La nostra testa piena e l'illuminazione istantanea
di Diana Winston - 07/02/2007
Ha importanza cosa mettiamo dentro la nostra testa? Da un punto di vista buddista, la risposta è sicuramente sì. Ogni istante vissuto dalla mente può essere sano o malato, e molti sono neutri. Se l'impegno dei buddisti è sviluppare una mente chiara e radiosa, internet non la sta oscurando con un numero infinito di informazioni inutili o neutre? | |
Il mio primo sogno sull’Internet, nell’agosto 1999: la scatola nera dentro la mia testa si trasforma senza preavviso nello schermo di un computer. All’inizio le immagini scorrono veloci, display vivaci di grafica computerizzata fatta di rossi, gialli e blu fosforescenti. Premo un pulsante e con un clic assumo il controllo del mio paesaggio interiore. Sono la webmaster, l’operatrice, la moderatrice. Programmo il mondo come preferisco, facendo balenare ora questo ora quello, aprendo una pagina dopo l’altra, mentre i link si aprono in silenzio e in modo spettacolare. Sono la padrona del mio tecno-destino. Mi risveglio sudando. Il Buddha non diede prescrizioni contro internet, perché 2500 anni fa internet non esisteva. Chi si attenesse alla lettera delle sue parole potrebbe dunque sostenere che internet va accettata. Ma se il Buddha fosse vivo oggi, non pensate che avrebbe detto qualcosa su questa tecnologia? Forse che internet non è l’opposto dei suoi insegnamenti sulla moderazione, il contenimento, la non-confusione e la non-avidità? E che dire del precetto buddista contro la confusione e l’annebbiamento della mente con agenti intossicanti? Internet non è forse un’agente intossicante che rinforza l’illusione dei desideri, della separatezza, del controllo e del sé? “Dopo aver purificato la grande illusione, la luce radiosa del sole non oscurato sorge continuamente.” Dudjom Rinpoche. Le nostre teste pieneHa importanza cosa mettiamo dentro la nostra testa? Da un punto di vista buddista, la risposta è sicuramente sì. Ogni istante vissuto dalla mente può essere sano o malato, e molti sono neutri. I grandi maestri buddisti sostengono che la mente è intrinsecamente pura, come un vasto cielo blu. Ma il cielo è spesso pieno di nuvole – pensieri, emozioni, preoccupazioni, opinioni, fatti e informazioni – che passano oscurando temporaneamente la nostra natura autentica, simile al cielo. Se l’impegno dei buddisti è sviluppare una mente chiara e radiosa, internet non la sta oscurando con un numero infinito di informazioni inutili o neutre? Adesso conosco bene la grande mole di informazioni, storie, poesie, battutacce, siti, commenti, pornografia, progetti in favore degli animali, truffe, opportunità d’incontro, musiche, chat room, scommesse, pubblicità, prodotti e annunci da aggiungere nella mia testa già piena. Ho bisogno di altra roba? Ricordo quando mandai a mente subito, senza sforzi, l’indirizzo e-mail di una persona che conoscevo… Oh sì, è misfit@hopeless.com. L’idea di avere più informazioni messe da parte nel cervello, pronte a un accesso appropriato, mi entusiasmava. Ma cosa accade a tutto il resto? Quando ci sbarazzeremo delle norme etiche, delle leggi del traffico, delle capacità oratorie, delle conoscenze sull’amore a favore di nuovi URL? Possiedo centinaia di libri che non ho mai nemmeno letto; ho amici interessanti di cui ancora ignoro le opinioni; e le librerie… Le ricordate? Perché ho bisogno di altro materiale? E il peggio è che avere grandi quantità di informazioni stipate le une sulle altre le appiattisce tutte. Non esiste un meccanismo di selezione. Come posso distinguere un importante saggio sulla liberazione sessuale da un sito pornografico? La gente (chiunque sia la gente) dice che non è importante cosa finisce nella nostra testa. Quando ero una convinta militante femminista, discutevamo della pornografia, chiedendoci se essa conducesse allo