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Il bel paese (estratto)

di Andrea Sciffo e Gianluca Visconti - 16/11/2005

Fonte: Andrea Sciffo

  Il paesaggio che scorre a centotrenta chilometri l’ora fuori dal finestrino, visto con la coda dell’occhio e le mani al volante, fitto di cartelli autostradali e pubblicitari, andrebbe chiamato propriamente sfondo.
  Chi vuole riferirsi all’origine, cioè alla finalità, del paesaggio deve ricordare che il vocabolo viene da paese cioè dall’aggettivo latino pagense(m): derivazione di Pagus che era il villaggio ma anche il cippo di pietra messo a delimitare le proprietà agricole. Una costellazione di significati che ruota intorno all’idea di fissità, di immobilità, di stabilità oramai ignote ai sensi postmoderni. Il paesaggio è l’insieme, spesso armonico ed equilibrato, degli insediamenti umani e della natura non incolta, ma coltivata dall’opera dell’uomo: è dunque un paesaggio anche umano.
  L’idea spiacerà ai puritani che lottano per la natura intatta e  incontaminata, eppure l’evidenza non mente: unica maniera per conservare l’ambiente o il paesaggio è viverci dentro, cioè abitarlo. Lo seppero i ricostruttori dell’Europa, i monaci medioevali, i quali però si ritirarono in luoghi solinghi del Creato per motivi affatto diversi: per lodare il Creatore. “Era come se la terra, scuotendosi di dosso i vecchi vestimenti, si rivestisse di un bianco mantello di chiese” scriveva Rodolfo il Glabro nella sua cronaca dell’anno mille.
Nel XX secolo è avvenuto invece un proliferare di non-luoghi e se vogliamo capire e ricostruire il paesaggio dobbiamo attraversare la loro terra guasta: viaggiare in autostrada sostando in aree di servizio, attendere i check-in in aeroporto, accettare lo schermo muto da uno scompartimento di treno. Assumendo sino in fondo il cambiamento in corso: i luoghi sono diventati “territori” in cui la città è divisa in “centro storico” e “zone residenziali” e “centri funzionali” (il cui compito dovrebbe essere quello di funzionare). Tuttavia il gran teatro del mondo non è sempre stato così e sicuramente non sarà sempre così.
La società, come il paesaggio che la contiene a dimora, necessita di continue riforme, per esistere. Popolo e terra hanno anche una figura segreta, che non tollera di venir raffigurata perché germoglia e prende forma in fondo al cuore di ognuno: è l’immagine virtuale ma reale, per esempio, dell’Italia nel cuore degli emigranti per lavoro; è il ricordo del paese natale ormai irriconoscibile per quanti abbiano più di cinquant’anni; è il presagio del futuro nell’animo di chi opera per una rinnovata convivenza civile.
Due discipline permettono di sondare il terreno per la ricostruzione: le scienze naturali, che leggono la trama ordita dal Creatore, e le belle lettere, che leggono le trame scritte del passaggio delle creature dotate d’intelligenza e amore. Questo itinerario congiunge i due aspetti dell’analisi, fornendo alcune chiavi di interpretazione del paesaggio dell’anima, lo seelische Landschaft nel quale siamo chiamati a vivere, che l’abate Stoppani battezzò felicemente, a suo tempo, “Il bel paese”.

 A mezzogiorno, l’isola di Sicilia
L’incisione tardo-ottocentesca dei Tassotti di Bassano del Grappa mostra un’Italia orientata in maniera suggestiva: ossia, capovolta. La Sicilia si perde in un alto orizzonte luminoso. Regione di filosofi della natura, quand’era Magna Grecia e vi abitarono i Presocratici: leggenda vuole che Empedocle decidesse di gettarsi nel magma incandescente dell’Etna. Trionfo dell’elemento del fuoco.
  E il tratto igneo, solare, arroventato pare essere il segno dell’isola di Trinacria. Luce e colore al calor bianco sono nelle pagine dei suoi maggiori poeti, da Giacomo da Lentini a Verga, Pirandello, Quasimodo. Presso Girgenti, nella sulfurea località detta Càvusu (dal greco Kaos) vide la luce il drammaturgo di “Sei personaggi in cerca d’autore”, il romanziere del “Fu Mattia Pascal”. Ma anche un tedesco colse bene la caratteristica inorganica del paesaggio siciliano: Ernst Jünger descrive un promontorio a ovest di Palermo, ne Il contemplatore solitario (Guanda,2000), e ne ridà il senso inerte, come di una rovente pietra lunare. Roccia, incandescenza, lava. Le città stesse escono dalla dura terra, ora con meraviglie architettoniche, ora con bassi edifici poveri, ora come orrori abusivi: ma le genti che vi dimorano, e la natura che incombe come un sole a picco, hanno sempre l’ultima parola.
  Una parola rara, una riservatezza che lascia al silenzio l’epitaffio; sullo sfondo (acustico) il mormorio del mare o i borborigmi minacciosi del vulcano ricordano che l’uomo, nel paesaggio siculo, è un ospite riverito e messo alla prova.
            Nell’agosto 1869, Antonio Stoppani compì una ascensione alla cima dell’Etna, in seguito descritta negli ultimi capitoli del Bel paese (1876):
”Osservato da Catania, non lo si direbbe nemmeno un cono vulcanico. S’ingannerebbe chi credesse, recandosi a Catania di rivedere il Vesuvio fatto più grande e più massiccio. Tutt’altro: anzi l’Etna non sembra nemmeno una montagna, ma piuttosto una piccola catena di montagne”…”Il suo cono è su per giù come una pina, come un cono composto di tanti conetti. Ogni eruzione laterale creò e crea uno o più coni, come quelli che abbiamo visti alla base del Vesuvio. Soltanto quelli erano affatto piccini, mentre i coni dell’Etna sono vere e proprie montagne, alte centinaia di metri. Quante eruzioni laterali ebbe l’Etna in tempi a noi così vicini e fino ai nostri giorni! Immaginate quante ne avrà avute nei tempi preistorici, e quindi quante montagnole e montagne devono renderne irta la superficie, senza contare quelle che a cento a cento rientrarono nei fianchi dell’Etna essendo a state coperte dalle più recenti eruzioni. Però 80 almeno di questi coni, che meritano il nome di monti, si contano ancora senza tener calcolo dei minori che ne eleverebbero il numero forse a più di centinaja.
