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Rigassificatori sì, rigassificatori no... rigassificatori perché?

di Giancarlo Terzano - 29/01/2007

 

 

 
Nel gennaio 2006 le certezze dell’italiano medio si sono incrinate. Dopo decenni di spensierati consumi, la “guerra del gas” tra Russia e Ucraina ci ha riportati alla logica del razionamento, ai tagli energetici. Alla fine, a dir il vero, per il cittadino medio tutto si è risolto con poco: l’abbassamento del limite di un grado della temperatura interna, misura prevista per decreto e chissà in quali termini rispettata. Nell’opinione pubblica è rimasto però l’allarme, il timore di nuove emergenze, e con essi l’idea che, forse sì, c’è davvero bisogno di rigassificatori (e, perché no? di centrali a carbone e nucleare).
Sebbene più a freddo (e nonostante l’avvenuta riappacificazione tra Russia e Ucraina), la logica dell’emergenza domina ancora il dibattito in materia, e a fine agosto la “cabina di regia” per l’energia istituita dal nuovo governo (Prodi, Bersani, Letta, Pecoraro Scanio e Di Pietro) conclude che l’Italia ha bisogno dei rigassificatori: nell’immediato di 4 impianti (come sostenuto dal titolare dell’Ambiente, Pecoraro Scanio), ma in prospettiva futura di un numero ben maggiore (fino agli 11 indicati dal collega delle Infrastrutture, Di Pietro).
E’ difficile decidere serenamente con una spada di Damocle sulla testa. E la logica dell’emergenza è cattiva consigliera, costringe a far scelte affrettate, a non ragionare in prospettiva lontana ma a puntare su soluzioni estemporanee. E semmai a farci accettare come necessarie misure che tali non sempre sono, come nel caso, appunto, dei rigassificatori.
 
I rigassificatori sono impianti che riportano un fluido dallo stato liquido allo stato gassoso.
Nel caso del gas naturale, essi servono appunto a restituire uno stato aeriforme al GNL, il gas naturale liquido, reso tale per consentirne il trasporto in apposite navi cisterna, a temperature bassissime (circa -160°).
Si tratta di un sistema più costoso, energivoro e complesso, rispetto agli ordinari gasdotti, che viene utilizzato essenzialmente da quei paesi (Stati Uniti, Giappone) per i quali la lontananza dai giacimenti metaniferi rende improponibile il collegamento con gasdotti.
L’Italia, che nel 2005 ha consumato circa 87mila milioni di m3 di gas, dipende in larga parte dalle importazioni ed è ben collegata alle reti di trasporto internazionale. Oltre il 96% del gasolio importato proviene infatti da gasdotti, e solo il 4% è stato importato via mare tramite l’unico rigassificatore già operativo, quello di Panigaglia (Sp), attivo dal 1971, con una capacità di circa 3 miliardi Nm3. Tramite gasdotti, importiamo gas soprattutto da Algeria e Russia e, in misura minore, da Olanda, Norvegia, Libia. E sono previsti nuovi metanodotti dalla Libia, per 8 miliardi Nm3, dal Mar Caspio tramite la Grecia, per 10 miliardi, dall’Algeria, per altri 10 miliardi.
Eppure, nonostante la fitta rete di gasdotti che arrivano nella nostra penisola, si moltiplicano le richieste per impianti di rigassificazione. Così, oltre all’ampliamento dello stabilimento di Panigaglia (Sp), dell’ENI, presso i Ministeri e le Regioni competenti sono state presentate domande per la realizzazione di nuovi impianti a Brindisi (per conto della British Gas), Taranto (Gas Natural), Trieste (Endesa Italia spa), Zaule-Muggi - GO (Gas Natural), Porto Viro – RO (Qatar Petroleum, Exxon Mobil e Edison), Livorno (Olt Offshore Lng), Rosignano Marittimo – LI (Edison, BP e Solvay), San Potito–Cotignola – RA (Edison), San Ferdinando – RC (Med Gas Terminal srl), Gioia Tauro – RC (Petrolifera Gioia Tauro), Augusta Melilli – SR (Erg Power e Shell Energy Italia), Priolo – SR (Erg e Shell), Porto Empedocle – AG (Società Nuove Energie srl). 13 nuovi impianti, di cui 3 già autorizzati (Porto Viro, Livorno e Brindisi) per oltre 90 miliardi di metri cubi annui, una quantità che va ben oltre le previsioni (pur crescenti) di consumi nazionali.
Infatti, anche calcolando il fabbisogno massimo di importazioni di gasolio, previsto per il 2020 (86,6 Mtep, cioè circa 105 miliardi Nm3) risulta evidente che esso potrebbe esser soddisfatto quasi per intero dai gasdotti esistenti, e che basterebbero, per i bisogni nazionali fino al 2020, anche solo un paio dei rigassificatori richiesti.
E allora, a che servono gli 11 impianti caldeggiati in “cabina di regia” dai ministri Bersani e Di Pietro?
La risposta in realtà è nota, anche se poco pubblicizzata. E si ricollega al progetto di rendere l’Italia un terminale nel Mediterraneo per il GNL da rivendere agli altri paesi. Approfittando della sua posizione strategica, l’Italia fungerebbe da snodo di distribuzione europea, importando gas che poi sarebbe rivenduto, direttamente o in forma di energia elettrica, ad altre nazioni. I rigassificatori, in sostanza, servono non tanto per garantire le necessità energetiche degli italiani, quanto per consentire a società private di vendere gas in Europa. E nel frattempo, si starebbe sviluppando un vero e proprio business dei siti, con società che, pur senza contratti di forniture, puntano a costruire il rigassificatore per poi rivenderlo.
L’obiettivo sarà anche lecito, ma mal si giustifica con l’allarmismo dell’emergenza. Se qualcosa è a rischio, non è evidentemente il riscaldamento delle nostre case, ma gli interessi economici delle multinazionali dell’energia. E non si giustificano, di conseguenza, l’urgenza nelle approvazioni, le procedure semplificate in fatto di VIA, il mancato coinvolgimento delle popolazioni interessate, addirittura la procedura di sostituzione del Governo agli organi elettivi locali prevista dall’art. 120 della Costituzione, invocata dall’amministratore dell’ENI Scaroni (ASCA, 23 agosto 2006).
 
