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Il Corpo Alchemico

di Ezio Albrile - 06/02/2007

 

 

 

Pensiamo un parallelo tra pensiero magico-religioso ed esperienza estetica, per­ché solo in questo modo potremo comprendere appieno il nesso tra concretezza e universo mentale, noetico, tra cultura e ritualità. È un’idea dell’antropologo francese Claude Lévi-Strauss sull’arte sia primitiva che moderna, formulata nel tentativo di cogliere i processi profondi della creazione artistica e del godimento estetico. Secondo  il  noto antro­pologo francese l’arte è a metà strada tra la conoscenza scientifica e il pensiero mitico o magico, ed associa l’artista allo scienziato e al bricoleur. Il bricoleur, è colui che crea strutture per mezzo di eventi, inoltre egli assimila il bricolage alla scienza cosiddetta primitiva, quale è depositata nelle credenze e pratiche magico-religiose delle diverse culture.

 Ma cos’è realmente il  bricolage ? Si tratta di una forma specifica di attività che mira alla produzione di oggetti, utilizzando tutti i mate­riali a disposizione, i quali constano di frammenti, residui di costruzioni e di distruzioni antecedenti, o ancora di residui e frammenti di eventi, testimoni fossili della storia di un individuo o di una società.

Senza entrar troppo nel dettaglio della trattazione di Lévi-Strauss, si può affermare che in sostanza il pensiero mitico o magico-religioso si distingue da quello scientifico in quanto non impiega concetti, bensì utilizza segni. Cioè quei residui e frammenti ripresi dalla vita quotidiana, carichi di determinate esperienze cultu­rali, i quali sono impiegati per creare strutture, ossia insiemi di rela­zioni ordinate e coerenti tra i loro componenti. In definitiva, analo­gamente all’arte, il pensiero magico-religioso crea strutture e lo fa a partire dai segni, i quali, come le immagini, sono concreti, ma al con­tempo sono separabili dal loro contesto e perciò hanno un potere refe­renziale come i concetti.

E questa capacità di mantenere unita la concretezza del segno, nel senso del legame di questo a de­terminati contesti, e la capacità di superare tali contesti stabilendo grazie al segno relazioni intelligibili, spiega perché Lévi-Strauss associ il pensiero mitico e magico-religioso all’arte. Un procedimento analogo a quello – secoli addietro – escogitato dagli alchimisti alessandrini per celare e manifestare, in un  gioioso paradosso, il segreto della  prima materia, nella quale è racchiusa la sostanza trasmutativa universale, la «sostanza liquida» anche chiamata «magnesio» o «magnete».  Un termine dai molteplici significati, che in senso traslato designa un peculiare stato di «attrazione» di forze divine. Dice un alchimista, citando il sublime maestro dell’arte ermetica Zosimo di Panopoli: «Abbandonati e quieta le passioni; facendo così attirerai a te l’essere divino e l’essere divino che si trova ovunque verrà a te. Quando conoscerai te stesso, allora conoscerai anche il solo Dio esistente; così facendo arriverai alla verità e alla natura, allontanandoti con disprezzo dalla materia».

E ancora, da un punto di vista linguistico, il prefisso mag- è relato ad un’altra cruciale parola greca, cioè mageia, intesa quale arte di manipolazione del divenire. Tradizionalmente ed etimologicamente la mageia è ascritta alla sapienza dei Magi zoroastriani, anche se non è ancora chiarito quando e in che modo la parola passi nel mondo greco; a loro volta i Magi zoroastriani  trarrebbero la gnosi, la conoscenza ultima, e il proprio nome da una condizione peculiare di esistenza, una sorta di transe attiva chiamata maga durante la quale si avrebbe una separazione dei due principî di realtà, la Luce e la Tenebra, posti uno di fronte all’altro. L’idea iranica del maga implica una conoscenza, una «gnosi» di quello stato dell’essere in cui si ha la separazione tra i due ahu, i due livelli di esistenza dell’uomo, il mentale e invisibile mênôg e il corporeo e visibile gêtîg: colui che partecipa al maga acquisisce infatti un potere magico tramite il quale ottiene una «illuminazione», cioè una percezione fuori dall’ordinario, una visione e una conoscenza non mediate e non trasmesse dagli organi corporei e di senso. Chi prende parte al maga diventa partecipe di una visione interiore: egli vede con gli «occhi della mente» o della «sapienza», gli stessi strumenti metafisici che permetteranno al Redentore iranico, il Saoshyant, di trasfigurare e rendere immortale il mondo visibile.

Un gioco tra parole e immagini – quello della dottrina alchemica – che ricorda molto da vicino i giochi di parole di Marcel Duchamp e dei Surrealisti francesi.