“…Le ceneri e le scorie divennero terriccio; i coni montagne boscose; tutta l’Etna, dalla base fino a grande altezza, è un vago giardino. I geografi dell’Etna la dividono in tre regioni. La prima è la cosiddetta zona fertile o piedimontana. Comincia dove l’Etna sorge dal mare e sale fino a parecchie centinaia di metri. Quale contrasto tra questa regione e l’ideale di vulcano! Quella prima zona etnea è come un immenso collare di aranci, di limoni di ciliegi, oliveti, melogranati, e pomi e peri. Non vi parlo dei fichi d’India, che rivestono di fantastiche foreste del genere tropicale, le più irte correnti di lava. Non vi parlo de’ vigneti, da cui il mosto scorre a torrenti. Via; si tratta di una delle più fertili zone del globo; ma di quelle regioni, dove alla ricchezza e alla varietà dei prodotti si aggiunge bellezza di cielo, purezza d’aria, incanto di paesaggio. Io credo che la base dell’Etna sia la zona più deliziosa d’Europa.
             La seconda regione è la così detta zona boschiva, un altro grande collare sovrapposto al primo, di vaga foltissima verzura, ma ora guasta e diradata assai dall’abuso che si fa in tutto il mondo del taglio dei boschi. Predominano le querce ed i castagni, e vi ricorderete del castagno dell’Etna, alla cui ombra, dicesi, potevano porsi al riparo cento cavalli…”
 La terza regione è la terminale o zona deserta. Essa comincia dove il cono dell’Etna, sorgendo dalla zona boscosa, non è più che un gran mucchio di sabbia nera e grossa proprio come fosse di carbone trito, dal cui seno escono irti scogli e secche lasciate dalle correnti di lave antiche e moderne…”.
Nel suo recente splendido studio sull’ecologia del paesaggio, Sandro Pignatti segnala come ancora oggi sia possibile riconoscere sulle pendici dell’Etna una fascia arbustiva a Genista aetnensis che, in quota, lascia spazio ad altri arbusti spinosi con Astragalus siculus, una specie che ritroviamo anche nelle alte montagne dell’Asia centrale. Oltrepassando i 2000 m di altezza sul livello del mare la vegetazione diventa rara: solo poche specie pioniere che colonizzano il substrato lavico come  Rumex aetnensis si avventurano in quota sino a scomparire nella zona craterica. Qui ogni forma di vita scompare. In acuto contrasto con il paesaggio desertico della sommità sono le pendici, con suoli progressivamente più fertili e ampie formazioni boschive con faggio, pino silano e betulla, che lasciano il posto, sotto i 700 m di quota, agli agrumeti.
Ma la Sicilia non si esaurisce con l’Etna. La sua posizione nel cuore del mediterraneo e l’esposizione all’influenza dei venti umidi occidentali, in parte sbarrati dalla barriera montuosa che incombe sul Tirreno, come al caldo soffio dei venti sciroccali provenienti da sud e sud-est, genera diversità climatiche talmente ampie da giustificare una grande differenziazione floristica.
Il paesaggio caldo e arido con cui identifichiamo la Sicilia -perché di gran lunga prevalente dal Trapanese ai monti Iblei- è costituito da una successione di colline e basse montagne costituite da substrati marnosi e arenacei che raramente raggiungono la quota di 1000 m sul livello del mare.  L’aridità del paesaggio è determinata sia dalle temperature medie che, nell’arco di un anno, si attestano su valori di poco superiori a 15°C, sia dalla scarse precipitazioni che, frequentemente, risultano inferiore a 500 mm annui.
L’intervento dell’uomo ha prodotto diverse trasformazioni nell’ambiente naturale. Attualmente le colture cerealicole lasciano solo pochi lembi della vegetazione originaria e, pertanto, l’aspetto paesistico viene definito seminaturale. La vegetazione climatogena, ovvero la vegetazione preesistente a quella latitudine e che si svilupperebbe nelle condizioni climatiche attuali nell’ambito collinare, è la lecceta accompagnata da quelle specie arboree decidue che troverebbero spazio come conseguenza della presenza di un substrato che presenta una notevole capacità idrica.
Le condizioni di maggiore aridità della costa rispetto all’interno favoriscono la macchia bassa di cespugli o alberelli sempreverdi (chapparal) come la palma nana (Chamaerops humilis) e di specie spontaneizzate quali Opuntia ficus-indica e Agave americana che, pur essendo originarie delle Americhe, rappresentano una componente essenziale del paesaggio. Dove è disponibile l’acqua sono possibili colture tipiche dei paesi subtropicali.
Il lato settentrionale della Sicilia è costituito da una serie di catene montuose da ovest verso est: sono le Madonie e i Nebrodi. Il clima di queste montagne sfugge alla regola che vuole la Sicilia calda e arida, infatti le montagne del versante tirrenico sono esposte a correnti umide provenienti dal mare e, pertanto, godono di precipitazioni abbondanti che raggiungono anche valori di 1200 mm annui.
 La vegetazione di queste terre è caratterizzata da leccete nella parte più bassa, mentre a mezza costa, sul lato nord delle Madonie, si ha la splendida formazione di bosco temperato sempreverde. La parte più elevata delle Madonie è talmente ricca di endemismi, cioè di specie che si incontrano molto raramente perché rare e localizzate in pochi punti del territorio, che può senz’altro venire definita come l’area di maggior valore naturalistico dell’intero territorio italiano.
       Tra le associazioni rupestri non possiamo dimenticare la splendida formazione floristica costituita da astragali spinosi (Astragaletum nebrodensis), mentre negli ambienti umidi non mancano torbiere e sfagni, che introducono in Sicilia quei tipi vegetazionali che sono tipici dell’Europa atlantica e settentrionale.

