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Il rischioso ruolo saudita

di Abd Al-Bari Atwan - 15/02/2007





 

Il meeting di riconciliazione palestinese, inaugurato a Mecca sotto gli auspici del re saudita ‘Abdullah Bin ‘Abdul ‘Aziz, con la partecipazione di delegazioni di alto profilo dei movimenti Fatah e Hamas, dà il via ad una nuova fase del lavoro diplomatico e politico saudita pubblicamente attivo, dopo anni di operazioni dietro le quinte.

I motivi diretti di questa improvvisa mossa saudita è l'allargamento della zona di influenza iraniana nella regione araba - l'Iraq, il Libano e la Palestina in modo particolare - e il fatto che Teheran sia prossima a possedere un arsenale militare nucleare che può minacciare la sicurezza nazionale saudita e l'egemonia americana nella regione del Golfo, dove si trovano i due terzi delle riserve mondiali di petrolio.

L'immutabile strategia saudita - che non muta con il mutare dei governanti - è di non permettere la presenza di alcuna superpotenza regionale che possa rappresentare una minaccia per l'unità del regno, per la sua sicurezza e per la sua influenza diretta o indiretta sulla sicurezza del Golfo, e di non entrare in disaccordi con gli Usa ma stabilire con loro relazioni di salda alleanza, il che comporta la partecipazione a tutte le loro guerre.

Proprio in applicazione di questa strategia la famiglia reale ha combattuto l'Egitto di Nasser, è entrata attivamente nella guerra fredda contro l'Urss e ha partecipato alla guerra per il rovesciamento del regime del presidente iracheno Saddam Hussein, prima con la cacciata delle sue truppe dal Kuwait nel 1991 e poi con la sua cacciata dal potere nel 2003. Ora si sta preparando a partecipare più attivamente alla guerra americana contro l'Iran.

Il nuovo ruolo saudita arriva nuovamente in coordinamento con gli Usa, questo spiega le continue visite dei funzionari americani a Riad, ultima delle quali è stata quella del vice-presidente Dick Cheney. Visite che ricordano quelle che hanno preceduto le due guerre contro l'Iraq: la prima, quando Cheney era il ministro della difesa e la seconda, quando è diventato vice-presidente e leader della corrente neo-con, che certo non mostra simpatia verso gli arabi e i musulmani.

Vi sono diverse ragioni che hanno portato l'attivo e intenso ruolo dell' Arabia Saudita da segreto a pubblico e le possiamo riassumere come segue:

Primo: il ritiro dei ruoli egiziano e siriano, la leadership egiziana nella persona del presidente Hosni Mubarak è una leadership che ha scelto l'incompetenza e la regressione interna, mentre quella siriana è una leadership giovane con un'esperienza limitata. Inoltre si trova attualmente accerchiata da America e Israele a causa della questione dell'assassinio di Rafiq Al-Hariri in Libano, della mancanza di una sua completa cooperazione nella guerra americana in Iraq e della sua scelta di allearsi strategicamente con l'Iran, il nuovo nemico di Washington e dell'Arabia Saudita.

Se poi aggiungiamo la disintegrazione dell'Iraq e il suo precipitare in una guerra civile e di fazioni, si può dire che i tre assi centrali arabi, su cui si sono fondate le mosse politiche arabe per più di duemila anni, si sono completamente paralizzati, cosa che ha creato un vuoto politico che l'Iran si sta affrettando a riempire.

Secondo: la riuscita del governo saudita nell'assorbire le ripercussioni degli eventi dell'11 settembre, dove erano coinvolti quindici suoi cittadini, e dove le investigazioni hanno provato il coinvolgimento di istituti di beneficenza sauditi - alcuni dei quali legati a membri della famiglia reale nel finanziamento di gruppi estremisti islamici.

