esigenze spirituali, alle relazioni umane, familiari e sociali; in ogni famiglia gli anziani venivano assistiti con amore; lo stile di vita di ognuno era più sobrio e semplice. Tutto procedeva in modo lento e legato ai ritmi della natura.
Di contro, l’attuale organizzazione della società in cui molti di noi vivono, soprattutto all’interno di contesti metropolitani, è fatta in modo tale che per potersi sostenere ha bisogno di un enorme input di energia (per lo più derivante da combustibili fossili), di merci e risorse (di cui quasi più nessuna di provenienza locale) ed emette un enorme output costituito da grandi quantità di rifiuti, liquami ed emissioni inquinanti. Anche la vita delle persone è profondamente cambiata: ora le giornate trascorrono frettolosamente, in un ambiente in molti casi snaturato; non si ha più il tempo e la capacità di autoprodurre molti beni che una volta venivano fatti in casa e, conseguentemente, si è costretti ad acquistarli, magari avvolti da imballaggi, prodotti in modo industrializzato utilizzando materie prime di scarsa qualità e provenienti da chissà quale parte del mondo (con l’inevitabile inquinamento connesso al trasporto); la mercificazione si è pian piano spinta a livelli una volta impensabili: non più solo cibo, vestiti ed oggetti ma ora si ricorre a pagamento anche per l’assistenza ai figli di pochi mesi negli asili nido e a quella degli anziani negli ospizi, perchè nelle famiglie non si ha più il tempo per queste cose in quanto ogni componente è costretto a lavorare per sostenere i propri consumi (spesso superflui o connessi a bisogni indotti), per far crescere il PIL e trainare l’economia. I legami sociali si stanno pian piano frammentando: non si ha più il tempo e la voglia per poter andare a trovare un parente malato, scambiare chiacchiere con i vicini, aiutarsi reciprocamente nel momento del bisogno. L’ambiente in cui viviamo è diventato così malsano che ad ogni occasione tutti ne approfittano per fuggire dalle città.
 
Poche settimane fa leggevo sulla copertina di un libro una vignetta con raffigurati due marziani che guardavano la terra da un altro pianeta. “Mamma – chiese il piccolo - che cos’è quella nube nera che avvolge la terra?”. La madre rispose: “gli umani la chiamano progresso”.
Molti pensano appunto che l’insostenibilità ed i guasti dell’attuale modello di sviluppo devono essere accettati perchè “non si può fermare il progresso”. Ma visto che progresso vuol dire miglioramento, allora possiamo tranquillamente affermare che stiamo regredendo e che occorre al più presto cambiare rotta ripristinando nella nostra società quei valori e quei saperi della civiltà contadina dei nostri nonni. Per fare ciò dobbiamo restituire agli anziani quell’importanza che spesso viene dimenticata e quel ruolo di ponte per la diffusione e la condivisone dei principi, della memoria e del sapere tra una generazione e l’altra. Solo seguendo questa strada potremo liberarci pian piano dalla dittatura del PIL ed incamminarci verso una decrescita felice, riducendo conseguentemente il peso che la nostra società ha sull’ambiente.