L’arco della riviera ligure
  L’estrema propaggine sudoccidentale del sistema alpino forma un arco che si inserisce tra la Pianura Padana e il mar Ligure: si tratta di una fascia non molto estesa che presenta una sola catena principale insieme a vallate profonde e pendii scoscesi. Il tutto è inserito in un gradiente formato da  intense variazioni climatiche.
             Sono queste -nell’ammirevole sintesi fatta da Pignatti- le caratteristiche del territorio ligure. Dal clima mediterraneo delle località costiere si passa a quello montano dei rilievi dove le precipitazioni sono abbondanti. Il gradiente climatico e la varietà dei substrati ha favorito lo sviluppo dell’endemismo floristico che qui, più che in altre regioni, è molto sviluppato.
  I freschi e ombrosi boschi di faggio si interrompono per lasciare spazio ai boschi misti di faggio ed abete bianco, o a consorzi aperti a larici e rododendri piuttosto che alla cembreta.
              Nonostante una ridotta superficie –la Liguria è al terzultimo posto tra le regioni italiane- possiede una tale ricchezza di specie floristiche da non avere rivali in tutto il territorio italiano! E’ Massimo Quaini a rilevare che, a partire dagli ultimi due secoli, in questa regione sono venuti elaborandosi gli schemi interpretativi del paesaggio caratterizzato da una riviera mediterranea, costellata di città, ville e giardini. Più lenta è stata la conquista conoscitiva della montagna con lo sviluppo di un economia basata sulla coltura del castagno su larghi tratti dell’Appennino ligure e, più avanti nel tempo, con la raccolta dei vegetali spontanei, o nell’allevamento e lo sfruttamento del bosco.
             Ancora oggi il paesaggio costiero e quello interno si confrontano: la vegetazione caratteristica della parte costiera è la lecceta, mentre il paesaggio interno è caratterizzato dall’ampia diffusione del Pino marittimo (Pinus pinaster) e dalle associazioni a Lavandula che la ricollegano ai paesaggi della Provenza.
             A differenza della Riviera di Ponente che presenta un modellamento dolce, caratterizzato da estesi uliveti e da ripiani per la coltura dei fiori, carattere peculiare della riviera di Levante è di mostrarsi aspra e scoscesa. La costa scende nella spuma del mare, trapunta di casette colorate, di sparuti villaggi di ex-pescatori. L’acqua si sgranchisce in verdi onde, il mare offre aliti salini e l’odore della schiuma salmastra. Immaginiamo che magra pesca dei secoli bui del Rinascimento, quando i turchi saraceni infestavano i mari mediterranei e ogni tanto approdavano alle calette inermi dei liguri, razziando e depredando e costringendo vieppiù le comunità a rinselvatichire nell’entroterra...
  Una corona di monti boscosi, a settentrione, protegge le spalle da inopportune tramontane. Il clima a questo punto induce a una riflessione: l’Italia è una nazione di Regioni. La letteratura, l’insieme di lingue idiomi dialetti accumulati nel tempo, lo testimonia con eloquenza: si vedano i volumi della Letteratura delle regioni d’Italia. Storia e testi” edita da La Scuola (Brescia,1986-’90), una collana diretta da Pietro Gibellini e Gianni Oliva.
             Non si faticherà a comprendere come ogni area italica abbia un suo genius loci peculiare, che la voce popolana e gli scrittori veri amplificano. Molti sono passati dalla fanciullezza alle soglie dell’adultità dentro i profumi di Liguria. Là, le stagioni sono intermezzi verso un evento che si annuncia ma non viene: a marzo si rientra col fumo dei comignoli addosso; a luglio, i frutti pendono dalle piante entro piccoli orti trascurati o lasciano dolci effluvi sui banchi del mercato; a novembre, il mare recita il breviario davanti alla sabbia umida e alle colline intabarrate. Indimenticabile limpida fragranza dell’aria, con tutto che la Liguria sia un’appendice costiera di Piemonte e Lombardia e dunque un vertice logistico del “triangolo industriale”: ciononostante, il vento porta i bisbigli degli ulivi, il sapore di focaccia sfornata, fragranze di pane caldo preparato anche la domenica per i forestieri, l’aroma delle resine e dei pini marittimi al sole.
  Nelle estati tra il 1978 e il 1996 è trascorsa la grande transizione, la fine delle vacanze in famiglia, la defezione dei figli verso altri lidi e dei coniugi ad altri illeciti nidi, l’esilio progressivo ma taciuto dei nonni (dove sono ricoverati?), l’estinzione delle serate di quiete giocate a carte sul terrazzo sotto le stelle, con la brezza di mare che scuote il tendone e gli oleandri.
             Venne la “Milano da bere” e ognuno finì per non riconoscersi. Punto di non ritorno, oltre alle mode insopportabili dei rampanti di ogni ceto, fu il 1991 quando in aprile la petroliera Haven ebbe un’avaria e scaricò tonnellate di greggio nelle acque antistanti Genova: nel frattempo, le primissime navi-carretta cariche di Albanesi erano sbarcate sulle coste pugliesi, e in estate il medesimo litorale adriatico avrebbe subito l’invasione melmosa delle mucillagini, a ponente, e del sangue serbo-bosniaco-croato, a levante.
  La Riviera divenne il teatro dell’adulterato sino all’abbandono, quando fu chiaro al milanese che andare in Sardegna rappresentava uno stigma imprescindibile: e le spiagge liguri, benché gremite, divennero deserte. Il paesaggio ha una sua voce seducente (ma bastano le pagine di Montale o Sbarbaro a rivelarla?) che fa di tutto per ricondurre ciascuno a se stesso: per la Settimana Santa la natura indossa apposta un verde novello, tra fiori bianchi e rosa, che per mitezza ricorda davvero la primavera palestinese di duemila anni fa, quando si decise il nostro destino.