stupro. La pornografia è la teoria, lo stupro la prassi, si urlava con calore e senza ironia. Le femministe favorevoli alla pornografia dicevano: “No! Riappropriatevi dei mezzi di riproduzione!” (buona fortuna!). Il legame non è semplice. Osservare la violenza alla televisione non produce necessariamente azioni violente nel mondo reale, dicono. Dopo tutto, abbiamo dei filtri naturali; siamo esseri umani adattabili all’infinito, e per giunta intelligenti. Dimenticheremo tutto ciò che è brutto o senza importanza, per trattenere ciò che conta veramente, per esempio il numero sul telecomando di un certo canale alla TV. Ora non riesco a fare a meno di pensare con il linguaggio di internet: faccio riferimento a link, URL e siti. Una volta dissi a un’amica che la nostra conversazione era diventata un sito web. Stavamo andando in una direzione, ma una divagazione ci aveva portato verso un’altra direzione, e quest’ultima verso un’altra ancora. La nostra conversazione procedeva per link. «Puoi fare clic su “Back”?», mi chiese lei; «Mi sono perduta». Ma la mia esperienza – cioè, ore e ore di osservazione della mente – mi ha dimostrato senza ombra di dubbio che siamo influenzati da ciò che entra nella nostra mente. Ecco i risultati di un paio di anni di meditazione in ritiro isolato e silenzioso, durante i quali non dovevo parlare, leggere, scrivere, guardare la TV, aprire un giornale o collegarmi alla rete. In tutto quello spazio mentale residuo, ogni cosa che avevo ingerito riemerse alla superficie. Sì, stava ancora lì, anche se era difficile dire dove. Durante questo lungo ritiro, mi tornarono alla mente le più piccole e insignificanti esperienze, come quando, all’età di quattro anni, litigai con l’amica Karen perché voleva colorare tutto il quaderno di rosso e io desideravo variare un po’ i colori; quando, diciottenne, vomitai perché avevo bevuto troppo Jim Beam; la carta da parati della mia stanza da letto quando avevo nove anni, e il modo in cui la luce filtrava tra le foglie creando marionette di ombre sul muro; quando io e Jocelyn chiamammo la OB Tampons chiedendo se avevano a che fare con Obi Wan Kenobi; e la volta in cui baciai per la prima volta quel ragazzo che dovrà restare senza nome… Ma no, questa mente non ha dimenticato. Sta tutto là, specialmente le cose forti e violente. Da grande fan di Salman Rushdie, una volta comprai di corsa, in anticipo, il primo romanzo della sua ex moglie, Marianne Wiggins. Grandi menti devono pensare allo stesso modo, pensavo. La copertina colorata mi spinse a cominciare. Dopo pochi minuti, non riuscivo più a interrompere un’opera sul cannibalismo. Il libro raccontava la storia di un gruppo di ragazze e la loro insegnante che, naufraghe su un’isola deserta, ricorrevano al cannibalismo. Una scena in cui le ragazzine arrostivano allegramente gli avambracci del comandante e divoravano gli orrendi spiedi era una delle più terrificanti descrizioni letterarie che avessi mai letto. Rapidamente, la rimossi dalla mente. O così pensavo. Qualche anno dopo, durante tre mesi di ritiro intensivo di meditazione silenziosa (quattordici ore al giorno di meditazione seduta e camminata meditativa), immagini ispirate dal libro di Wiggins mi torturarono. Per una settimana, camminai per le sale del centro di meditazione come un fantasma, tormentata da visioni che non riuscivo a esorcizzare. Alla fine, scomparirono da sé. Seguii questa esperienza con una promessa solenne: d’ora in poi non avrei mai più visto un film dell’orrore. Quando medito, nella mente affiorano, a tutte le ore del giorno e senza tregua, pubblicità degli anni ’70, musiche televisive, musical di Broadway, The Brady Bunch e altre canzoni da film, pessimo rock’n’roll, discussioni precedenti, ottimo rock’n’roll, canzoni dei campi estivi… le formiche marciano una dopo l’altra, urrah, urrah… E mica se ne