Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’albero capovolto (estratto)

L’albero capovolto (estratto)

di Andrea Sciffo - 16/11/2005

Fonte: Andrea Sciffo

La letteratura occidentale è moribonda e versa in un’agonia che molti si ostinano a non prendere sul serio, e chi le presta attenzioni e cure lo fa in modo non certo disinteressato. Più che vivere, sopravvive; da lungo tempo la Musa delle belle lettere ha smesso di germogliare, di gettare fiori e foglie e dare frutto. Certo, la disgrazia non è avvenuta all’improvviso né per cause ignote: il disastro è sotto gli occhi di tutti. Tuttavia lo scopo di questo libro consiste in ben altro che in un accertamento perché non è un testo di medicina legale né di critica filologica. La cosa importante, al momento, sembra piuttosto la mappatura del territorio della cultura scritta, il tracciato dei sentieri che non finiscano in un baratro, il suggerimento delle vie ancora praticabili per sottrarsi alle situazioni difficili e raggiungere i luoghi del ristoro.
 Atroce è lo spettacolo che la letteratura offre di sé: somiglia a un albero capovolto, un poderoso albero secolare, secco, rovesciato da una tempesta afosa e lasciato nella desolazione di un mattino senza nubi, con le radici fuori del terreno, sconvolte, braccia protese nell’aria avvelenata. Non serve granché considerare con ammirazione la grandezza del fusto, la vetustà della cupola frondosa: sarebbe come valutare lo stato di salute di una cultura dal numero di libri che stampati e dal proliferare delle cattedre universitarie; fenomeni che avvengono il primo pur di fronte a un calo drastico dei lettori che leggono, il secondo nonostante la forte contrazione del numero degli studenti che studiano. Ogni anno a primavera, difatti, non appena i germogli sbocciano timidi e verdi sui rami, gli agenti delle case editrici promuovono presso gli insegnanti della scuola secondaria le pesantissime antologie di letteratura (per stamparle si fa scempio di boschi) le quali, una volta adottate, verranno studiate poco e male e malvolentieri zavorrano lo studente che volentieri le rivende a fine anno scolastico: la depressione domina sia coloro che debbono piazzare il prodotto, sia quanti dovranno imporne lo studio oltre che il costoso acquisto. Perché nessuno spezza l’incantesimo dicendo la verità, che è l’unico farmaco? Tale è la pretesa di questo libro che, discutendo di letteratura novecentesca, finirà per costeggiare i problemi centrali del secolo, i drammi irrisolti.