              Partecipando ai riti del Giovedì o del Venerdì Santo, e uscendo poi dal fresco della chiesa all’aperto della sera marittima, è difficile non pensare per un istante di aver assistito di persona alla Passione, magari tra la folla pazza che grida “Barabba!” o seduti nell’erba rorida davanti alle tovaglie grezze stese dagli apostoli nel Getsemani… gli ulivi sono quasi gli stessi. E’ vero, è tanto tempo fa: ma si vedevano ragazzini accanto ai padri e chierichetti (e chierichette) che subito dopo la Via Crucis volevano tornare da soli a casa, allungando la strada. Pur negli scherzi scemi dei quattordicenni, sentivano una cosa strana come una punta piccola piccola nel cuore; il vago ricordo che quel pomeriggio alle tre era morto Gesù, e qualcuno senza farsi troppo notare non prendeva il gelato o rinunciava in segreto ad ascoltare musica nel walkman, per un intimo rispetto, quello che si prova per un amico.
  

  L’anfiteatro pedemontano dei Sacri Monti
  La transizione tra l’alta pianura e le prime colline moreniche è graduale: queste colline sono una zona di transizione ove si ritrovano contemporaneamente elementi vegetazionali propri delle formazioni montane e quelli che caratterizzato il paesaggio della pianura.
             La foresta potenziale è formata da associazioni di rovere (Quercus petraea) e di roverella (Quercus pubescens). La betulla e il castagno si rilevano nelle formazioni moreniche più antiche, su terreni acidi e silicatici, mentre possiamo rinvenire le associazioni di carpino (Carpinus betulus) con frassino (Fraxinus ornus), rovere, roverella nei terreni neutri e carbonatici su formazioni moreniche più recenti. La presenza del castagno si accompagna a quella dell’uomo che ha sostituito, in tempi antichi, il querceto preesistente con la coltura di questa essenza utilizzata soprattutto nell’alimentazione.
            Su queste fasce altitudinali troviamo localizzate anche le associazioni degli ostrieti, quelle del querceto mesofilo di rovere e degli aceri con tiglio o con frassino. Gli ostrieti prediligono esposizioni prevalentemente soleggiate e suoli calcarei con scarsa disponibilità idrica. In queste boscaglie lo strato arboreo è formato da orniello  (Fraxinus ornus),  carpino nero (Ostrya carpinifolia), roverella e castagno, mentre lo strato arbustivo comprende il ligustro, il sanguinello, il corniolo e la rosa canina.
            Più a nord troviamo le Prealpi lombarde che si estendono per una larga fascia seguendo un andamento est-ovest, dal Lago Maggiore al medio e basso Lago di Como, fino al Lago di Iseo ed alla sponda occidentale del Lago di Garda.
Tutto il versante meridionale delle Prealpi è investito dalle correnti umide provenienti dall’Adriatico provocando, nelle diverse stagioni, la formazione di nebbie e abbondanti precipitazioni. Tale effetto è massimo sulle prime catene sino a determinare il paesaggio delle Prealpi.
             Lungo questa fascia prealpina si sviluppano i laghi di Garda, Maggiore, d’Iseo, di Como, di Lugano, che hanno origine glaciale. Una tribù gallica, gli Insubri, hanno il curioso destino di dare nome a questo paesaggio che resta tra i più belli del nostro Paese. La grande quantità d’acqua dolce in essi contenuta produce un marcato effetto di termoregolazione del clima con estati fresche e inverni relativamente miti.
             Le precipitazioni registrate mostrano valori molto elevati in tutta l’area (sino a 2000 mm annui). Nelle parole di Eugenio Turri, uno dei maggiori studiosi del paesaggio prealpino, questo territorio prealpino si salda a quello padano attraverso una fascia pedemontana, una linea attrattiva, popolatissima, che costituisce una cerniera tra i due diversi ambiti geografici. Secondo Turri, la lettura del paesaggio prealpino deve iniziare proprio da questa linea pedemontana che si presenta come una linea di forza su cui si è innervata storicamente l’organizzazione della regione prealpina. Sviluppatasi ai piedi delle Prealpi, su conoidi fluviali, o tra le alture moreniche poste allo sbocco delle grandi valli, presenta diversi centri urbani di piccola o media dimensione. Tra questi troviamo Varese.
             La fascia pedemontana è attualmente densamente popolata e l’insieme fa pensare ad una grande città lineare in embrione, dove gli aspetti del paesaggio tendono a livellarsi, ad omologarsi, come fosse un’unica distinta periferia lungo la punteggiatura delle città e dei centri maggiori.
             Intorno a tali centri si estendono campagne, tuttora ancora coltivate, direttamente allacciate alle valli prealpine dove il processo di romanizzazione si concretizzò nella creazione di insediamenti rustici nei fondovalle più vicini e meglio coltivabili. Sugli impianti romani dei centri pedemontani si svilupparono successivamente gli edifici medievali e rinascimentali, testimonianze che ci offrono indicazioni sulla vita prealpina del passato.
             L’ambiente delle Prealpi rivive nel colore delle pietre e dei marmi estratti dalle cave, m anche nelle associazioni delle brughiere a Calluna vulgaris che, in parte, hanno sostituito il querco-carpineto originario. Questo arbusto sempreverde di bassa statura e con foglie squamiformi, caratterizza l’ambiente con una fioritura rosata autunnale, a differenza della ginestra dei carbonai (Sarothamus scoparius) che si mostra in fioritura gialla durante la primavera.
            Un’ultima formazione di queste terre che è importante accennare è la pineta di pino silvestre che forma dei popolamenti puri o più spesso misti con la farnia o il castagno. Queste formazioni possono essere interpretate come una vegetazione di transizione dalla brughiera al querceto.
  “Non tutto il campo è però coltivato a frumento. Qui sui colli sorgono i vigneti, là scorgi le olive che s’imporporano, e ancora di là le rose profumate. Spesso, anzi, abbandonato l’aratro, l’agricoltore scalfisce il suolo col dito per deporvi la radice dei fiori; con le rudi mani, con le quali guida tra i vigneti i riottosi giovenchi, delicatamente munge le pecore. E tanto migliore è il campo quanta più numerosa è la varietà dei frutti prodotti.
