La sinistra scoprirà la società della decrescita?
di Pietro Greco - 16/11/2005
Fonte: unita.it
/smaller>/smaller>/color>/smaller>/smaller>/fontfamily>Con le sue attività ciascun italiano emette nell'atmosfera più di 10 tonnellate, in media, di anidride carbonica l'anno. Ciascun abitante degli Stati Uniti ne emette, in media, 20 tonnellate l'anno. Se tutti gli uomini si comportassero come gli italiani, ogni anno le emissioni globali di anidride carbonica sarebbero superiori a 60 miliardi di tonnellate. E se tutti si comportassero come i nord-americani, le emissioni annue sarebbero superiori a 120 miliardi di tonnellate.
Ma gli oceani e le terre emerse riescono ad assorbire dall'atmosfera solo 13 o 14 miliardi di tonnellate di anidride carbonica ogni anno. L'accumulo di quel gas in atmosfera comporta un aumento della temperatura media del pianeta. Cosicché il nostro stile di vita non è sostenibile per la stabilità del clima. E ancor meno lo è quello dei cittadini Usa. Se noi occidentali accettiamo il principio di democrazia ambientale (ogni uomo ha il medesimo diritto a utilizzare le risorse naturali del pianeta) e vogliamo evitare il riscaldamento planetario, non possiamo fare altro che ridurre le emissioni di anidride carbonica e, quindi, modificare i nostri stili di vita.
Il clima come metafora.
Il clima è un esempio (il principale esempio) e insieme una metafora del rapporto tra economia dell'uomo ed economia della natura. Cosicché, se provate a estendere le medesime considerazioni all'insieme delle attività umane risulta, come sostiene Wolfgang Sachs, che noi, abitanti dei paesi industrializzati, dovremo ridurre di dieci volte i nostri livelli di consumo entro i prossimi cinquant'anni ( Ambiente e giustizia sociale , Editori Riuniti).
Il motivo è banale. Il nostro pianeta, per quanto grande, è finito. E le attività dell'uomo hanno raggiunto la capacità di incidere sui grandi processi globali della biosfera. L'uomo, dicono gli esperti, è diventato un attore ecologico globale. Siamo al limite (qualcuno dice siamo già oltre il limite) della possibilità di crescita di queste attività. Una crescita ulteriore non è ecologicamente sostenibile.
Tuttavia mai, come in questo momento, nel mondo c'è stata tanta differenza tra ricchi e poveri. E mai questa differenza è aumentata a un ritmo così rapido. Questo sviluppo non è socialmente sostenibile.
Sono questi i grandi temi con cui la sinistra (italiana, europea, mondiale) dovrà misurarsi, volente o nolente, nel secolo appena nato. E, per farlo, dovrà - come ha scritto Sergio Latouche sul numero di novembre di Le Monde Diplomatique - decolonizzare il suo immaginario. Abbandonare l'idea che maggiori beni materiali significano maggiore benessere. E costruire la «società della decrescita».
«Décroissance!», sosteneva a tutta pagina il quotidiano francese Liberation presentando, il 12 novembre scorso, il Social Forum di Parigi dove uno dei seminari più affollati si chiedeva: «Ha ancora senso lo sviluppo?».
Il programma delle 6 R.
Già, decrescere. Diminuire la produzione e i consumi. Facile a dirsi. Ma come realizzarlo? Come far diminuire la produzione senza scatenare una rivolta sociale? E, prima ancora, come proporre una diminuzione dei consumi senza farsi ridere dietro, ovvero acquisendo il consenso sociale?
Occorre ispirarsi alla carta di Rio (la Carta della Terra elaborata a Rio de Janeiro nel 1992, nel corso della Conferenza della Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo) e realizzare, sostiene Sergio Latouche, il «programma delle 6R»: Rivalutare, Ristrutturare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. Ovvero avviare un circolo virtuoso di decrescita «serena, conviviale e sostenibile» dei nostri consumi di beni materiali.
