Blu come un’arancia. Gaia tra mito e scienza (recensione)
di Franco Bosio - 06/02/2007
Bondì, Roberto, Blu come un’arancia. Gaia tra mito e scienza.
Torino, Utet, 2006, pp. 261, € 20,00, ISBN 8802072590.
Accanto alla scienza ufficiale, saldamente ancorata al dogma neodarwinistico dell’evoluzione secondo uno svolgimento pressoché meccanicistico, si fanno sempre più numerose e insistenti altre voci, che recuperano in modo sorprendente e del tutto inaspettato paradigmi olistici ispirati a una visione organicista della natura. Ludwig von Bertalanffy, nella sua Teoria generale dei sistemi (1966), F. Capra nei suoi lavori molto diffusi e non privi di suggestioni meritevoli di attenzione e ripensamento come La rete della vita (1996) e La scienza della vita (1997), Humberto Maturana e Francisco Varela, con i loro ormai celebri lavori L’albero della conoscenza (1987) e Autopoiesi e cognizione (1988), in cui emerge una chiara e decisa sconfessione del riduzionismo meccanicistico a favore di una visione della specificità del vivente che nel suo incessante fare e produrre se stesso, rinnovando la propria struttura. Sono i nomi di spicco di questa forte e robusta frangia “minoritaria” della scienza ufficiale. La vita, sostiene il grande fisico E. Schroedinger (Che cos’è la vita?, 1944) ha un potere meraviglioso, che le scienze della natura inanimata non intendono né spiegano: essa risale la china dell’“entropia”, del fatale raggiungimento finale di uno stato di equilibrio termico irreversibile. La vita è dunque negazione dell’entropia (“neghentropia”). Non dobbiamo inoltre dimenticare il decisivo contributo squisitamente speculativo della “biologia filosofica” di Hans Jonas.
In questo originale panorama scientifico si fa luce in un modo quanto mai affascinante la visione di James Lovelock sulla Terra e sulla Vita. Le vedute del chimico inglese hanno ottenuto un successo e un’attenzione straordinaria, anche da parte dei non pochi che le hanno contestate con accanimento. Lovelock fu incaricato dalla NASA negli anni ‘70, insieme a una nutrita équipe, di svolgere una ricerca sulle possibilità della vita su Marte. Poiché la ricerca era approdata a una risposta assolutamente negativa, nonostante la notevole somiglianza delle condizioni dell’atmosfera sulla Terra e su Marte, Lovelock si convinse che l’unica spiegazione possibile dell’atmosfera altamente improbabile della Terra doveva consistere nel ricambio tra essa e la superficie terrestre, e di conseguenza i viventi della Terra esercitano un’influenza decisiva sull’atmosfera, con il loro metabolismo e con la loro respirazione. Nei suoi libri fondamentali Gaia. Nuove idee sull’ecologia (1981) e Le nuove età di Gaia (1991), pervenne alla sua originalissima tesi della Terra come una vivente, come un superorganismo che tutti i viventi alberga e nutre nel suo seno, e le diede il nome di “Gaia”, come gli antichi Greci. Solo perché vivente la Terra può regolare il suo clima e mantenerlo a un livello ottimale per la conservazione della vita. Il carattere fondamentale della vita è la “diminuzione di entropia” e dunque è capacità di spostare sempre più in avanti il raggiungimento del massimo disordine dovuto al raggiungimento del punto “zero” dell’equilibrio termico. Per Lovelock ciò che spiega la vita sulla Terra non è affatto riducibile a combinazioni casuali fisico-meccaniche e chimiche. È necessario presupporre la presenza di una “vitalità” in tutto quanto l’organismo di Gaia. Infatti, un’intera catena di viventi interagisce con l’atmosfera ed equilibra la quantità e la proporzione dei gas presenti nell’atmosfera (metano, ossigeno, azoto, anidride carbonica), svolgendo così una funzione indispensabile al mantenimento della vita. La biosfera interagisce con l’atmosfera e le sue vie trasportano la vita stessa. Gli Oceani, i mari trasportano anch’essi la vita. I microrganismi morti