Non a  caso, e lo ricordano due alchimisti contemporanei quali Fulcanelli e Canseliet, esiste un carattere originariamente rituale della poesia e dei fatti estetici in generale. Carattere rituale e magico, derivato da formule efficaci, affidate a una classe sacerdotale, a uno sciamano, a un vaticinan­te, a un pazzo, o ad un vecchio della tribù a ciò predestinato. In questa ritualità originaria, la parola ha un suo posto accanto alla musica, ai gesti, agli abiti, ai luoghi, ai tempi particolari e così via. Anche nella fase religiosa – non più magica – la parola e la musi­ca rimangono riconoscibili come sacre, collegate a una specifica cerimonia rituale. In una messa, l’elemento magico è ancora fortissimo: la transustanziazione non è un fatto religioso; è un fatto magico, una cerimonia i cui caratteri si possono ritrovare, ad esempio, nei riti di una tribù africana. Ora, man mano che il processo di secolarizzazione avanza, queste radici rituali vengono in qualche modo parodizzate, non necessariamente nel senso dello sbeffeg­giamento, ma in generale, semplicemente, a fini laici. Se si assiste a un dramma di Pirandello, ci si trova  ancora di fronte a un rituale: la sala, il palcoscenico, la gente seduta. Questo rituale potrà veni­re violato, dall’assenza del sipario o dalla discesa dei personaggi in platea, e via dicendo. Ma tutte queste violazioni hanno senso poiché  esiste una norma a cui devono rispondere, una consuetudine che tendono a non rispettare.

Quanto più magi­ca è la forza della norma, quanto più arcaica è la sua posizione, tanto più efficace ne è la violazione. L’antitesi è messa in azione dalla negatività: la musica, il suono si trovano così messi alla prova dall’impossibile e liberano in sé il  senso della poesia, volgendosi  nel loro contrario, il senso dell’odio verso  la poesia. L’atto della contestazione rifiuta la «bella» poesia e si volge contro il linguaggio, esaltando il  mondo dei corpi per ritrovare il senso della poesia autentica. È  il caso di un cortometraggio di Luca Pastore, concepito quale corollario visivo ad un brano musicale dei torinesi Subsonica, Corpo a Corpo, nel quale si riproducono inconsapevolmente arcaici modelli alchemici. La complicità  tra  suono  e  immagine continua in  un altro recentissimo video-clip (questa volta la regia è de «Il  Posto delle Fragole»): si tratta di  Nessuno interpretata  da  Robertina & Gatto Ciliegia. In  un  mare latteo,  spermatico,  affiorano  corpi  femminili che  si  fondono e si confondono in una  sorta di alchemica leukôsis. L’iniziazione alchemica si fonda su un dualismo, una dicotomia fra Nero e Bianco, Tenebre e Luce, Morte e Vita: il primo momento dell’Opera  alchemica è la nigredo o melanôsis, in cui la privazione di colore rimanda allo stato oscuro e indifferenziato della prima materia, che subirà numerosi trattamenti purificatori. La tappa iniziale di questo processo è la dissoluzione o «uccisione» di tale amalgama confuso. La seconda fase del magistero è l’albedo o leukôsis, che nell’unione di tutti i colori riflette l’uscita dal buio primordiale e indistinto: come in tutti gli itinerari spirituali a carattere iniziatico, anche nell’alchimia il punto cruciale è rappresentato da una soglia, da un limite che segna il passaggio netto fra un prima e un dopo ontologicamente diversi. Questo limite non sta certo tra albedo e rubedo, tra bianco e rosso, ma piuttosto tra le prime due fasi dell’Opera, la nigredo e l’albedo, cioè là dove si verifica la trasformazione radicale della materia. Il vero mutamento è rappresentato dal biancore dell’alba, dal ritorno della Luce, dal cadere della rugiada, dal volo della colomba, che annunciano la risurrezione dopo la fase nera della morte, della putrefazione e della calcinazione. Ciò che segue, la rubedo o iôsis, è soltanto un ulteriore perfezionamento, ma non più qualcosa di radicalmente nuovo e diverso, come era avvenuto per l’albedo. Alchimisticamente, dunque, la creazione non sarebbe altro che un passaggio dalla materia caotica alla Luce, cioè dall’oscurità plumbea allo splendore dell’Oro. Tale il fondamento della  evocata leukôsis.

Da un punto di vista iconologico il video di Nessuno sembra il compimento del capolavoro di Luca Pastore: è un’altra fase di quella mutazione alchemica che coinvolge i corpi, li disgrega e li trasfigura (come in Zosimo alchimista). Nel suo insieme ancora il disco di Robertina & Gatto Ciliegia (Cuore, Casasonica  2006) è «alchemico» in quanto frutto di una forza chaotica e assemblante che in un divenire cinetico accosta materiali sonori di dissonante provenienza.

