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77: sarà paradossale, ma il rifiuto del lavoro anticipò il popolo delle partite Iva

di Massimo Bordin - 08/02/2007

Fonte: Il Riformista




Agli anniversari non si sfugge, tanto meno ai trentennali. Dunque il «movimento del ’77» viene riportato alla luce. Il tempo trascorso e la distanza impongono però occhiali adatti, altrimenti si rischia di andare a memoria e di restare prigionieri di quello che si vide con gli occhi di allora. In fondo fu tutto molto rapido. Dall’occupazione dell’ università di Roma alla mattina del giovedì grasso in cui Lama e la Cgil ne furono cacciati, passarono solo due settimane, come ha notato Lucia Annunziata. Tanto poco ci mise il movimento a bruciare i ponti con l’ufficialità della rappresentanza sociale. Non fu così nove anni prima. Il primo maggio del ’68 il movimento studentesco parlò dal palco della triplice a piazza san Giovanni inaugurando un rapporto di conflitto coi vertici sindacali per conquistarne la base e a essa si rivolse il rappresentante degli studenti, mi pare fosse Piperno: «Voi ci avete insegnato la lotta, da voi abbiamo imparato l’uso della violenza». E i vostri capi oggi vi stanno tradendo, era il nemmeno troppo sottinteso. Iniziava una storia che finì la mattina del comizio di Lama all’ università, quando le bandiere del sindacato e del partito non furono strappate per sostituirle con altre più rosse; furono strappate e basta. Qui, e non nell’eccesso di violenza, sta la differenza con quello che era successo nove anni prima. Il ’68, almeno quello europeo, andò a piazzarsi dentro la tradizione del movimento operaio e comunista. Per estremizzarla, a ovest, per democratizzarla, a est. Rimase comunque in quell’alveo, con l’ingenua velleità di acquisire la leadership e in prospettiva il potere. Nel ’77 non andò così ma non è detto che l’immagine del parricidio spieghi tutto. Intanto perché chi aveva vent’anni nel ’77 nove anni prima giocava con le figurine e non con i movimenti di massa. E poi perché la “nuova sinistra” aveva già riposto ogni velleità e si interrogava fra integrazione e scioglimento dopo il deludente voto del ’76, su cui molto aveva puntato. Indimenticabile il manifesto elettorale del Pdup: «Prenderemo solo il 3 per cento, ma sarà decisivo per il 51 che porterà al governo delle sinistre». Presero l’1,5 e le sinistre, rimaste ben sotto il 50, sostennero con l’astensione un governo Andreotti. Inevitabile il disimpegno. O l’integrazione, anche perché ben diversa era la situazione del Pci. Mancato il sorpasso, era comunque arrivato ai suoi massimi storici tornando dopo trent’anni nell’area di governo, e con Pietro Ingrao presidente della Camera. Nell’estate del 1976, col «governo delle astensioni», il «monopartitismo imperfetto» si fa Stato; restano fuori solo Almirante (che sarà abbandonato da un cospicuo pezzo di Msi), i liberali e i nuovi giunti radicali insieme all’estrema sinistra. Ma soprattutto restano tagliati fuori i luoghi e i soggetti del conflitto sociale, che per la prima volta si trovano privi di una sponda istituzionale e di un sostegno nella società che, bene o male, il Pci non aveva mai fatto mancare. Il gramsciano «moderno Principe» si fa esigente e spietato. Il conflitto va sacrificato al modello berlingueriano dell’austerità. Asor Rosa è il più lucido: il partito deve farsi Stato, sia pure nella inedita forma consociativa. A questo obiettivo tutto va sottomesso e peggio per chi è fuori. Naturalmente, nota Asor, c’è un prezzo: le forme tradizionali del conflitto sociale mutano, non si scontrano più lavoro e capitale ma garantiti e non garantiti. Dal conflitto generatore di sviluppo si rischia di passare a un modello conflittuale quasi pre-capitalistico. Due società separate, l’una che racchiude i garantiti dal nuovo patto social-corporativo che tenta di perfezionarsi nella sfera istituzionale, l’altra composta da tutti quelli che si trovano fuori dal recinto, quasi nuovi paria. Infatti la manifestazione che il 12 marzo sfila per Roma con abbondante uso di armi da fuoco corte e lunghe è politicamente più simile al tumulto dei Ciompi che alla moderna lotta di classe. Nemmeno i brigatisti si fanno incantare dalle pallottole che fischiano, e restano diffidenti, saldi nei loro pur avvizziti schemini cominternisti. Nessuno dei manifestanti pensa però di sparare al padre- partito: i più giovani perché non lo ritengono nemmeno parente, gli over 25 perché, chi prima chi dopo, l’hanno già sepolto. Se c’è qualche eccezione è una di quelle cose che capitano quando c’è tanta gente. Ma il ’77 non vive solo di armi e indiani metropolitani. Il movimento ribelle all’emarginazione non disdegna la marginalità. Paradossalmente la richiesta di reddito viene sganciata da quella del “posto” non solo perché comunque negato ma anche perché, al fondo delle cose, poco appetito. Lavori di nicchia, con molto tempo libero, senza rinunciare a una vita di relazioni ricca. Il morettiano «Vedo gente, faccio cose» anticipa caricaturalmente i “Mc jobs”; se si deve lavorare sotto padrone meglio starci il meno possibile. Meglio ancora riuscire a lavorare in proprio, magari facendo piccole cose. È il paradosso più significativo di quel movimento. Il «rifiuto del lavoro» è, anche, la premonizione del fenomeno delle partite Iva. Percorso bizzarro che ancora lascia molto da descrivere.