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Il presidente Bush alle prese con un bilancio che non tiene

di Pier Francesco Galgani - 08/02/2007

 
 



Il 5 febbraio il presidente George W. Bush, dopo una riunione del suo gabinetto, ha un incontro con la stampa durante il quale presentat la proposta di bilancio per l’anno 2008 che avrà inizio il prossimo 1° ottobre. Nella cabinet room la tensione riguardo alla disputa congressuale tra repubblicani e democratici a proposito della fissazione di un termine alla presenza di militari americani in Iraq è palpabile.

Quando il Presidente termina la sua esposizione, la prima domanda che gli rivolge un giornalista è: “Poiché nella nuova proposta di bilancio si prevede una riduzione delle spese belliche per l’Iraq a 50 miliardi entro il 2009, tale data va interpretata come una implicita ‘dead line’ alla presenza di militari americani a Baghdad o no?”. La risposta nervosa e impaziente fornita da Bush al quesito tradisce tutto il suo fastidio e la contrarietà sull’andamento della situazione irachena. Malgrado ciò, è un fatto difficilmente confutabile che la maggior parte delle risorse finanziarie richieste per il 2008 saranno necessarie a sostenere lo sforzo bellico statunitense in Iraq e Afghanistan.

La proposta di bilancio (simile alla nostra legge finanziaria) ammonta a 2.900 miliardi di dollari, di cui 624,6 (un quinto dell’intero budget) per il Pentagono, con un significativo incremento rispetto alla richiesta già elevata per l’anno precedente. A questi vanno poi aggiunti 141,7 miliardi in più per la guerra al terrorismo e altri 93,4 miliardi per le spese militari oltreoceano. Con tali cifre le risorse finanziarie destinate a fini bellici sono tornate ai livelli raggiunto solo da Reagan negli anni 80. Per la prima volta le spese per i due conflitti mediorientali, invece di essere contenute in disegni legislativi ad hoc, sono contenute nella stessa proposta di bilancio con una scelta che, secondo il direttore al Bilancio Rob Portman, vorrebbe essere indice di maggiore trasparenza da parte del governo federale.

Nello stesso documento il Presidente chiede anche la conferma da parte del Congresso (a maggioranza democratica) dei tagli alle tasse già approvati nel 2001 e nel 2003, che secondo fonti autorevoli avrebbero permesso sgravi limitati soprattutto verso le classi più abbienti con scarsi se non nulli effetti nei confronti degli strati più poveri, e si dice convinto di essere capace di far tornare il bilancio federale in pareggio entro il 2012. Per un presidente che nel corso del suo doppio mandato è riuscito quasi a triplicare il deficit, passando da 3,6 a 8,6 trilioni di dollari, sarebbe un risultato lusinghiero, se non fosse che per quella data George Bush avrà lasciato la carica da almeno tre anni e saranno altri a dover decidere il corso economico statunitense.

In parallelo all’enorme crescita delle spese militari, l’amministrazione vorrebbe realizzare ulteriori tagli ai servizi sociali. Rispetto all’esercizio precedente, il governo sarebbe intenzionato a ridurre di altri 66 miliardi le risorse destinate al programma Medicare, per l’assistenza agli anziani e di altri 25 quelle per il programma Medicaid, per l’assistenza sanitaria ai poveri: una richiesta che ha suscitato molte voci discordanti, non solo da parte dei democratici che si sono detti assolutamente contrari ai tagli alla sanità, ma anche da parte di alcuni stati come quello di origine del presidente, il Texas.

Secondo il Dallas Morning News, la riduzione di fondi per il Medicaid avrebbe comportato maggiori costi per il governo statale texano, poiché, per compensare le minori entrate federali, questo avrebbe dovuto aumentare quelle messe a disposizione sul proprio bilancio. Una protesta simile a quella che negli ultimi anni si è sentita in Italia ad opera degli enti locali, penalizzati dai tagli ai trasferimenti dal centro alla periferia operati dal governo Berlusconi nelle sue cinque finanziarie.

All’origine delle scelte di Bush vi sono sia motivi di natura contingente sia di natura ideologica. Così come accadde 40 anni fa al suo predecessore Lyndon Johnson, sempre più impantanato nella guerra del Vietnam, anche Bush è stato costretto a ridurre le risorse per scopi di tipo sociale, al fine dei usarle per obiettivi bellici. Tuttavia, se tra i due presidenti è possibile rinvenire questa analogia, la situazione non è la medesima. Quando Johnson fu obbligato ad accrescere le spese militari, lo fece a malincuore, togliendo fondi al suo obiettivo della Grande Società, quel grandioso programma di sovvenzioni sociali alle classi meno abbienti che avrebbe voluto essere l’approfondimento e la continuazione del New Deal di Franklin Roosevelt e per il quale avrebbe voluto che la sua presidenza venisse ricordata.

Per Bush la realtà è ben diversa. Non ha mai voluto infatti farsi interprete di un progetto così grandioso. Al limite ha fatto riferimento al vago concetto di ‘conservatorismo compassionevole’, prendendo a modello un altro predecessore; quel Ronald Reagan che negli anni 80 in nome della antipolitica ingaggiò una lotta senza precedenti verso il Walfare State creato dalle presidenze democratiche. Il nemico dell’ex governatore della California era il Big Government, lo Stato assistenzialista e interventista visto come espressione di abuso di potere verso l’iniziativa personale e la libertà individuale. Se da un lato Bush ha voluto rifarsi alle sue posizioni, dall’altro se ne è completamente distaccato, poiché con la sua presidenza il Big Government non solo non è diminuito, ma si è accresciuto, basti pensare all’istituzione di un altro dicastero: Homeland Security.

Di conseguenza, gli ulteriori tagli alle provvidenze sociali non sembrano dovuti solo a motivi contingenti, ma anche a ragioni più squisitamente ideologiche: minare l’esistenza di programmi come Medicare o Medicaid , come mezzo di lotta politica e ideologica, per abbattere le ultime vestigia del New Deal rooseveltiano e dei programmi jonhsoniani, intesi come soggetti estranei alla cultura protestante statunitense, da espungere così come il Male, rappresentato dagli Stati canaglia come l’Iran o la Corea del Nord. Una visione manichea che non teme niente e nessuno, tanto meno le esigenze di bilancio del proprio Stato di origine.