Liberi dal ricatto dell’emergenza, possiamo meglio valutare la posizione da tenersi nei confronti dei rigassificatori.
Intanto, in linea generale, rimarchiamo la nostra richiesta prioritaria di  politiche di riduzione dei consumi energetici. Anche il ricorso ad una fonte meno inquinante (ma comunque non pulita), come il gas naturale, non serve a risolvere i gravissimi problemi ambientali se non si inquadra in una riduzione complessiva dei consumi. Il ricorso al gas naturale, quindi, non è un toccasana, ma al massimo il male minore.
Se parliamo del male minore, allora è giusto patirlo nella misura più leggera. Anziché moltiplicare gli impianti, è opportuno costruire solo quelli davvero necessari. In proposito è inaccettabile che il moltiplicarsi degli impianti (come anche delle centrali) avvenga al di fuori di un Piano Energetico Nazionale. L’ultimo risale al 1988, da allora si procede inseguendo le emergenze (o le supposte emergenze: ricordate il blackout del settembre 2003? Tutti, Ciampi in testa, a parlare della necessità di costruire nuove centrali, che non c’entravano assolutamente nulla!). Nello scorso febbraio doveva tenersi l’attesa Conferenza Nazionale per l’Energia, ma la crisi del gas russo ha portato ad un suo differimento, sine die (povera patria, quella in cui un’emergenza anziché accelerare la ricerca di soluzioni porta al loro rinvio a tempi migliori!). Eppure sembrerebbe scontato che prima di autorizzare nuovi impianti, se ne programmi seriamente il bisogno.
Valutate le reali esigenze, si può anche dare il via agli impianti strettamente necessari, ma nel rispetto delle tutele ambientali e della sicurezza. Applicando per cominciare rigorosamente la VIA, la procedura di Valutazione di Impatto Ambientale, senza deroghe e scorciatoie previste dalla cd. Legge Obiettivo. I rigassificatori rientrano tra gli impianti a rischio di incidente rilevante, e possono innescare, se realizzati in aree ad alta densità di stabilimenti (come è il caso delle località citate) un ancora più grave effetto domino, grazie anche alla volatilità del gas, che può formare nubi pericolose in un raggio di 50 chilometri. E lascia senza parole che si sia pensato finora di autorizzare rigassificatori pur in mancanza di VIA, come a Brindisi, oppure impianti in mare aperto, off-shore, prima di un approfondito studio sulla loro pericolosità, come a Livorno.
 
In realtà, ciò che più sconcerta sull’argomento è proprio la voluta mancanza di trasparenza. Dagli allarmismi sull’emergenza gas alle procedure semplificate, c’è una gran voglia di non far capire ai cittadini cosa realmente succede. Nonostante la Convenzione di Aarhus, recepita dalle legge nazionale e che prevede in tali casi la più ampia informazione al pubblico e il coinvolgimento delle popolazioni interessate. Si invoca l’emergenza, la condivisibile opportunità di diversificare gli approvvigionamenti, ma del progetto di rendere l’Italia una piattaforma metanifera non si parla. Perché, ovviamente, un tale progetto non riuscirebbe a giustificare la richiesta alle popolazioni di accettare gli impianti.
 
Non è certo la prima volta che gli interessi economici prevalgono sul diritto alla sicurezza e sull’ambiente. E due episodi, proprio in materia di gas naturale, rafforzano la nostra diffidenza.
Il primo, è la nota sentenza con cui l’Antitrust ha condannato l’ENI ad una multa di 290 milioni di euro (la più alta in Europa, dopo quella inflitta a Microsoft) per abuso della posizione dominante, per aver volutamente strozzato il potenziamento di un gasdotto dalla Tunisia, per ritardare l’ingresso di concorrenti.
L’altro è che proprio mentre si paventava, nel gennaio scorso, il rischio di rimanere al freddo per il diminuito afflusso di gas russo, l’Italia continuava ad esportare energia elettrica in altri paesi europei: le leggi del mercato rendevano infatti più vantaggioso vendere l’energia prodotta con gas all’estero (dove il prezzo era maggiore) anziché destinare lo stesso gas alle esigenze nazionali.
Insomma, la nostra maggiore azienda nell’energia, invece di curare il nostro approvvigionamento, si preoccupava di aumentare i propri profitti. Un comportamento forse in linea con le regole del mercato, ma che non può pretendere anche l’avallo dei cittadini, cui si richiede senso di responsabilità e coscienza pubblica mentre si inseguono interessi privati.