1. Sradicamenti

  Lo sradicamento è la peggior sventura che possa capitare a un uomo o si abbatta su di un popolo. Tutti gli altri mali, anche le malattie più mostruose, sono minori in confronto a ciò che succede quando l’animo di un individuo o il corpo di una società perdono contatto con le radici: psicologia, sociologia, economia e politica brancolano da oltre un secolo nell’ignoranza dei veri termini della devastazione; anche la teologia, da buona seconda, si è aggiunta, incominciando a non comprendere più niente quando ha adottato i linguaggi delle scienze sopra citate.
  Causa prima dello sradicamento occidentale è il traffico automobilistico. L’immissione sul mercato di un numero spropositato di autoveicoli ha implicato un’invasione di motori e carrozzerie sproporzionata rispetto allo spazio disponibile al parcheggio nelle città (costruite a misura di comunità antropiche), ed esagerata rispetto ai kilometri di strada necessari alla circolazione, a meno che non si voglia adottare la soluzione più semplice, il sogno inconfessato di alcuni “assessori”, quella cioè di asfaltare tutta intera una regione per rendere fluido il traffico su gomma. Questa l’origine materiale dell’inaridirsi della vita umana d’oggi: ma l’uso e l’abuso dell’automobile è davvero un virus autoimmune che, riproducendo se stesso sotto forme cangianti, impedisce di volta in volta qualunque tentativo di cura? Nel Novecento, che per qualcuno sarebbe il secolo più importante della storia e invece è semplicemente il momento cronologico nel quale siamo venuti al mondo, l’avvento della motorizzazione è stata la fonte primaria di ogni disagio; tralasciamo pure l’elenco penoso di tutte le conseguenze dell’acquisto di un auto, dai sacrifici inutili e il dissesto dei delicati equilibri familiari (gli straordinari, il doppiolavoro, le speculazioni e gli indebitamenti), alle ferite inferte ai centri abitati e agli ambienti, l’uso criminoide dei veicoli (quali mezzi userebbero i malviventi e gli sfruttatori se le macchine non fossero mai state commercializzate?). L’impossibilità di sottrarsi del tutto al ricatto impedisce di dire la parola definitiva: che cioè, a lungo andare, l’uso dell’automezzo genera isolamento, abbrutimento, solipsismo.
  La letteratura è rimasta quasi muta davanti allo spettacolo degradante degli uomini progressivamente incapsulati dentro un abitacolo: nel romanzo triste Marcovaldo (1963), ambientato in una Torino oramai serva volontaria della FIAT, qualcosa ha provato a esprimere Italo Calvino; e qualcosa è filtrato nei generi letterari che asfissiano la letteratura, cioè il “giallo”, il “poliziesco” e il noir i cui protagonisti, a ben vedere, non esisterebbero a prescindere dalle automobili. Però il problema resta, gravissimo. Ci si sbaglia, credendo che lo strapotere della televisione sia il peggior morbo: il predominio della Tv e dei media sulle tendenze di una società è nullo, se si ostacola o si debella la mania degli spostamenti in automobile, come dimostra tangibilmente la storia recente di una società come quella cinese. È peraltro errato affermare che in questa battaglia i libri non contino nulla, che la carta non canta, che la realtà e tutt’altra cosa, perché il testo risolutivo per la piaga della motorizzazione ci sarebbe, c’è: purtroppo risale a trent’anni fa e nessuno l’ha ristampato; ma chi possiede una copia de Il rombo del motore (Vallecchi, 1974) sa di avere in casa un ordigno inesploso, ed è certo che prima o poi gli interventi di un Rosario Assunto, di un Quirino Principe o di un Rodolfo Quadrelli non mancheranno di trovare un giusto detonatore. Da quelle lontane parole sarebbe potuta incominciare una vera “difesa” della città basata sul “riscatto degli abitati urbani”, che partisse da un contrattacco a tutti i condoni, a qualunque piano regolatore e alle sue varianti, a tutti i progetti viziati e adulterati. Da quelle pagine spira ancora la “sanità da luoghi sani” di cui parlava Platone, per cui verrà il giorno in cui la riscossa sarà chiamata a gran voce e di nuovo parleremo una lingua onesta, perché nuovamente abiteremo il mondo radicandoci, radicati. Avremo rifiutato la soluzione che, unica, oggi viene offerta da destra o da sinistra: la pianificazione del caos.
  Finché però il male non verrà diagnosticato, esso prolifera senza contrasto devastando l’organismo dall’interno, né sono possibili una prognosi e una cura; tale è la condizione della letteratura del Novecento, anche tenuto conto dei Kafka, Eliot, Montale, Svevo, Joyce, le cui grandi opere appaiono finalmente per ciò che sono sempre state: ricette scritte dai malati. La terapia d’urto, invece, porrebbe la via d’uscita in maniera ben diversa dalle “rotture inaugurali” delle Avanguardie e dei Futurismi, che sono inservibili poiché, come diceva Simone Weil, chi è sradicato sradica. Ora, dopo i decenni spesi a discettare di crisi d’identità e spersonalizzazione dell’individuo, di inetti e di superuomini, lo scenario installato sul mondo negli ultimi venticinque anni non lascia dubbi: non è l’uomo a essere disadattato alla realtà, è la “civiltà degli spostamenti” a rivelarsi inadatta a lasciar spazio allo sviluppo degli uomini. O lei o noi. La città attuale, ovvero megalopoli, impedisce una qualsivoglia crescita umana ai suoi abitanti, e tende a ridurli a pedine per una funzione, utenti di strumenti o strumenti di un’utenza: ancora una volta, La città di Anfione e la città di Prometeo (Jaca Book, 1983) di Rosario Assunto è il libro che svelerebbe l’arcano, ma risulta da tempo irreperibile poiché fuori catalogo. Perciò, date le premesse, presto (e qualcuno azzarda una data: il 2012) saremo posti di fronte al drastico aut-aut del punto di non ritorno.