nelle età più remote di Gaia ne hanno costruito le rocce e lo scheletro. Le paludi e i bassi fondali dei mari equatoriali e tropicali albergano alghe e microrganismi dalla cui riproduzione e morte vengono sprigionati gas che mantengono le proporzioni degli aeriformi presenti nell’aria e così contribuiscono alla conservazione costante del clima. I raggi ultravioletti spezzano i nuclei dei gas più leggeri, soprattutto dell’idrogeno, ionizzando l’aria e producendo reazioni chimiche favorevoli al mantenimento delle miscele di gas. Biosfera terrestre, atmosfera, acque, suolo forma un sistema cibernetico le cui retroazioni conservano un ambiente sempre adatto alla vita. Da un punto di vista propriamente ecologico Lovelock trae conclusioni per noi allarmanti: la progressiva e sconsiderata deforestazione delle giungle tropicali ed equatoriali, la bonifica delle riserve paludose delle zone calde, la sciagurata sostituzione delle monoculture in queste aree, insieme all’incremento insopportabile di emissioni gassose che alterano l’equilibrio dell’atmosfera, avranno senz’altro, a un termine che poi oggi non è tanto lungo, conseguenze disastrose per l’abitabilità della terra e soprattutto per la sopravvivenza della specie umana, che è la più vulnerabile e delicata. Alterare l’interdipendenza degli ecosistemi può costare un prezzo altissimo per la vita.
Le concezioni scientifiche di Lovelock vengono ora riproposte alla nostra attenzione, in un’ampia discussione a tutto campo, da Roberto Buondì. La scienza di Lovelock riscopre la verità dimenticata di mitologie di origine immemoriale, diffuse su tutto il pianeta nelle età preistoriche e non solo, e rimaste ancora in auge nell’Occidente fino all’età del Rinascimento. È sufficiente ricordare la prima quartina di un celebre sonetto di Tommaso Campanella: “Il mondo è un animal grande e perfetto / Che lauda Dio e tutto a Lui somiglia. / Noi siam vermi imperfetti e vil famiglia / Ch’intra il suo ventre abbiam vita e ricetto”.
I risultati delle ricerche di Lovelock spalancano nuovi orizzonti all’ecologia. L’umanità della Terra, accecata dall’industrialismo e dalla fede rovinosa nel progresso tecnico, impoverisce, saccheggia e alla fine uccide irreversibilmente la vita sulla Terra, perché spegne proprio la regina madre di tutti i viventi, la nostra “Gaia” che ci sostiene e ci nutre, alla quale dobbiamo rivolgerci con la venerazione che deve essere tributata a un essere divino. La tecnica è violenza, è hybris mostruosa in cui la ragione dell’Occidente si rinchiude nella presunta autosufficienza della razionalità del pensiero calcolante che non conosce fini superiori a quelli di un semplice vivere che persegue la potenza e il dominio dell’uomo sulla natura e che lo seduce con il miraggio ingannevole di una vita felice, libera per sempre dagli affanni della penuria e dal terrore delle malattie e della morte. Ma l’incombente e tremenda minaccia del “terricidio” e della catastrofe ecologica ci avverte e ci ammonisce che il nostro destino è prossimo alla fine, perché la stessa estinzione del genere umano è vicina e molto di più di quanto ci immaginiamo
La rassegna di Buondì, sostenuta da solida preparazione scientifica e da un’ampia informazione sulle idee “ecologiste” attuali, si estende al pensiero dell’“ecofemminismo”, che intende resuscitare il primato delle potenze telluriche materne del femminile, non contaminato dalla povertà del selvaggio e sfrenato neoliberismo economico, insensibile a qualunque accento di tenerezza e di compassione, e pertanto espressione tipicamente maschile della volontà di dominio e di sfruttamento della natura. Secondo Buondì tutta questa costellazione di movimenti ambientalistici può richiamarsi a Lovelock e trovare sostegno nelle sue visioni. D’altra parte, Buondì riconosce anche come l’“ecologia profonda” lovelockiana sappia prendere le distanze