vanno. Peggio, quando cerco di stare seduta immobile per trovare la pace e la quiete (ah, ah!), tornano a perseguitarmi. Meditare è come andare alla discarica. Forse non ci piace ciò che vi vediamo; per questa ragione, i meditatori sono incoraggiati ad attenersi ad alcune norme etiche fondamentali. Se siamo moralmente a posto, non spenderemo ore sul cuscino in preda ai rimorsi, i rimpianti e i sensi di colpa: “Non avrei mai dovuto dormire con lui: era sposato, per amor di Dio. Non avrei mai dovuto rubare il rossetto da quel negozio, nel 1978; le formiche marciano tre a tre, urrah, urrah…”. Cosa vogliamo nella nostra mente? Più paccottiglia? Se è così, connettiamoci alla rete. Davvero desideriamo continuare a stipare queste numerosissime informazioni inutili, poco divertenti, spesso nemmeno vere? Sì, sì. Lo so, possiamo imparare cose importantissime. La stampa alternativa ha prosperato in internet. Ho accesso a nuovi studi, saggi, controinformazione sulla guerra in Afghanistan. Usavano internet nel Chiapas; si sono organizzati grazie a esso a Seattle. Non sto negando niente di tutto ciò. Se pensate che sto solo lamentandomi, non avete compreso di cosa sto parlando. La domanda è: tutto questo ci renderà persone migliori? Ci renderà più morali, gentili o compassionevoli? Ci aiuterà a comprendere la nostra natura autentica e radiosa? Renderà le nostre vite e menti più spaziose e rilassate? O appagherà ogni desiderio e volontà con il solo clic di un mouse? Quando compresi che con internet avrei potuto avere tutto ciò volevo, comprai dieci libri, un abbonamento a una rivista sulla vita semplice, un paio di stivali in cuoio nero e mandai a me stessa le citazioni quotidiane del Buddha. Il Buddha mi inviava e-mail sulla legge del karma; diceva che le azioni hanno dei risultati. Se pianto un nocciolo di prugna, avrò un albero di prugne; se coltivo l’avidità, sarò più avida; se coltivo la generosità, sarò più generosa. Fondamenti spiccioli di buddismo. “Affascinati dalla pura varietà delle apparenze, gli esseri vagano senza fine alla deriva nel circolo vizioso del samsara.” Jigme Lingpa, Il tesoro del Terma rivelato. Origine dipendente (o no)Gli insegnamenti buddisti spiegano in che modo la nostra mente lavora a livello microscopico: ci imbattiamo in un oggetto desiderabile, e nell’istante di contatto visivo, aurale o tattile con quell’oggetto, sorge nella nostra mente o nel nostro corpo una sensazione piacevole. Tale sensazione piacevole ha origini molto diverse: le abitudini passate, l’educazione, i media, gli standard socioeconomici, la moda, il karma (secondo i buddisti) e così via. Abbiamo associato questa sensazione piacevole all’oggetto, quindi pensiamo che per rinforzare tale sensazione abbiamo bisogno dell’oggetto. La sensazione in sé è meravigliosa. Ci aggrappiamo saldamente all’oggetto e poi, oserei dire, lo compriamo. Un altro modo di esprimere lo stesso concetto è dire che percepiamo una cosa come bella (la sensazione piacevole), la vogliamo (il desiderio), quindi la afferriamo saldamente e non la lasciamo più andare (attaccamento). I buddisti definiscono questa catena origine dipendente. Tale catena di eventi sta accadendo continuamente a una velocità così elevata che di rado ci accorgiamo del processo. Tutto ciò che sappiamo è che dobbiamo possedere quel nuovo lettore DVD. L’origine dipendente ci insegna che acquistiamo automaticamente le cose per porre termine al dolore e aumentare il piacere. Siamo davvero impotenti, nient’altro che dei robot. Ma è qui che entra in gioco la consapevolezza. Grazie al potere di quest’ultima, è possibile provocare un cortocircuito nel ciclo e impedire la risposta automatica. Se applichiamo la consapevolezza in un qualsiasi momento del ciclo di contatto con un oggetto – emozioni piacevoli, desiderio, attaccamento – non siamo più costretti a passare