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50 secondi di silenzio: fame

di Susanna Dolci - 09/02/2007



 


Questo è il titolo di una pubblicità che in questi giorni è possibile trovare sui periodici a diffusione nazionale. La prima immagine è quella di un bambino biondo, con gli occhi azzurri, pingue ed intento a mangiare zucchero filato. Il testo posto accanto recita: “Un miliardo di persone nel mondo è in soprappeso. E 450 milioni tra adulti e bambini sono obesi”. La seconda fotografia è quella di un bimbo del terzo mondo, denutrito e con una ciotola di cocco vuota e spaccata tra le gracili dita. Il testo di questa foto è il seguente: “800 milioni di persone non hanno abbastanza da mangiare”. Ma non basta. Alcuni dati risalenti al 24 maggio 2006 (Giornata Mondiale per l’Africa) parlano di una situazione ancora più catastrofica. “1,1 miliardi di persone in povertà, 1,5 miliardi di esseri umani che non hanno accesso all’acqua. 1 miliardo soffre la fame. 150 milioni di bambini sono denutriti ed hanno meno di 5 anni. 12 bambini muoiono di stenti ogni minuto. 20 milioni muoiono ogni anno per denutrizione. Ed ancora il 46% dei piccoli non arriva ai 5 anni. Il colera è uno dei killer principali. L’Africa morirà presto nella più assoluta impotenza e nel sogno dell’Europa. I bambini sembrano adulti, i giovani vecchi, le donne a 20 anni hanno già 3 o 4 figli. Si muore come mosche……”.

Per chi non riesce ad immaginare tutto ciò, di seguito si riporta un’intervista realizzata con due persone che stanno attualmente operando in Angola. Confinante con la repubblica del Congo, la repubblica Democratica del Congo, Zambia, Namibia, Botswana, l’Angola si affaccia sull’Oceano Atlantico. L’UNICEF lo considera uno dei paesi a massimo rischio e numerosi sono i progetti di aiuto in corso. La mortalità infantile è a livelli impressionanti tanto che questo paese è al 2° posto nella classifica mondiale. E così la malnutrizione e l’analfabetismo. Ma lascio la parola a loro che sono testimoni in presa diretta. Purtroppo per la difficoltà delle comunicazioni e la complessità del loro operato non sarà possibile averli ospiti nel post per ulteriori commenti. Quelle che seguono sono la prima e-mail e l’intervista completa inviatami nelle scorse settimane.

Gentile sig.ra Susanna,
La ringraziamo per l'intervista alla quale rispondiamo via e-mail con piacere soprattutto perché riteniamo che il nostro opulento mondo debba essere informato sulle condizioni di vita di moltissimi paesi. Possiamo risponderle solo domani in considerazione del fatto che, essendo senza energia da almeno due mesi, siamo costretti, vista l'ora, a spengere il generatore di corrente che è in funzione da questa mattina. Intanto le scriviamo i dati personali:
Marco Giommi, Responsabile coordinatore in Angola dei progetti VIS ( Volontariato Internazione allo Sviluppo) e Unione Europea.
Maria Grazia Vittoriani, medico chirurgo, coordinatrice dei progetti sanitari del VIS in Angola


Perché avete deciso di partire ed affrontare una situazione che per molti sarebbe sinonimo di sacrificio?

“La nostra scelta scaturisce dalla radicata consapevolezza che ogni uomo è uguale all’altro e che ogni uomo è tutti gli altri. E dunque tutti gli abitanti di questo pianeta, indipendentemente dalle diversità genetiche, culturali e religiose hanno gli stessi diritti. L’inaccettabile disparità tra il nord e il sud del mondo, la coscienza che ognuno di noi può essere parte attiva di un processo che sia in grado di rimuovere gli ostacoli alla piena realizzazione umana e sociale dell’uomo, la certezza di poter far parte, ognuno con le specifiche capacità e competenze, ad un processo di trasformazione sociale e culturale, ci ha indotto a scegliere la via del volontariato internazionale. E dunque, il nostro obiettivo principale è l’impegno a lavorare per la promozione della persona e per i diritti umani”.

Quali sono le condizioni in cui versa, attualmente, l'Angola?

“L’Angola ha subito per cinque secoli la colonizzazione portoghese durante la quale questa popolazione fu ridotta a pochi milioni di abitanti per la selvaggia deportazione e per le terribili condizioni di schiavitù a cui venne costretta. Negli anni 70 fu dichiarata da parte dei portoghesi l’indipendenza del paese e i diversi gruppi armati che avevano lottato per l’indipendenza presero strade politiche diverse, mossi da interessi economici e politici diversi. Scoppiò così la guerra civile combattuta da tre diversi gruppi armati: MPLA sostenuto dall’allora Unione Sovietica, l’UNITA sostenuto dall’America e FNLA sostenuto dal Sud Africa. La guerra civile terminò nel 2002, lasciando un paese già lacerato da cinquecento anni di schiavitù in condizioni indicibili. 1 milione e mezzo di morti in guerra, 14 milioni di mine antiuomo sparse per tutta l’Angola, migliaia di invalidi, di orfani e rifugiati, famiglie disgregate, estreme condizioni di miseria. Durante il periodo bellicoso molti angolani, per sfuggire alla ferocia della guerra nelle province, si rifugiarono a Luanda, la capitale dell’Angola, la città in cui ci troviamo ad operare. Luanda, una città costruita per 700.000 abitanti, oggi accoglie quasi sei milioni di persone, la maggior parte delle quali in condizioni di grande miseria. Nei bairros dove la gente è letteralmente ammassata, non c’è acqua potabile, non c’è energia elettrica, non ci sono né fogne né tanto meno un sistema di raccolta dei rifiuti. Non esistono servizi di alcun tipo, le strade sono prevalentemente sterrate e quando arriva il periodo delle piogge sono difficilmente praticabili anche con un fuoristrada”.