Sembra che abbia concluso un accordo strategico con la direzione americana impegnandosi a soddisfare le sue richieste per un'adesione efficace nella guerra al terrorismo islamico, a cambiare i programmi scolastici epurandoli da tutto quello che incita al “Jihad”, a disciplinare le moschee espellendo tutti i predicatori dell'estremismo, a controllare strettamente le donazioni e i movimenti dei capitali nelle banche saudite. Soprattutto l'apertura delle sue basi a Ar'ar e Tabuk come piattaforma d'attacco delle forze terrestri e aeree americane incaricate di invadere l'Iraq nell'ultima guerra.

Terzo: l'aumento del prezzo del petrolio e la conseguente moltiplicazione delle entrate finanziarie saudite di almeno tre volte, superando così almeno 200 miliardi di dollari annui, cosa che ha riportato l'arma del capitale in mano al governo saudita, che ha dimostrato di saperla usare efficacemente, sia nel fronte interno che in quello esterno dopo gli anni di vacche magre che l'avevano cambiata da nazione creditrice in nazione debitrice in cerca di prestiti per pagare i salari dei suoi impiegati.

Quarto: il ritorno dell'alleanza strategica americano-saudita alla sua forma migliore dopo aver circoscritto la crisi dell'11 settembre e l'accordo fra le due parti per affrontare l'influenza iraniana crescente in Iraq, in Libano e in Palestina hanno fatto in modo che il governo saudita potesse colpire il movimento riformista interno - attivo negli scorsi dieci anni a favore di un'equa distribuzione delle risorse, del rispetto dei diritti umani, dell'indipendenza della magistratura, delle elezioni dei rappresentanti in Parlamento, dell'istituzione di una monarchia costituzionale, di una maggiore trasparenza, responsabilità e controllo in campo finanziario.

Il governo saudita si lamentava amaramente per la campagna mediatica americana che reclamava riforme politiche e libertà nel periodo post 11 settembre, ma dopo aver accontentato l'amministrazione americana con le summenzionate concessioni, queste campagne mediatiche si fermarono di colpo e l'amministrazione americana cominciò a distogliere lo sguardo dagli arresti fra le file dei riformisti, l'ultimo dei quali ha avuto luogo la scorsa settimana, quando ne sono stati presi di mira dieci.

La questione che si pone adesso è sulla portata del successo di questo nuovo ruolo saudita nella realizzazione degli obiettivi perseguiti e la visione che ne hanno le altre potenze regionali.

Si può dire che questo ruolo affronterà due esami chiave, il primo è l'incontro a Mecca per la pacificazione nazionale palestinese, mentre il secondo test sarà a Riad quando la capitale saudita ospiterà il summit arabo nella sua sessione annuale ordinaria.

Ospitando l'incontro palestinese a Mecca, il governo saudita vuole realizzare due obiettivi principali, il primo è allontanare il movimento di Hamas dall'asse siro-iraniano. Il secondo è quello di calmare la situazione nei territori occupati per facilitare il successo del vertice a tre che verrà presieduto dal ministro degli esteri americano Condoleeza Rice il 19 febbraio nella Gerusalemme occupata, che vedrà la presenza del Presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas e il premier israeliano Ehud Olmert. Vertice da cui ci si aspetta che si discuta sulla ripresa dei negoziati, per arrivare ad un accordo politico il cui nucleo sia la creazione Stato Palestinese temporaneo.

L'amministrazione americana vuole rafforzare la coalizione dei moderati che include i sei Stati del Golfo, oltre all'Egitto e alla Giordania, cosa che porterebbe all'adesione di Israele, anche in qualità di membro osservatore. Ma questo scopo non può essere raggiunto se continuano ad esserci tensioni nelle relazioni palestinesi – palestinesi in primis e palestinesi – israeliani in secundis .

Infatti tutti i ministri degli esteri arabi che si sono riuniti con la signora Rice nelle ultime due volte, al Cairo e in Kuwait, hanno chiesto una qualunque mossa, anche a livello formale, per la soluzione del conflitto arabo-israeliano, come copertura alla loro partecipazione in qualsiasi sforzo politico, economico o militare contro l'Iran.

