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La longevità

di Mario Spinetti - 07/02/2007

 

“La crescita perpetua è il credo della cellula cancerosa” (E. Abbey). Nella società contemporanea corre l’idea che l’uomo viva più a lungo e che le malattie siano sotto controllo. Nulla di più falso. Se, statistiche alla mano, constatiamo che oggi siamo più longevi rispetto al passato, dimentichiamo di considerare, nel contempo, alcuni parametri fondamentali. Una volta la vita reale che si svolgeva era “netta”, cioè si sviluppava per un certo numero di anni senza “aiuti” e “protezioni” esterne. Si viveva, in sostanza, secondo l’influenza dell’ambiente e secondo la propria costituzione fisica. Le malattie poi, sin quando l’uomo era legato alla selezione naturale, erano contrastate dalle proprie difese biologiche, mentre l’atto della riproduzione era assicurato solo dai soggetti più in salute, in grado di tramandare geni “salubri” e “selezionati”.

Con il trascorrere delle generazioni, la selezione naturale è andata via via scemando per far posto ad una barriera artificiale (progressi medici, scientifici e sociali), che ha completamente isolato l’uomo dalle insidie ambientali. Scomparsa la selezione, la riproduzione di massa oltre a causare un notevole incremento della popolazione globale, consente la trasmissione dei geni difettosi, causando, così, un progressivo indebolimento della specie. L’uomo, dunque, è sicuramente riuscito ad allungare la media dell’esistenza in vita, ma ad una precisa condizione: che viva sotto una campana di vetro artificiale, seguendo rigide regole igienico-sanitarie ed intervenendo prontamente ad ogni più piccolo ostacolo. L’analisi critica di un quadro del genere, ci fa comprendere che in realtà l’uomo è molto più debole di una volta, è soggetto alle insidie di un numero maggiore di malattie ed è in netta decadenza nella psiche e nella materia. Proviamo, per ipotesi, a far nascere un bambino, figlio del retaggio genico della civiltà moderna, in un ambiente selvaggio, e lasciamolo sviluppare nel tempo secondo i dettami selettivi dell’ambiente. Se, alla fine, contiamo gli anni che sopravvive, ci accorgeremo che avrà avuto una vita più breve di uno stesso umano vissuto in analoga situazione ma figlio di una popolazione genica “selvatica”. Dunque, l’uomo tecnologico contemporaneo, è in apparenza più longevo, ma è in realtà più gracile, addomesticato, debole e senza carattere. Con grossi artifici (terapeutici, chirurgici, igienici, ecc.), si tutela artificialmente e conta in genere un numero maggiore di anni, ma non ha più la robustezza e l’energia di una volta. L’ingentilimento e la sedentarietà della vita quotidiana che la “civiltà” impone lo indeboliscono drammaticamente. Le statistiche, poi, confermano che le malattie sono sempre più numerose e variate. La sovrappopolazione nonché i continui e rapidi interscambi, favoriscono ulteriormente la nascita e la propagazione delle alterazioni patologiche (oggi in poche ore con un aereo è possibile diffondere un’infezione da un capo all’altro del mondo). Scrive Dorst (1988): “Il costante aumento delle malattie mentali e nervose di ogni tipo -’malattie di civilizzazione’- costituisce la prova più documentata della profonda mancanza di armonia oggi in atto tra l’uomo e il suo ambiente. Le attività umane portate al parossismo, spinte fino all’assurdo, pare che rechino in se stesse i germi della distruzione della nostra specie.

Questo fenomeno ricorda la politelia osservata nel corso dell’evoluzione di certi tipi di animali; un carattere comparso in una linea è in seguito capace di svilupparsi, e di svilupparsi esageratamente, fino a divenire nocivo e contrario agli interessi della specie stessa e senza avere, da quel momento, il minimo valore come mutazione di adattamento. Molte linee si sono estinte così nel corso dei tempi geologici, in seguito allo sviluppo esagerato di una caratteristica divenuta mostruosa. Ci si può chiedere se non sta accadendo lo stesso all’uomo e alla civiltà tecnica da lui creata, che gli ha permesso, all’inizio, di raggiungere un alto livello di vita ma il cui eccesso rischia di divenirgli fatale”. Anche numerose razze e popolazioni umane si sono estinte nel corso dei millenni proprio a causa di un loro eccessivo sviluppo divenuto “mostruoso” (Dorst, 1988).