  Tu pure, seguendo l’esempio del buon agricoltore, non deprimere la tua terra con il vomero di prolungati digiuni; fioriscano nei tuoi giardini la rosa del pudore, il giglio dello spirito, e le umili viole si dissetano al fonte perenne del sangue divino. Dice il proverbio: tralascia ogni tanto di fare quella cosa che vuoi fare più a lungo. Ci deve essere qualcosa in più da fare in quaresima, non per ostentazione ma per amor di Dio.
  Rendiamoci poi cari a Dio con frequenti preghiere. Se il profeta Davide, immerso nelle necessità del suo regno, disse: ”sette volte al giorno canto la tua lode”, che cosa dobbiamo far noi che leggiamo “vigilate e pregate per non cadere in tentazione”? Certamente dobbiamo elevare solenni preghiere con rendimento di grazie, quando ci svegliamo dal sonno, quando usciamo, quando stiamo per prendere cibo, dopo che abbiamo pranzato, all’ora dell’incenso e finalmente quando ci corichiamo.
  Ma vorrei che anche nel tuo giaciglio tu alternassi la preghiera insegnata dal Signore con i salmi, sia quando ti svegli, sia in attesa di addormentarti, così che sin dall’inizio del riposo, libera da preoccupazioni umane, il sonno ti colga nella meditazione delle cose divine.
  Nelle ore del mattino, poi, ogni giorno, dobbiamo meditare attentamente il Simbolo, sigillo del nostro cuore: e dobbiamo ricorrervi quando ci troviamo in pericolo. Quando mai, difatti, s’è trovato un soldato al campo o un guerriero in battaglia senza che abbia giurato fedeltà?”.
  Queste parole vennero pronunciate al popolo cristiano milanese da sant’Ambrogio attorno al 377 e raccolte nel trattato De virginibus dedicato alla sorella Marcellina. L’equilibrio tra la lirica georgica del santo che ama il Creato e il dolce rigore dell’infallibile direttore spirituale va pareggiandosi, qui come in tante altre pagine ambrosiane. Ciò costituisce la migliore introduzione all’ambito geografico e mistico dei Sacri Monti tra Piemonte e Lombardia: un caso unico nella storia cristiana di “architettura, scultura, pittura incarnate nella devozione popolare e ipso facto nella natura del luogo”.
  E’ con la sconfitta dei Crociati e la caduta di San Giovanni d’Acri a fine Duecento che sorge nei cuori il desiderio di trasferire in Europa quanta più Terra Santa possibile; di riprodurre in maniera teatrale le scene della vita di Nostro Signore; di orientare i travagliati sentieri dei pellegrini a mete più certe e confortanti. Ecco allora i Sacri Monti sorgere come fiori nel golfo pedemontano, nel tempo della Controriforma: primo è Varallo Sesia nel 1493, poi nell’età barocca si aggiungono Crea Monferrato, Varese, Arona, Graglia, Oropa, Ossuccio, Borgosesia, Ghiffa, Andorno, Domodossola, Belmonte e Montà.
  Soltanto la Svizzera, il Portogallo e la Spagna vedranno simili fioriture di sante colline frequentate da oranti camminatori, dagli escursionisti più amabili: i viandanti che ripetono a mezza voce il Rosario. Oggi, in tempi di alpinismo e di trekking massiccio e inquinante, sospiriamo nell’immaginarci le silenziose turbe di uomini, donne, vecchi e bambini che partono a piedi da casa in cerca di un Dio che dica all’anima: “Eccomi!”. Ma la loro luce di lanterna, di cero votivo, di candela, di cuoriforme ex-voto appeso alla parete del santuario ci illumina ancora.
  Ne I Sacri Monti dell’arco alpino italiano (Priuli&Verlucca,1990), Massimo Centini fornisce un itinerario di visita, tra le cappelle nelle quali la sacra storia della nostra salvezza è avvenuta: chi sia salito in un pomeriggio d’estate a Orta san Giulio e abbia sporto il viso verso le statue del Gesù al Calvario e di Maria sotto la Croce, capirà.


  Elogio della Lombardia
              “La Lombardia appare subito, anche a chi non la conosca da sempre, come la terra privilegiata dell’elegia, ove però non la si immagini mai popolata di pastori poeti: una elegia non artificiale e non arcadica, che ammette tutt’al più i personaggi ben reali e per niente convenzionali delle Bucoliche di Virgilio. La fertilità della sua terra e la profusione delle sue acque la dispone ad essere un ambiente nel quale si viene accolti, ma che non si conquista, un mondo materno da riconoscersi in gratitudine piuttosto che un mondo ostile sopra il quale imporsi.
  Il viaggiatore che oggi percorre in treno la pianura o le alture prealpine, che sono i due aspetti se non proprio le due anime della Lombardia, viene coinvolto in una ricchezza di verde che non è da nessuna parte d’Italia: l’occhio non può frequentemente spaziare per larghi tratti, perché lo spazio è definito da lunghe ed elevate cortine di alberi, i pioppi e gli ontani della pianura, i faggi e i castagni delle alture. Non si ha impressione di aridità ma nemmeno di rigore, perché la Lombardia è parimenti diversa dal Sud e dalla Toscana. Essa si apparenta piuttosto al Veneto, e alla Emilia, ove le si sottragga la dolcezza pronta a disfarsi che è del primo e la sensualità affocata di vita della seconda; e si rilevi invece che la sua elegia è un abbandono che non tollera svenevolezze né eccessi. La sfumatura della caligine, del vapore e delle nebbie che avvolgono per tanta parte dell’anno il paesaggio lombardo vieta, non meno delle lunghe cortine di alberi, la visione degli ampi spazi: invita al raccoglimento e alla chiusura. Lo stesso cielo di Lombardia, “così bello quando è bello, così splendido, così in pace”, non è semplicemente bello e tanto meno abbagliante: è piuttosto un riscatto sopra il frequente grigiore, è un cielo dell’anima. E’, come il paesaggio che copre, un cielo morale.