Il successo del nuovo ruolo saudita è ancora oggetto di dubbi, poiché le relazioni saudite con molti paesi arabi varia dal pessimo al tiepido. Sono tese con Siria, Libia e Qatar, inesistenti con il nuovo Iraq per via dell'influenza iraniana sul suo governo, forti da una parte e deboli dall'altra in Libano. Fredde con paesi come il Sudan e la Tunisia, non ben delineate con Yemen e Algeria. L'immagine diverrà forse più chiara vedendo il peso e il livello dei partecipanti nel prossimo summit arabo di Riad.

Il paradosso è che, alla luce del suo ripiegamento interno e del suo allontanamento da qualsiasi ruolo arabo dopo il risaputo scontro tra re Abdallah e il presidente libico Mu'ammar Gheddafi, il governo saudita abbia chiesto una risoluzione da parte della Lega Araba per fare del “resort” Sharm Al-Sheikh il luogo permanente dello svolgimento delle assemblee dei vertici arabi, per evitare così ogni nuovo scontro, per non ospitare alcun summit in cui fossero presenti leader riottosi come quello libico, e per evitare al re saudita la partecipazione ai summit per i motivi di cui sopra, com'è successo negli ultimi due vertici a Tunisi e ad Algeri.

Ora alla luce del tentativo di mettersi a capo dell'azione araba e di giocare un ruolo di spicco nello scontro con il progetto iraniano, il governo saudita ha abbandonato le sue passate riserve e ha deciso di ospitare il prossimo summit a Riad.

E' una scommessa piena di pericoli quella che sta giocando l'Arabia Saudita, poiché avendo giocato un ruolo attivo negli anni '80 e '90, nel nuovo millennio è cambiata, così come sono cambiate le condizioni arabe. Nel passato l'Arabia non era una parte nel gioco degli assi e anche quando ci è entrata con lo scontro con Saddam Hussein sotto la bandiera della liberazione dell'Iraq si erano unite la Siria rivoluzionaria, l'Egitto – peso massimo demografico - e i ricchi paesi del Golfo, tutti insieme allineati con la neutralità o la benedizione dell'Iran, la super potenza della regione.

Ora il quadro è ben diverso.

Affrontare un regime isolato affamato e braccato come quello di Saddam Hussein forse può sembrare estremamente facile rispetto al confronto con un regime iraniano forte, che possiede un arsenale militare forte, solide alleanze internazionali (Cina, India, Russia) e regionali ancora più solide (Siria, Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina).

Infatti, così come il governo saudita può minacciare di inondare i mercati petroliferi con quantità aggiuntive per abbassare i prezzi, rendendo impossibile all'Iran il finanziamento dei suoi alleati in Iraq e in Libano - oltre alle altre minacce di appoggiare le milizie sunnite in Iraq con finanziamenti e armi per lo scontro con le controparti sciite - è dunque logico dedurre che anche l'Iran ha carte che possono essere usate efficacemente contro gli alleati arabi moderati guidati dall'Arabia Saudita, nello specifico la carta più evidente sono le minoranze sciite nelle regioni del Golfo e saudite in modo particolare. Sono minoranze oppresse e per la maggior parte di origine iraniana, anzi la maggior parte di loro in casa parla addirittura in persiano.

L'Iran possiede una grande esperienza nel sabotaggio, se a questa esperienza aggiungiamo quelle siriane, ne verrà fuori un quadro fosco per chi crede che sia facile contrapporsi all'Iran senza avere uguali carte da giocare, se non la carta dell'arma finanziaria.

Il problema principale dell'Arabia Saudita sta nel fatto che può allontanare Hamas e Siria dall'Iran, ma non può allontanare l'alleato americano da Israele e non può fiaccare il terrorismo israeliano sui Palestinesi, terrorismo il cui ultimo capitolo è l'allargamento degli scavi sotto la Moschea di Al-Aqsa, in aperta sfida agli alleati moderati e al re saudita che li guida.

di Abd Al-Bari Atwan, da Al-Quds Al-Arabi
tradotto per Megachip da Claudia La Barbera