Occorre prontamente ricordare come l’uomo, nello stato di cacciatore-raccoglitore, era rappresentato da popolazioni basse numericamente, il che sfavoriva lo sviluppo di numerose patologie infettive; tra l’altro, gli interscambi tra le varie popolazioni, erano minimi e localizzati. Per la loro sussistenza giornaliera si spostavano periodicamente allontanandosi così dalle proprie deiezioni ed immondizie (Goldsmith, 1992). Il tempo trascorso nella caccia e nella raccolta era una minima parte del totale lasciando così spazio al riposo e alla “riflessione” (Goldsmith, 1992).

Con la rivoluzione agricola, l’uomo comincia a sterminare parte della biocenosi che ostacola il proprio cammino determinando l’estinzione di moltissime specie animali e vegetali. Con la rivoluzione tecnologica ed industriale poi, ultimo stadio dell’invadenza, il numero delle specie estinte o portate sull’orlo dell’estinzione si moltiplica enormemente.

Se, per raggiungere i 3 miliardi di persone la razza umana ha impiegato all’incirca 600.000 anni, per raddoppiare sono stati sufficienti meno di 40 anni! Il problema della sovrappopolazione umana è forse uno degli elementi più preoccupanti e devastanti che si presentano alla società contemporanea e al mondo naturale. Eliminata la selezione naturale e i freni che imponeva l’ambiente, l’uomo ha dato corso ad una proliferazione estremamente esagerata saccheggiando le risorse ambientali e proteggendosi, nel contempo, con la tecnologia, la medicina e altro. Ma la sovrappopolazione porta ad un continuo stress, facilita la diffusione delle malattie, determina gravi squilibri fisiologici, innesca tensioni sociali, e prelude, alla fine, alla decadenza della specie. Il problema non è da sottovalutare ed è da incoscienti propagandare politiche sociali in nome della proliferazione demografica. Occorre intervenire nell’immediato e drasticamente. Ma la miopia delle popolazioni, favorita anche dall’illusione religiosa e dalle politiche di profitto degli Stati, non consente di osservare, almeno in lontananza, i bagliori della speranza e forse non si pecca di eccessivo pessimismo se si immagina il futuro dei prossimi millenni come una sorta di deserto popolato, tra le forme più appariscenti, solo da qualche specie di insetto sopravvissuta al passaggio dell’uomo ormai autodistrutto.

Occorre, sia salvare la natura che l’uomo da se stesso (Dorst, 1988)! Nessuna politica di conservazione può prescindere dal problema della sovrappopolazione: “...la premessa assoluta è il blocco dell’espansione della popolazione umana” (Simonetta, 1976). Scrive Kaczynskj (1997): “E’ accertato che la sovrappopolazione aumenta lo stress e l’aggressività. Il grado di affollamento che esiste oggi e l’isolamento dell’uomo dalla natura sono conseguenze del progresso tecnologico. Tutte le società preindustriali erano in prevalenza rurali. La rivoluzione industriale ha aumentato a dismisura l’estensione delle città e la proporzione della popolazione che vi vive, e la tecnologia moderna industriale hanno reso possibile alla Terra di sostenere una popolazione sempre più densa... “ “ Per le società primitive il mondo naturale (che, in genere, muta lentamente) forniva una struttura stabile e quindi un senso di sicurezza. Nel mondo moderno è la società umana che domina la natura, piuttosto che il contrario, e la società moderna cambia molto rapidamente a causa dei mutamenti tecnologici. Così non vi è una struttura stabile”.

Ebbe a dire Edward O. Wilson: “La responsabilità della crisi della biodiversità ha una sola grande ragione: il successo demografico della specie umana”.