Lo sradicamento in letteratura
  Ignari e colpevolmente sprovveduti, gli scrittori contemporanei vivono come se tutto fosse un problema ideologico, dunque colpa di “qualcuno” o peggio del “potere”: sono degli sciocchi pagati o malpagati per continuare a esserlo. Appagati dalle royalties che quello stesso sistema contestato versa loro come diritti d’autore, seguono una facile opzione politica per la quale i colpevoli ci sono, e sono sempre dall’altra parte: letteralmente, non vedono, e i loro libri ne sono la prova. Magari hanno letto Nietzsche da destra o da sinistra, tralasciando però l’idea centrale del filosofo tedesco, secondo la quale il nichilismo è Heimatlösigkheit cioè la perdita dell’intima radice, paterno-materna, con il luogo della propria origine. Gli scrittori contemporanei si rallegrano di non essere “provinciali”, ignorando che è invece questa la loro sciagura.
  Lo sradicamento è il fatto più grave che sia avvenuto nel corso del Novecento: vera e propria tragedia del secolo, guarda caso è il fenomeno meno studiato dalle scienze umane (attardate dietro l’alienazione marxiana della classe operaia, mentre la società tutta puntava a grandi passi verso l’imborghesimento consumista); in letteratura, peraltro, il tema non è stato nemmeno percepito: dopo il trattato di Simone Weil intitolato L’enracinement (1943), che era un “preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano” incompiuto e gnosticheggiante, un colpevole silenzio ha blindato le pagine di poeti e romanzieri ignari della questione decisiva del proprio tempo. Per questo si sono gettate al vento tante occasioni parlando di retorica: fascismo, antifascismo, resistenza, impegno neorealista, classi subalterne, neocapitalismo, strategie della tensione, segreti di Stato, industria culturale. Come nella famosa collana di testi voluta negli anni cinquanta da Elio Vittorini per Einaudi, i libri sono Gettoni utili a far funzionare un congegno. Ma la domanda sarebbe un’altra, e cioè: lo sradicamento è un fenomeno inevitabile oppure si può opporre una medicina che guarisca e ricostruisca? Sulla carta, la risposta si articola, all’antica, in una pars destruens e in una pars construens : ma nella prassi di tutti i giorni le due cose viaggiano di pari passo, come una sistole-diastole, come inspirare-espirare.
 Vediamo innanzitutto cosa distruggere. In questa prospettiva, ebbene sì, lo sradicamento è una tragedia logica, un processo ineluttabile, un esito insito nelle premesse teoriche della cultura europea nata con l’età delle Rivoluzioni. C’era una “filosofia implicita” nelle cose e nelle parole dei moderni, che nel Novecento è stata quasi del tutto tradotta in atto: ed è la filosofia dura dei Machiavelli e dei Bacone, degli Hobbes e dei Locke e infine degli Illuministi secondo cui la poesia infine sarebbe stata sostituita dalla prosa (ma da una prosa che non sia più arte bensì scienza). Adesso davvero “sapere è potere” poiché si accetta di studiare soltanto a patto di ottenere qualcosa. Il primo impegno degli uomini che a vario titolo e in vari modi siano implicati con la letteratura sarebbe di mostrare in quale maniera le lettere, adottando per vera quella filosofia, si sia suicidata lentamente, per dissanguamento, grazie al progressivo distacco dalla realtà; cioè dalle domande che ogni uomo si pone. Il fatto clamoroso del secondo Novecento fu appunto la simulazione: il letterato finge di ignorare alcune richieste di verità (divenendo filologo) o ne pone alcune soltanto quando in possesso di risposte pronte (facendosi ideologo); la storia dell’industria culturale europea degli ultimi cinquant’anni si lascia rileggere attraverso questo schema, con tutte le debite distinzioni. Esempio eloquente fu Pasolini, il quale soltanto a tratti riuscì a divincolarsi dalle maglie della filologia, di cui era devoto suddito, o dell’ideologia, della quale fu evidente preda, e nei momenti di rara libertà fu vero poeta. La filologia del resto, ancor prima dell’ideologia, è una forma di insicurezza.
 Le eccezioni però, gli artisti minori o minimi che veleggiassero lontani da queste Scilla e Cariddi, sono state via via relegate accantonate obliate nell’ampio cono d’ombra dell’editoria: qui in Europa, è avvenuto un soffice sterminio per estenuazione, per lenta gocciolante estinzione. Per quarant’anni il criterio di selezione dei manoscritti da parte degli editori e dei consulenti ha avuto risvolti che sono raccapriccianti anche solo a sentirli raccontare. Infine, di recente si è preferito rifare il verso a altri media e dare voce a quanti non hanno niente da dire, ma lo dicono bene: così finisce la letteratura italiana ed europea oggi, non con uno scoppio ma con una lagna.

 

estratto da "L'albero capovolto" (Il Cerchio, Rimini, 2005)