  Non mi si venga a chiedere a questo punto se sto considerando la Lombardia in sé e per sé, o come l’hanno vista pittore e poeti. Si chieda piuttosto se pittori e poeti hanno visto giusto: per me hanno visto giusto. E soprattutto si tenga presente che, in una terra non più vergine, natura e civiltà sono indistinguibili”.
  Avrete riconosciuto pur in pochi paragrafi la prosa perfetta di Rodolfo Quadrelli, ristampata ne Lo studio della letteratura europea (Il Cerchio,2001): il miglior portale per fare ingresso nella più corteggiata tra le regioni, sin dagli albori dell’arte, quando Bonvesin de la Riva contrapponeva l’umile violetta lombarda all’altera rosa toscana. Oggi tutto è mutato: viviamo nell’hinterland milanese una incerta apocalissi esistenziale tra ritmi di lavoro ipercompressi, economia sotto sforzo e traffico insostenibile. Che il problema dell’inquinamento dell’aria sia insolubile è chiaro: perché è una questione morale, riguardante tanto il sistema dei trasporti quanto le scelte collettive e individuali. Chi imporrà il sacrificio sociale di riconvertire cinquant’anni di politica dei trasporti su gomma? Chi obbligherà sé stesso ad andare a piedi laddove si può in macchina? Inerzia e pigrizia tramutano la massima comodità in massimo disagio: lo spostarsi celermente. Le stagioni, irriconoscibili, rispecchiano tale incertezza.
           Ma non è sempre stato così. Leggiamo dal Bel Paese dell’abate Stoppani (a p.120), una descrizione del clima invernale del paesaggio padano:
           “Venuta la sera, una nebbia fitta, immobile e serrata come un lago di acqua stagnante, levossi sull’orizzonte, riempiendo le vie, i giardini,, i cortili, le porte delle case. Dai vetri appannati e goccianti del mio studiolo, la nebbia traspariva come una bigia muraglia edificata contro alla casa senza alcun distacco. Solo i più vicini dei fanali a gaz, trasparendo d’in sulla via, rompevano il bigio uniforme di quella muraglia, come piccole radure nel fitto di un cielo piovoso e nero. Era una di quelle freddissime sere d’inverno in cui volentieri ci condanniamo a stare in casa…”
            Se l’Italia è un paese prevalentemente montuoso e collinoso il cui cardine è il sistema alpino-appenninico, non manca lo spazio per un pianura che faccia convergere verso di sé le maggiori attività umane. E il paesaggio padano, nel suo aspetto più tipico, è una pianura irrigua, intensamente coltivata, nella quale i cereali vernini -soprattutto frumento- si alternano al mais, ai prati e agli erbai.  Pignatti ci rammenta come la vegetazione naturale sarebbe una foresta mista caducifoglia, ormai ridotta a pochi lembi, mentre l’elemento arboreo del paesaggio oggi prevalente è una specie coltivata: il pioppo canadese.
           Negli ambienti resi umidi dalla presenza di fiumi o canali irrigui, troviamo boschi di Ulmus minor e Acer campestre, oltre ad uno strato erbaceo ed arbustivo a Phragmitetum o Caricetum. Le essenze arboree caducifoglie coprivano la pianura resa disponibile dalla regressione marina. Dal momento del ritiro delle acque del mare Adriatico da questo ampio golfo, fiumi e torrenti alpini e appenninici hanno assunto il ruolo preponderante della formazione della pianura, mentre l’azione  del vento è stata significativa solo in aree a limitata estensione e per brevi periodi.
            Le grandi glaciazioni del Pleistocene –l’ultima si è conclusa circa 12.000 anni fa- hanno modellato profondamente i territori montani e collinari, trasportando fino all’alta pianura materiali litologici di tipo alpino. A testimonianza di questi relativamente recenti eventi glaciali troviamo a sud dei grandi laghi prealpini lombardi immensi depositi morenici che appaiono distribuiti in cerchie concentriche a concavità rivolta a nord. Da questi archi morenici le fiumane alimentate dalle acque di scioglimento glaciale hanno prelevato, a più riprese, una serie di materiali in seguito rideposti, più a sud, in ampi conoidi.
           L’alta pianura, che corre a nord di Milano lungo un’immaginaria linea briantea, è in buona parte occupata da queste morene, modellate a formare dei ripiani attualmente sopraelevati rispetto al livello fondamentale. Qui avvenne la prima grande industrializzazione italiana, verso il 1880. Darsi le strutture e le infrastrutture per lo “sviluppo” comportò sacrifici enormi per gli italiani: da una povertà rurale a un immiserimento urbano. Il nodo della nostra storia è qui: la devastazione attuale di qualunque lembo di terra ancora intatto è solo una delle conseguenze dell’impostazione mentale contro la vita. Esiste un legame tra la cancellazione delle orme del sacro nell’ambiente e l’abuso, la violenza compiuta sugli uomini, sugli indifesi, sui nascituri?
           La risposta non sarà un mero esercizio retorico. Quasi nessuno scrittore ha saputo, sinora, rispondervi. Carlo Linati (1878-1949), scrittore comasco, fu un superficiale, figlio del suo tempo, nel bene e nel male; lasciò un’eredità di prose brevi e descrittive che molto opportunamente l’editore Massimiliano Boni di Bologna ha riedito, dall’Antologia degli scritti alle Passeggiate lariane.