Un mondo diverso è possibile, sostiene Carla Ravaioli in un libro ( Un mondo diverso è necessario , Editori Riuniti) il cui titolo ci ricorda l'ineluttabilità della scelta. Basta passare da un mondo centrato sulla quantità a un mondo centrato sulla qualità. Da un mondo in cui l'economia è un fine a un mondo in cui l'economia è un mezzo.
L'insieme di queste posizioni, che si accompagnano al filone americano della «ecological economics» di Herman Daly o di Robert Costanza, sembra dimostrare che nella sinistra europea stia crescendo la consapevolezza dell'importanza decisiva del tema ecoeco (ecologico ed economico) e sia cominciata la «decolonizzazione dell'immaginario», con il conseguente disaccoppiamento tra il concetto di crescita economica e il concetto di benessere.
Tuttavia per creare la «società della decrescita» non basta decostruire un immaginario, occorre anche costruirne uno nuovo. Detto in altri termini, occorre iniziare a fondare il futuro sostenibile. E a indicare un percorso politico capace di coagulare consenso diffuso.
Allora un primo concetto da ribadire è che, quando si parla di decrescita o di riduzione dei consumi, si intende di beni che comportano un consumo insostenibile di materia e/o energia. E che questo tipo di decrescita è del tutto compatibile con un processo di sviluppo del benessere immateriale e persino dei beni di consumo virtuali. Paolo Sylos Labini ha provato a immaginare un percorso di sviluppo del benessere in presenza di decrescita dei beni materiali. In primo luogo si tratta di assicurare a tutti la soddisfazione delle esigenze materiali fondamentali: alimentazione, diritto a vivere in un ambiente dignitoso. E poi di perseguire lo sviluppo umano attraverso la ricerca incessante di una condizione immateriale di benessere: salute, cultura, qualità della vita. In altre parole si tratta di realizzare quello che nella Grecia classica veniva definito uno stato di eudenomia.
Mercato e politica.
Per realizzare questa condizione dobbiamo modificare profondamente (rivoluzionare, si sarebbe detto una volta) il nostro sistema produttivo? No, sostengono molti economisti. Perché il processo di smaterializzazione e di de-energizzazione dell'economia è connaturale all'economia di mercato. Nei paesi più avanzati l'impatto ambientale per unità di ricchezza prodotta tende a diminuire e l'eudenomia è l'approdo sicuro cui ci condurrà l'economia di mercato se lasciata libera di svilupparsi. Compito della politica (della sinistra) è quello di redistribuire il benessere, materiale e immateriale, in modo che l'eudenomia diventi una condizione diffusa e stabile.
Ipotesi piuttosto lontana dalla realtà, replicano in molti. Perché, come rileva Sergio Latouche, se è vero che la «nuova economia» tende a essere più immateriale, essa non sostituisce, ma completa la «vecchia economia». E quindi, fatti i conti, vediamo, come sostiene Mauro Bonaiuti presentando Bioeconomia di Nicholas Georgescu-Roegen pubblicato di recente in italiano dalla Bollati Boringhieri, che l'impatto ambientale complessivo dell'economia umana tende ad aumentare.
Per tornare al nostro esempio climatico: senza controllo politico forte, le emissioni di anidride carbonica negli ultimi tre lustri sono aumentate sia nelle economie avanzate (Usa, Giappone, gran parte dei paesi europei), sia nelle economie emergenti (Cina, India, Asia sud-orientale), sia nelle economie stagnanti (Africa).
Se vogliamo una «società della decrescita» e del benessere immateriale, occorre dunque un cambiamento profondo del nostro modo di produrre centrato sul mercato e ormai globalizzato nel senso stigmatizzato di recente da Joseph Stiglitz ( La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi), il premio Nobel per l'economia già consigliere economico di Bill Clinton. Una globalizzazione senza regole, fondata non sul potere delle istituzioni democratiche ma sulla forza delle multinazionali, dove crescono insieme la ricchezza prodotta, l'attacco all'ambiente e la disuguaglianza sociale.
Nessuno pretende che la sinistra italiana, europea e mondiale abbia già una ricetta per costruire l'immaginario dello sviluppo sostenibile. Ma che l'esigenza di costruirlo questo immaginario sia al centro della discussione politica, questo sì dobbiamo pretenderlo.