da qualunque “ecologia superficiale” di movimenti politici e di opinione che idoleggiano angoli incontaminati, paradisi “verdi”, nicchie ancora intatte di una natura vergine in cui l’uomo possa rifugiarsi per rigenerarsi. Il libro, benché si tenga volutamente lontano da problematiche specificamente filosofiche, non può mancare di imporsi all’attenzione di un pensiero capace di accostarsi a questioni ultime di carattere squisitamente speculativo. Nel pensiero ecologista di Lovelock, l’autore ravvisa, non sempre a torto anche se con qualche esagerazione, il pericolo di ricadute irresponsabilmente irrazionalistiche, di reviviscenze di sapore “pagano” di idolatria della natura e della vita, in cui va perduto e sommerso pressoché del tutto il senso delle finalità del lavoro umano, della scienza e della tecnica come fonti e sorgenti di una ricerca di emancipazione che fa emergere lati intelligenti e spirituali dell’uomo irriducibili ad ogni assorbimento senza residui nelle potenze disindividuanti dell’“anima vitale”, indissolubilmente connesse a tutto ciò che è sotterraneo”, inconscio e “ctonio”. E un ritorno a siffatte mitologie, nella vana impresa di una loro restaurazione potrebbe sortire a detta di Buondì, esiti altrettanto rovinosi ed esiziali dell’attuale predominio unilaterale ed insensato tecnicismo fondato sul dogma della supremazia incondizionata dell’inanimato e dell’inerte. Malgrado alcuni indubbi elementi di verità, la posizione dell’autore non può tuttavia farci dimenticare che certe ideologie “regressive” sono pur sempre il segno vistoso di un immenso malessere del nostro tempo. Cercare un giusto e vero equilibrio non è in potere né dell’analisi storica delle idee, né della sociologia o di tutte le altre scienze umane nel loro complesso, ma soltanto della filosofia. Se non possiamo rinunciare alle conquiste della razionalità che ha generato scienze e tecnica, possiamo tuttavia interrogarci sui loro limiti e sul necessario rapporto che essa intrattiene con le dimensioni della vita che costituiscono la sua alterità complementare. E il mondo immenso della vita e della natura vivente comprende proprio la totalità di questa alterità.
La relazione tra la vita degli organismi e la vita di Gaia deve essere mantenuto sul piano di una relazione di analogia, non di un’identità senza residui. La Terra può ben essere una “vita”, ma non certo una realtà dotata di “anima” come un organismo differenziato e articolato. L’uomo dunque può, e deve anche emergere sulla “vitalità” e sulle pure forze del solamente “organico”, cui peraltro deve sapersi tenere vincolato e ancorato se non vuole distruggersi e compromettere in tutto e per tutto il suo stesso essere “spirituale”. A questo punto si può vedere con chiarezza che né la pura e semplice contrapposizione di paradigmi scientifici in conflitto né la semplice, ingenua e pericolosa fiducia in presunte capacità autocorrettive di una tecnica che si proponga soltanto di essere un po’ più responsabile sono all’altezza di un compito immane, che soltanto ora viene a profilarsi nella sua urgenza e immensità. Sarà dunque necessaria una nuova e diversa immagine dell’uomo, della vita e della natura, cui potrebbe anche valere da sollecitazione promotrice una rinascita di un sentire religioso non più subordinato alla tradizione e al passato. E tutto ciò anche con la collaborazione e con l’apporto delle scienze, e non contro di esse.
Indice
Prefazione di Enrico Bellone
Premessa
Chi è Gaia?
Fu vera scienza?
Meccanicismo, ecologia e «vecchio ordine magico»
Più malata che Gaia
Il principio di irresponsabilità
L'autore
Roberto Bondì è ricercatore all’Università della Calabria, dove insegna Storia del pensiero scientifico. È autore di saggi e monografie su Telesio (1997) e Henry More (2001), e ha curato edizioni del De rerum natura di Telesio (1999) e del De principiis di Bacone (2005).