          “Uno squarcio di pianura comacina, veduto da un colle, nelle paese di un uragano. Un segmento d’arcobaleno troncato da un volo di nubi è sospeso come il mozzicone di una scimitarra. Ma laggiù, a oriente, sfiorato da un’occhiata di sole, Cantù appare nitido e rosseggiante sul mar delle colline. Sul mio capo è tumulto. Nubi color rame fuggono verso il confine: paion armi e carriaggi di un esercito in disfatta. Guardo la mia terra. I macchioni verde scuri che ammantano poggi e colline assaltano da ogni parte il verde idilliaco della campagna aperta a praterie acquose, punteggiata di filari di gelsi, rigata in su i dossi a vigneti e pianori. Quei macchioni che si dilungano, cavalcando alture sempre più frequenti, verso la dolce regione dei laghi pariniani danno alcunché d’antico al paesaggio: selvoso richiamo all’origine druidica del paese”. Le pagine di Linati costituiscono un diletto della mente, per la loro levità nel rievocare fatti e persone, minori e minimi, usi e costumi di un tempo che fu; il viaggiatore della domenica pranza in trattoria, e leggerà volentieri quegli appunti su una Brianza paragonata a una Vandea nostrana, deposito ormai esaurito di tradizioni, ora anzi quasi cantina del paesaggio contemporaneo.
           Anche il sottosuolo di Milano, almeno sino ad una profondità di 250-300 m, è costituito da depositi del quaternario continentale, mentre al di sotto di questi giacciono i sedimenti limoso-argillosi-sabbiosi formatisi nel periodo in cui erano le acque marine a dominare il vasto golfo padano. Questi sedimenti, a loro volta, si appoggiano su di uno strato argilloso-limoso profondo circa 1000m. Il clima della fascia pianeggiante della Lombardia può essere classificato come mesoclima padano, cioè un clima di transizione tra il mediterraneo e l’europeo, che si caratterizza per inverni rigidi ed estati relativamente calde, con elevata umidità, piogge non frequenti –soprattutto nel periodo invernale, il più secco- e con due massimi in primavera ed in autunno.
           Per una ricostruzione del periodo postglaciale dobbiamo affidarci alla competenza di Paolo Lassini: al termine dell’ultima glaciazione, le pianure erano rivestite completamente da boschi di pino silvestre e betulle. Un successivo cambiamento climatico con temperature medie più elevate e maggiori precipitazioni  hanno consentito lo sviluppo del faggio e, circa tremila anni fa, del bosco a rovere e carpini pervenuto in frammenti ridottissimi sino ai nostri giorni. Anche l’alta pianura era ricoperta da foreste miste con querce e betulle, mentre il pino silvestre era confinato nelle aree più elevate.
          Attualmente la loro area di diffusione è ridotta a pochi lembi localizzati in prevalenza lungo il Ticino, l’Adda, l’Oglio. Voglio ricordare il bosco di Cusago,  ora quasi inglobato a ovest della città di Milano. Lo strato arboreo è formato da farnia, ciliegio, olmo minore, tiglio, pioppo nero e bianco. Uno strato arboreo più basso presenta acero campestre oltre a carpino bianco nelle formazioni più affrancate dall’acqua. Lo strato alto arbustivo è, invece, costituito soprattutto da nocciolo mentre nello strato basso arbustivo troviamo evonimo, sanguinello, corniolo, biancospino, ligustro e viburno. Le numerose erbe occupano i primi 40 cm dal suolo. La presenza di acqua di falda a profondità ridotta aumenta la possibilità del suo utilizzo dalle radici della pianta, mentre la fertilità del terreno gioca un ruolo fondamentale nel caratterizzare i popolamenti, infatti una falda troppo superficiale favorisce quella componente accessoria di pioppi quali olmi ed ontani. Quando, invece, la falda è più profonda si va verso il querco-carpineto, con uno strato dominante di farnia e carpino bianco.
            Lungo gli argini dei canali si sviluppa una vegetazione in cui sambuco, nocciolo, sanguinella, pioppo, olmo, ontano e robinia mostrano una frequenza maggiore, mentre le specie classificate presso il fontanile di Bareggio (Mi) annoverano Apium nodiflorum, Nasturtium officinale, Mentha acquatica, Myosotis scorpioides, Ranunculum aquatilis, Veronica sp., Nagallis aquatica,e Cellitriche palustris.
          Su simili sfondi si esercitò la prima arte novellistica di Giovanni Verga, siciliano emigrato sotto i cieli meneghini per cercare il successo: si rilegga un suo abbozzo dal titolo “I dintorni di Milano”, del 1883, per vedere come certe costanti del paesaggio (elegia dell’insieme, umiltà e rigoglio della natura, leggiadra e malinconica eleganza dei laghi e dei colli briantei, senza smanie d’assoluto).
  Sui medesimi scenari raggiunge l’eccellenza artistica la riproduzione di vedute della Bassa nelle acqueforti di Agostino Zaliani, tra i migliori incisori viventi. Le due opere qui accanto (lastra n°73 Landa d’inverno e n°151 Cascina Giustina) provengono dal suo book stampato da Grafica Varese Edizioni, ed esprimono le immagini incise di un’idea di Lombardia materna, un contenitore accogliente per il destino comune di noi uomini di tutti i giorni.
  Nell’ottobre 1999, Zaliani tenne una relazione alla Accademia dei Georgofili di Firenze, su “Il fabbricato rurale: bene architettonico e paesaggistico”.
  Nell’occasione disse che “la pianura vive e porta dentro di sé tanta vita. Nonostante tanti scempi e tanto disamore… La pianura è di per sé la terra più semplice che c’è e per poterci entrare bisogna usare la stessa logica e stare semplici. Bisogna stare raso terra quindi. Voi non vedrete mai cascine più alte di un piano. Piuttosto le vedrete estendersi in orizzontale, ma mai un tetto supererà l’altezza di un albero. E’ semplice. Serve per sostenere il sole d’estate con l’ombra, serve per difendersi dalla pioggia e dal vento… Lo scorrere dell’acqua di fianco alla terra è il secondo aspetto tipico della pianura. Nessun altro luogo rende così evidente l’armonia.
  Difficile però pensare alla pianura senza evitare gli alberi e la loro funzione. Un po’ per bellezza, un po’ per dividere terreni, un po’ per fare legna o per ricavarne carta, un po’ per pura gratuità e senza una vera ragione, gli alberi hanno segnato la mia pianura e le mie lastre.
