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La congiura del silenzio nel mondo arabo

di Robert Fisk - 16/02/2007


"Dove sono gli sceicchi di Al-Azhar e i grandi regni arabi quando le vittime irachene vengono raccolte dal fiume Tigri e uccise a migliaia a Baghdad, Kerbala, Baquba? Dovremmo permettere ai Rifaat di questo mondo di continuare a godersi la vita a Marbella? E agli assassini di Hariri di rimanere in libertà? E agli arabi di rimanere in silenzio di fronte alle vergognose atrocità che i loro fratelli musulmani hanno commesso e stanno commettendo?"

La comparsa in tribunale di Rifaat al-Assad potrebbe avvicinarsi? Sì, stiamo parlando di Rifaat – zio paterno del presidente siriano Bashar al-Assad –, colui che venne cacciato da Damasco dal fratello Hafiz dopo che aveva tentato di servirsi delle proprie truppe speciali per inscenare un colpo di stato. Si trattava delle stesse forze che annientarono la ribellione islamica ad Hama nel febbraio del 1982, massacrando fino a – beh, alcune migliaia di persone secondo il regime, almeno 10.000 secondo le mie stime (mi trovavo sul posto) e fino a 20.000 se, a differenza di me, ritenete attendibili le stime del New York Times.

In un modo o nell’altro, ho sempre considerato la vicenda un crimine di guerra, unitamente al massacro, alcuni mesi più tardi, di palestinesi nei campi profughi di Sabra e Chatila a Beirut per mano delle milizie libanesi alleate di Israele. Ariel Sharon, ritenuto personalmente responsabile dalla stessa commissione d’inchiesta israeliana, non è mai stato processato. Lo stesso vale per Rifaat.

Ecco perché, questa settimana, una debole speranza ha fatto capolino quando ho ricevuto via fax una lettera inviata al Segretario Generale dell’ONU da Malik al-Abdeh, capo del Movimento per la Giustizia e lo Sviluppo in Siria (“Movement for Justice and Development in Syria”), con base a Londra. Abdeh – attualmente consulente informatico per una multinazionale – ha lasciato la propria città in Siria, Zabadani, prima dei massacri di Hama; è improbabile, quindi, sia in grado di respirare l’aria che si respira oggi in Siria. Ma di nuovo, è difficile che lo possa fare a sua volta Rifaat, il quale languisce – in compagnia delle guardie del corpo – in quella piacevole oasi europea chiamata Marbella. Probabilmente, è proprio di un rifugio ciò di cui Rifaat ha bisogno. Abdeh sta infatti chiedendo alle Nazioni Unite di aprire un’inchiesta sulla strage di Hama – similarmente a come è stata istituita la Commissione internazionale ONU sull'assassinio, quasi due anni fa, dell’ex Primo Ministro libanese Rafiq Hariri.

Ahi! Nella lettera Abdeh descrive il modo in cui "aeroplani militari e carri armati hanno raso al suolo interi quartieri della città (di Hama)... le prove suggeriscono chiaramente che le forze governative non hanno fatto alcuna distinzione tra insorti armati e civili disarmati... l’attacco alla città rappresenta un atto palese di crimini di guerra e omicidio di massa". La lettera è passata ora nelle mani del consigliere giuridico ONU Nicolas Michel, lo stesso che segue il caso dell’uccisione di Hariri. Il sacro nome di Rifaat non è stato menzionato nella lettera, ma viene chiaramente chiesto che “i colpevoli vengano individuati...".

Ci sono naturalmente alcune discrepanze. I siriani non hanno usato gas tossico ad Hama, come dichiara Abdeh. Hanno indubbiamente smantellato intere zone della città – ancora oggi rase al suolo, sebbene un hotel sia stato costruito su un quartiere distrutto – e, quando i criminali di Rifaat hanno in seguito setacciato le rovine, hanno sommariamente giustiziato qualsiasi civile che non fosse in grado di giustificare la propria presenza.

Ma, ovviamente, la rivolta di Hama costituiva anche un’insurrezione musulmana sunnita; i rivoltosi hanno ucciso intere famiglie di ufficiali del partito Baath, qualche volta decapitando. Nei tunnel sotterranei, diverse ragazze musulmane si sono fatte esplodere tra le truppe siriane – erano tra le prime attentatrici suicide del Medio Oriente, ma allora non abbiamo apprezzato questo aspetto. Gli americani non si rammaricarono affatto che questa insurrezione islamica fosse stata annientata dallo Zio Rifaat. I lettori non avranno bisogno di alcun riferimento a recenti ed ugualmente orribili episodi di rivoltosi sunniti nella Siria orientale. E, poiché gli americani stanno diventato piuttosto efficienti nell’uccisione di civili e terroristi, nutro il sinistro e vago sospetto che non ci sarà grande entusiasmo a Washington per un processo sulla strage di Hama.