all’anello successivo della catena. Possiamo prendere nota: «Wow, voglio questi stivali». Possiamo avere la sensazione del desiderio nella nostra mente e nei nostri corpi, prendendo nota dei pensieri che la accompagnano. Poi mettiamo in atto la saggezza buddista secondo cui, per allontanare un desiderio, quest’ultimo non va soddisfatto. Possiamo riconoscere e lasciare andare il desiderio; siamo in grado di spezzare la catena. La lezione rivoluzionaria insegnataci dal Buddha è che, in realtà, il desiderio è dolore. Lasciare andare i desideri arresta il dolore. Ottenere ciò che vogliamo non fa che lenire momentaneamente il dolore. Tutto ciò che dobbiamo fare è prendere possesso di un singolo punto del ciclo. «Oh, guarda, è avvenuto un contatto piacevole! Oh, il desiderio!». Se riusciamo a introdurre la consapevolezza in questo punto, possiamo spezzare la catena. Dipende da noi; non siamo schiavi di un processo automatico. Il trucco ciberneticoCosa accade quando il tempo di riflessione è soppresso? Spezzare la catena richiede, tra l’altro, un certo tempo di riflessione. Cosa accade quando inseriamo in questa equazione la velocità di internet? Cosa vuol dire il fatto che ogni desiderio può essere soddisfatto, che l’ottenimento di un oggetto è dato per scontato nell’attimo stesso in cui lo si desidera? Stiamo smarrendo la distanza tra il desiderio e il suo soddisfacimento. Nell’età della pietra (prima del 1994, quando internet era solo un giocattolo per fanatici del computer e per i militari), se volevi qualcosa, c’era un processo. Potevi pensarci su, rifletterci e mettere a punto una strategia per ottenerla. Sì, esistevano i cataloghi di vendita per corrispondenza e penso che esistesse anche un canale televisivo riservato alle televendite, ma nel processo di acquisto esisteva un minimo di sforzo. Non che fosse un ostacolo, ma a quei tempi per acquistare qualcosa dovevi alzare il culo dalla sedia. Chiedevi a un amico di accompagnarti, guidavi (ahimè) fino al negozio, parcheggiavi, forse scoprivi che l’oggetto desiderato non c’era (o non avevano il tuo stile preferito), guardavi gli altri articoli, parlavi con il commerciante, ti fermavi per uno spuntino fuori orario e alla fine trovavi l’oggetto del tuo desiderio, forse per rifiutarlo: «Dopo tutto, potrebbe non essere esattamente ciò che volevo». Oggi fai ricerche accurate in rete, ti connetti a splendidi siti. Vuoi qualcosa… In realtà, una cosa qualsiasi. C’è. Fantastico. Digiti il numero della tua carta di credito (oppure il tuo computer – in modo davvero orwelliano – lo ha memorizzato), premi un pulsante ed è tua. Subito dopo la sensazione piacevole e il desiderio, passiamo all’azione. La consapevolezza non ha spazio per impedire l’acquisto inevitabile. Non abbiamo tempo per essere liberi. Cosa accade quando vengono rimossi lo spazio e il tempo? Quando ogni possibile desiderio può essere appagato grazie al clic di un mouse? Nel nuovo millennio, grazie a internet, il processo è così rapido che non abbiamo il tempo fisico di spezzare il ciclo. La profusione di oggetti che otteniamo alla velocità della luce è senza fine. Questa non è una bella notizia, contrariamente a ciò che afferma tutta la stampa. Bertrand Russel ha affermato che uno degli aspetti della società che ci mantiene integri e morali è la capacità di rinviare l’appagamento. Questa è un’affermazione saggia; immagino che sia ciò che ci mantiene sani. Desideriamo ardentemente la nuova macchina sportiva del nostro vicino; pensiamo che sarebbe facilissimo entrarvi, metterla in modo senza la chiave e impadronircene. Una sorta di meccanismo interno ci ricorda che non abbiamo bisogno di agire così perché (a) non dobbiamo rubare, e (b) non ci occorre davvero la sua macchina per essere felici. Infatti, possiamo lavorare per guadagnare i nostri soldi; oppure, in primo luogo, era