Appare  inoltre  la  dualità  orfica  tra sôma e sêma. L’uomo nell’orfismo è scisso tra l’anima ed un corpo = sôma derivante dai Titani, che è anche sêma = tomba in cui è incarcerata l’essenza dionisiaca; Dioniso è un dio «selvaggio», la sua vicenda mitica è rivissuta ritualmente nello sparagmos e nell’omofagia, lo smembramento della vittima che viene subito divorata cruda. La  posterità di  questa  estetica  somatica  riemerge – per citare altri materiali contemporanei – in  Carne,  l’opera  visuale e sonora  degli ancora torinesi  Officine  Aurora. Officine Aurora come  officina magica, manipolazioni fatali che  trasmigrano nelle lande di un  guru  beat –  ma anche italico –, e forse di Ganesha. È assioma della gnosi manichea, che le particelle di Luce racchiuse nel seme si «trasfondono» attraverso il coito, di corpo in corpo, perpetuando l’intrappolamento nell’universo materiale. L’Inviato della Luce, per ultimare il riassorbimento della sostanza luminosa al regno originario, escogita uno stratagemma: si manifesta nudo nel firmamento assumendo le fattezze di una virgo lucis, una bellissima fanciulla nuda che risveglia la brama dei demoni; gli Archonti dellla Tenebra, sopraffatti dal desiderio, eiaculando liberano nel loro sperma anche la Luce imprigionata nei loro mostruosi corpi. Una  strategia  «carnale»  per  ritornare  in  un  mondo immacolato.

Secondo Enesidemo di Cnosso, filosofo scettico del I sec. a.C., il  tempo è corpo,  è  identico all’esistente: ne consegue che dissolto il corpo è dissolto il tempo. Non solo,  l’«istante» (in greco to nun)  soglia dischiusa sull’eternità (cioè su Aiôn), può essere corporificato. Ciò equivale  a dire che  il flusso del tempo può  essere  coagulato, «fissato»,  in un eterno presente, in un «paradiso», secondo l’etimologia originaria iranica della parola, che deriva da pairi.daêza = «luogo circoscritto, delimitato», una bolla di eternità  analoga  alle  sfere seminali  del  «Giardino delle  Delizie»,  il  Regno escatologico di Hieronymus  Bosch. Le sequenze di istanti, come i corpi,  possono essere modificate, rovesciate,  mutando  lo  scorrere  di  passato, presente e futuro: è la  chiave della celebrazione alessandrina di Aiôn, il  Saeculum che  da  vecchio canuto e  rincoglionito ritorna palingeneticamente fanciullo. I Magi  iranico-cristiani, celebrano nella loro triadicità questo mistero di rinascita: loro, che nelle versioni  aramaiche  del mito  evangelico sono  in numero  di dodici: dodici personaggi  zodiacali  in  cerca di un  polo metafisico.

Ma questo paradiso è un espediente esiziale che non sopprime la morte, la dilata e la differisce. Appare come la metempsicosi fallita di Octave in Avatar, la  novella di Théophile Gautier; fissazione di una atonia profonda, smarrita in una vana fuga dal divenire. Sono ancora le  trasformazioni alchemiche, plasticamente effigiate nel «Vortex»  di  un cult-movie quale è Zardoz, che tendono a produrre nell’istante un’implosione, un’illusorietà che è il preludio alla  frantumazione del  tempo,  contratto in un eterno presente, «avvelenato» di  nuda immortalità. È  la regione in cui il tempo si autotrascende nella sua dimensione infinita ed eterna, è un luogo di beatitudine transitoria simile all’isola della ninfa Kalypso, la «dea luminosa» che nell’Odissea omerica tiene prigioniero Ulisse in una condizione di effimera immortalità. È  il luogo esistentivo in cui il piacere alberga in una dimensione inerte e cristallizzata; qualcosa di analogo al Château Merveil, il «Castello delle Meraviglie» in cui si imbatte Sir Gawain nei romanzi del Graal. Il maniero che si innalza maestoso su di un’isola al centro di un lago. Su di esso regnano tre regine di età differente, rispettivamente la nonna, la madre e la sorella di Sir Gawain: versioni femminili dei Magi aionici. Tale luogo rappresenta la dimora perenne della vita inesauribile, l’abisso di morte dal quale la vita sgorga in eterna rinascita. Qui il cavaliere, il puer aeternus, trova l’anelato riposo paradisiaco: qui l’oracolo della femminilità materna, la saggezza muta ed intuitiva della forza vitale gli renderà intellegibile il mistero ciclico della morte e della rinascita attraverso le generazioni transitorie.