Tuttavia, ciò che mi sorprende non è tanto la portata della lettera di Abdeh, quanto il fatto che sia stata scritta. Quando venne perpetrato il massacro di Hama, gli stati arabi della regione rimasero in silenzio. Nonostante i religiosi sunniti della città invocarono una guerra religiosa, i loro compagni ecclesiastici a Damasco – e a Beirut – non reagirono. Proprio come quando, negli anni Novanta del secolo scorso, gli imam e i discepoli dell’Islam rimasero in silenzio quando gli algerini iniziarono a massacrarsi l’un l’altro in un tumulto di decapitazioni ed esecuzioni di forze di sicurezza.

Proprio come rimangono in silenzio ora sui reciproci massacri in Iraq. Certo, i massacri tra i due fiumi non ci sarebbero stati se non avessimo invaso il paese. Sospetto ci siano alcune “mani nascoste” dietro il conflitto civile in una nazione che non si è mai separata. In Algeria, agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso, i francesi hanno speso parecchio tempo e energie a persuadere – con notevole successo – i propri nemici del FLN (Fronte di Liberazione Nazionale) e dell’ALN (Armata di Liberazione Nazionale) ad uccidersi a vicenda. Ma dove sono gli sceicchi di Al-Azhar e i grandi regni arabi quando le vittime irachene vengono raccolte dal fiume Tigri e uccise a migliaia a Baghdad, Kerbala, Baquba? Anch’essi rimangono in silenzio.

Non una parola di critica, niente. Non un accenno di preoccupazione. Non una scintilla (parola di Enoch Powell1) di compassione. Un bombardamento israeliano del Libano? Persino un’invasione israeliana? Si tratta di crimini di guerra – e gli arabi hanno ragione a pensare che gli israeliani commettano crimini di guerra. Ne sono stato testimone (di un buon numero) l’estate scorsa. Ma quand’è che il sangue arabo diventa meno sacro? Perché è così se è versato comunque da arabi? Non si tratta solo di una mancata autocritica nel mondo arabo. In un panorama governato da mostri che noi occidentali abbiamo a lungo sostenuto, qualsiasi critica diventa un’impresa rischiosa. Ma possibile che non possa esserci il bencheminimo accenno di condanna per quello che i musulmani iracheni stanno oggi facendo ad altrettanti musulmani iracheni?

Certo, gli arabi stanno affrontando il fatto che le proprie terre sono state invase e di fatto occupate dagli eserciti occidentali. Alcune settimane fa, ho calcolato che per ogni cittadino musulmano esiste ora un numero 22 volte superiore di soldati occidentali in terre islamiche rispetto ai tempi delle Crociate – e il mondo era più piccolo nel XII secolo. In che modo si risponde all’attacco di queste legioni e le si rispedisce al mittente? Gli iracheni lo hanno mostrato, in modo orribile, brutale. Ero solito dire che il futuro dell’amministrazione Bush sarebbe stato deciso in Iraq, non a Washington. Sembra ormai realtà.

Quindi, cosa dovremmo fare? Permettere ai Rifaat di questo mondo di continuare a godersi la vita a Marbella? E agli assassini di Hariri di rimanere in libertà? E agli arabi di rimanere in silenzio di fronte alle vergognose atrocità che i loro fratelli musulmani hanno commesso e stanno commettendo? Scommetto che Rifaat sarà al sicuro dai compagni dell’ONU. In Iraq ora sarebbe dalla “nostra” parte, vero? Combattendo la rivolta islamica come ha fatto ad Hama? Temo che sia questo il punto: siamo tutti dei Rifaat adesso.

1. Ministro nel governo conservatore britannico tra il 1950 e il 1974 e, in seguito deputato del Partito Unionista dell’Ulster fino al 1987. Figura controversa soprattutto per le proprie visioni su questioni quali razza, identità nazionale e immigrazione (NdT).

 

Robert Fisk vive a Beirut da trent'anni. Scrive per 'The Independent' e collabora con il sito Counterpunch. Corrispondente dalla capitale libanese per il quotidiano britannico, è uno dei più autorevoli esperti di questioni mediorientali. Ha intervistato tre volte Osama bin Laden.


Fonte: The Independent
Traduzione a cura di Arianna Ghetti per Nuovi Mondi Media