stupida l’idea. Lasciamo stare. In tal modo, la società resta più sana e igienica. Rinviare l’appagamento è qualcosa che insegniamo molto presto ai bambini: «So che vuoi il biscotto, Sally, ma non puoi averlo se non dopo cena». Semplice. Mangia cibo sano, e dopo potrai avere ciò che vuoi. Cosa accade ora, nella cultura di internet in cui possiamo avere il dessert ogni volta che vogliamo, con un clic di mouse? L’appagamento ritardato che tiene in piedi la baracca si sta sfaldando. Internet e il suo lato commerciale stanno contribuendo alla crisi del tessuto sociale? Cosa succede quando si insegna a milioni di piccole menti che possono avere tutto ciò che vogliono ogni volta che lo desiderano? Che genere di semi stanno gettando (prugne che generano prugne)? Cosa succede quando matureranno? Dove sono quei dolci valori buddisti di non-avidità, compassione e generosità? E poi? La mia amica Jamie dice che, grazie a internet, è più generosa. È vero. Ogni volta che lo desidera, può collegarsi a un sito, acquistare un nuovo best-seller e spedirlo oltreoceano, tramite Amazon.com, al suo amico Glenn, a Praga. Amazon.com si occupa della dogana, delle tariffe e di tutte le scocciature. Quindi, Jamie ha più possibilità di essere generosa. Da un punto di vista buddista, questa è una buona cosa, poiché sviluppare la generosità è considerata una qualità spirituale importantissima e fondamentale. Vedete, mino continuamente il mio discorso. Ho detto che internet aumenta l’avidità, ed ecco un ottimo esempio che quasi dimostra il contrario. E poi, poi? Cosa implica, a un livello più vasto, fare acquisti presso una megasocietà responsabile del fallimento di librai indipendenti? Questo fatto annulla la generosità dell’azione di Jamie? Acquistare da Amazon.com non crea forse più sofferenza, ovvero perdita dei mezzi di sostentamento e omogeneizzazione e globalizzazione del mondo? Tutto ciò supera in importanza il karma positivo derivante dalla generosità? Puoi davvero fare un confronto tra la sofferenza? E se Jamie fosse inconsapevole degli effetti del suo acquisto? Queste sono tutte questioni etiche che i buddisti come me si pongono davanti alla rivoluzione tecnologica. Io non ho ancora nessuna risposta, ma ho molte domande. Qualche anni fa, nel “New York Times” apparve la notizia del rilascio di tre ragazzi amish che erano stati arrestati per atti di vandalismo in stato di ubriachezza, e quindi incarcerati nelle prigioni della contea. L’articolo diceva che gli sceriffi decisero che la prigione non era un buon posto per i ragazzi, perché passavano troppo tempo a guardare la TV e giocare al computer. Il fatto che nel ventunesimo secolo potesse esistere un occidentale non ancora completamente indottrinato dalla tecnologia sembrava incredibile. Tale ingenuità venne ovviamente riconosciuta dagli sceriffi che, in base a qualcosa che definirei soprattutto compassione, decisero di risparmiare a questi ragazzi la discesa nel mondo di tutti i giorni. Gli sceriffi ebbero il potere divino di impedire ai ragazzi di tramutarsi in peccatori e tossicodipendenti delle informazioni, cioè di diventare uguali a tutti noi. Con un grande atto di carità li rimandarono al loro villaggio amish dove i telefoni, l’elettricità e i computer non esistono e la vita è uguale a quella di 400 anni fa. Scommetto che i ragazzi erano furiosi. Cosa volevano loro? Questo è quello che mi chiedo, perché sono sicura che stavano facendo esperienza della loro epoca.
Diana Winston è scrittrice, attivista, insegnante e fondatrice della Buddhist Alliance for Social Engagement (BASE). I suoi scritti sono apparsi su “Tricycle”, “Turning Wheel”, “Inquiring Mind” e altre pubblicazioni. È condirettrice della Buddhist Peace Fellowship di Berkeley, California, e ha pubblicato il libro: Wide Awake: Buddhism for a New Generation, in uscita per il 2003. |