  Guardare gli alberi significa guardare in alto spesso. La luce che vi abita è assai complessa. Non basta intrupparsi nel verde nel weekend. Spessissimo basta una passeggiata in un campo dalle 18 alle 20 durante la bella stagione nella solitudine di un feriale. Imparare a guardare è assolutamente propedeutico per conservare. Impressionare la retina e gustare gli odori è assolutamente necessario per poter eventualmente conservare. Io incido lastre quasi esclusivamente con questi soggetti… E’ un sintomo dell’appartenenza che ritrovo in me. Il segno indelebile di una vicinanza. Conservare questa appartenenza è il motivo nascosto dei miei lavori. In esso trovo tutto ciò che mi dà pace e che mi trasmette semplicità.
  Conservare mulini, cascine, chiuse, risaie, macchie di bosco e sentieri, tratturi ed anse di rogge, non è lavoro da poco e forse può essere giudicato una battaglia ecologica di “retroguardia”, ma i nostri padri hanno lasciato segni su questa terra perché l’hanno fortemente amata e curata”.
              Anche noi abitiamo lo spazio del tempo nella speranza: l’evento decisivo è già accaduto e siamo nati al mondo con un senso segreto, un senso che ci piove addosso senza preavviso mentre si va tra il bagno e il tinello o si scende in cantina in ciabatte o si cucina l’ennesimo piatto. Né mancano le occasioni esterne: quando l’immagine del mondo di sempre, da un marciapiede qualsiasi, rivela la consueta piazza dalla stessa prospettiva; ma si crede di vederla così per la prima volta. In una maniera talmente precisa che la dolcezza nativa del cuore vorrebbe adagiarsi. Il cielo azzurro di giugno aiuta, coi nembi bianchissimi di gelato fine al limone, leggeri spumosi da fare invidia alla migliore schiuma da barba.
              Una città qualunque costituisce lo scenario appropriato, col traffico noioso delle auto roventi in coda sotto il sole mentre le chiome alte dei viali alberati (tigli, platani, ippocastani) hanno rami dai gomiti nodosi che reggono un numero incalcolato di foglie, le strusciano nel vento che passa a rinfrescare le camicie, i tendoni dei terrazzi.
  Verso sera si rientra a casa facendo finta di non vedere l’orlo celeste dell’orizzonte, i monti che occhieggiano fra viadotti, tralicci e capannoni; per aprire il cancello del box esiste da tempo il comando elettrico a distanza. Meglio non distrarsi dalla guida, anche se i più emotivi vorrebbero nominare il paesaggio usando la voce interna, senza le labbra: a nord le Grigne e a nord-est il Resegone, a nord-ovest Morigallo e Cornizzolo.
          Intanto le greggi di nubi rimpatriano nel cielo della sera, bianchi bastimenti che procedono a vele spiegate nell’aria: abbaglianti cumuli che in controluce scendono come pecore al piano. Alte, altissime: mille o duemila metri sopra la signora che ha fatto la spesa del giorno al supermarket e avanza coi due borsoni pieni nelle mani, e li ripone nel baule troppo caldo della vettura. E’ anche per questo che, al principio dell’estate, uomini e donne accettano volentieri l’ingorgo allo svincolo o il contrattempo in ufficio o il caos dei veicoli che dalla chiusura delle scuole cresce invece che diminuire. Si sentono custoditi da uno sfondo trasparente che scolora in candidi batuffoli nuvolosi? Riconoscono le note della grande ouverture delle cuspidi del cielo, le stesse che da bambini evitavano la paura del rientrare a casa dopo le sette, liberi da ogni compito, sudati e sporchi dei mille giochi del cortile? Nei boschetti afosi tra un parcheggio e l’altro, stazionano ragazzi e ragazze di oggi, tirano tardi a cavalcioni di un motorino: nessuno li sgrida se non aiutano per la cena.
             Quando gli stormi di vapore acqueo sospesi nei cieli raggiungono la Bassa, dove non c’è scampo alla vampa della terra riarsa e degli asfalti, è oramai tardi sui rilievi pedemontani, sono scese le ombre nelle vallette con torrentello, nel lecchese; adesso rientrano i dirigenti, coll’aria condizionata, o i furgoncini delle imprese edili che faranno meno tragitto domattina alle sei. Il sole si corica dietro le Alpi occidentali, vicinissimo a Torino, dalle tangenziali lo si vede benissimo. Sono sempre meno le anziane signore che a quest’ora stanno sul balcone ad aspettare non si sa chi, dato che sono vedove; è quasi estinto per le strade l’odore di minestra, lo rimpiazza quello più sgradevole della palestra. Nessun pensionato conclude il giretto con le mani conserte dietro la schiena, per mantenere la conoscenza (e la decenza) del circondario, degli angoli dove spira un po’ di fresco.
              Le auto di mamme e papà che rincasano per il già citato cancello, scendono la rampa, e incrociano qualche bici di ragazzino in vacanza da scuola, hanno il radiatore surriscaldato: attraverso il parabrezza fumé, a volte sembra di non vedere nessuno nell’abitacolo, eccetto la tempesta magnetica di onde radio e preoccupazioni. Però talvolta ne scende un signore dalla cravatta allentata e la camicia sfatta, prende la valigetta dal sedile e si dirige senza alzare gli occhi, all’ascensore.
         Ora di cena. Poi la notte scenderà che non tutti hanno già sparecchiato: c’è chi si connette, chi naviga in rete, chi scambia il cuscino con il telefonino. Le nuvole nella notte di giugno si condensano, ritornano liquide, arrivano a destinazione: da mille millenni migrano ogni giorno così, si formano all’alba col fresco che sale dai boschi verdi della Valtellina; alle undici del mattino sono già grosse come torri a valicare il Monte Barro o a venir giù per le forre dell’Adda (e qualcuna s’incaglia là). Del pomeriggio, nessuno sa, perché tutti si lavora con quel ritmo affaticato che sostituisce la pennichella. E’ il notturno però il regno segreto delle nubi: nel seno della pianura Padana si sciolgono in note armoniosissime, come in alcune sinfonie di Mozart, e compiuto il percorso decidono di pernottare là, all’addiaccio, dove voce e paesaggio dormono insieme.