Quali sono i problemi che affliggono questo stato? E quale il loro livello di gravità? Com'è possibile che nel XXI secolo ancora si assista e si viva in condizioni disumane?

“L’Angola è paradossalmente un paese ricco. È il terzo produttore al mondo di diamanti, produce un milione di barili di petrolio al giorno, è ricca di acqua e di bellezze naturali. Tutto ciò è in mano al 20% della popolazione e all’occidente mentre il restante 80% versa in condizioni disperate. Alcuni dati ufficiali possono far capire l’entità dei problemi: il 40% dei bambini muore prima dei cinque anni, il tasso di mortalità materno-infantile è, insieme alla Sierra Leone, il più alto nel mondo; la malaria, la tubercolosi, la poliomielite, il colera sono malattie epidemiche. Ancora oggi stiamo lottando contro il colera che ha ucciso in pochi mesi quasi quattromila persone. La denutrizione è diffusa, le condizioni igienico-sanitarie sono allarmanti, il 65% della popolazione è analfabeta. Mancano le infrastrutture, non ci sono servizi pubblici di alcun tipo, non c’è una rete sanitaria pubblica adeguata e quel poco che esiste è tutto a pagamento, compreso i farmaci. Corruzione, alcoolismo, delinquenza minorile, violenza domestica, suicidi giovanili, soprattutto nelle province, sono i problemi emergenti. Una nuova colonizzazione è alle porte di questo paese: quella economica. Il modello di sviluppo che il governo ha scelto è un modello prevalentemente capitalistico che nulla ha a che vedere con la cultura e la storia di questo popolo che, a causa della dominazione portoghese, non ha avuto la possibilità di decidere del proprio destino. Pubblicità di cellulari, di computer, di automobili, di vestiti occidentali all’ultima moda sono diffusi in tutta la città di Luanda. Imprese portoghesi, italiane, francesi, brasiliane fanno grandi affari anche in considerazione dei salari bassissimi ed all’assenza dei diritti del lavoratore. Generalmente importano materie prime e professionalità utilizzando la forza lavorativa locale solo per lavori di fatica e a basso costo, non creando in tal modo reale ricchezza per il paese. Queste sono le condizioni in cui versa l’Angola come tanti altri paesi dell’Africa e non solo. Dopo questa nostra descrizione è d’obbligo una riflessione per tutti noi: perchè questa povertà? Quali sono le responsabilità storiche dell’occidente? Possono essere i modelli di sviluppo occidentale l’unico modello applicabile ad ogni popolazione di questa terra? Siamo certi che anche per noi sia il modello più giusto? É il nostro uno sviluppo a misura d’uomo e per l’uomo?”

É possibile far arrivare gli aiuti umanitari alle popolazioni senza troppa difficoltà?

“Molte sono le ONG (organizzazioni non governative) di diversa inspirazione che operano in questo paese impegnate in diversi settori: sanità, educazione, alfabetizzazione, diritti umani, impianti idrici, agricoltura, sminamento. Nella maggior parte dei casi sono finanziate da Enti internazionali o da privati. Ma sono certa di poter dire che la grande valenza sociale della chiesa cattolica missionaria è unica. I missionari di diversi ordini religiosi vivono con il popolo, condividono la povertà, sono impegnati nella battaglia per il rispetto dei diritti umani, sono perfettamente inseriti nel tessuto sociale e sono amatissimi dalla popolazione. Ciascuno, se veramente lo desidera, attraverso la conoscenza indiretta o diretta di istituzioni religiose o di ONG in cui ripone la massima fiducia può aiutare questo popolo”.

Cosa avete provato, Lei e suo marito, arrivando sul luogo, vedendo e toccando con mano il martirio di questa povera gente? Impotenza, rabbia, dolore?

“Rispondendo a questa sua domanda potremo rischiare di cadere nella retorica. Credo che tutti siano in
grado di immaginare cosa proviamo ogni giorno”.

Come si può aiutare voi e quindi la popolazione? E a conclusione se volete lanciare un appello…

“Lei ci chiede come aiutare questo popolo. Sarebbe meglio dire come aiutare tutti i popoli che si trovano in queste condizioni. È fondamentale, innanzitutto, cambiare prima noi stessi, invertire le tendenze attuali, informare, sensibilizzare, creare una cultura di solidarietà, educare a ridurre i falsi bisogni di cui siamo schiavi, convincersi e convincere che la ricchezza di pochi affonda le radici nella povertà di molti, che la disparità nella distribuzione della ricchezza genera miseria. Spogliamoci delle vesti di benefattori e viviamo la povertà degli altri come una grande ingiustizia sociale. Liberiamoci del vocabolo intolleranza e disponiamoci, nella nostra realtà quotidiana, ad un aperto e schietto confronto con i diversi. Solo così potremo essere autori di un reale processo di interculturalità e sviluppo umano”.