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Il Giappone verso l’arma nucleare

di Emanuele Scimìa - 16/02/2007

 



Ha destato un certo scalpore quanto dichiarato su diversi media nazionali (e riportato il 4 gennaio dalla Reuters) dal ministro degli Esteri nipponico Taro Aso in merito alle scelte fatte dagli Usa in Iraq all’indomani della vittoria militare ottenuta ai danni dell’esercito saddamita.

“Donald Rumsfeldt ha sempre proseguito dritto per la sua strada, ma l’operazione portata avanti dopo l’occupazione è stata molto immatura e non ha funzionato così bene come ci si attendeva, ecco perché ora ci sono ancora problemi”, ha sostenuto Aso, evidenziando tuttavia l’importanza di aiutare l’Iraq, in special modo tramite un contributo per la ricostruzione. Lo stupore per le dichiarazioni del ministro degli Esteri nipponico è amplificato anche dal fatto che sono state rilasciate in un momento importante, all’approssimarsi, cioè, della tre giorni di visite del vice presidente americano Dick Cheney fissata dal 22 al 24 di questo mese.

Una presa di posizione forte, assunta dal più stretto e importante alleato americano in Estremo Oriente, che svela all’opinione pubblica internazionale i tentativi del nuovo esecutivo di Shinzo Abe di porre fine sia a quella sorta di ‘cattività americana’ che ha minato un autonomo sviluppo della politica estera di Tokio dal 1945 in poi, sia allo stretto abbraccio voluto dal suo predecessore Junichiro Koizumi con l’amministrazione Bush.

Koizumi, primo ministro all’epoca dell’invasione americana dell’Iraq, si allineò rapidamente alla politica di Bush, inviando in Mesopotamia truppe (no-combat) nella più importante operazione militare giapponese dalla fine della seconda guerra mondiale. A dire il vero, le prime avvisaglie di questo nuovo corso giapponese si sono già avute il mese scorso, quando il ministro della difesa Fumo Kyuma ha criticato apertamente il presidente americano per aver scatenato la campagna irachena. Secondo diversi media giapponesi, pare che a Washington siano rimasti piuttosto contrariati dalle affermazioni di Kyuma, al punto da cancellare un meeting previsto tra i titolari dei dicasteri della Difesa e degli Esteri dei due Paesi.

L’auspicio nipponico di sfumare l’influenza americana sulla propria politica estera rappresenta non solo una novità nel quadro geopolitico del Pacifico nord-orientale, ma anche un vero e proprio un paradosso. Furono proprio gli americani, quando dal 1945 al 1952 governarono nei fatti il Paese, a elaborare una costituzione ‘pacifista’, che vietava l’impiego di forze armate giapponesi all’esterno del Paese (articolo 9): della difesa esterna si sarebbe occupata Washington, in particolar modo fornendo il proprio ombrello nucleare. Fino al mese scorso, addirittura, il Giappone non aveva neppure un vero e proprio ministero della Difesa, bensì una semplice agenzia preposta alla gestione delle forze di autodifesa nazionali.

Gli americani, nonostante fossero stati gli ideatori di questo quadro politico-costituzionale, dall’inizio degli anni Settanta cominciarono a fare pressioni affinché i giapponesi partecipassero più attivamente alla politica di sicurezza dell’Asia Orientale. Nell’estate del 2004, ad esempio, l’allora segretario di Stato americano, Colin Powell, auspicò una revisione della costituzione pacifista giapponese, affinché il Paese del Sol Levante potesse aspirare realmente a un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Le aspirazioni internazionaliste giapponesi si collocano, però, in quadro geopolitico piuttosto fluido. L’alleanza americana rimane ancora la pietra angolare della politica estera nipponica sia per contenere la minaccia militare cinese, in particolar modo nel caso in cui la Cina decidesse di risolvere manu militari la questione taiwanese, sia per contrastare le velleità nucleari nord-coreane. Tokio e Pechino, tuttavia, registrano un avvicinamento politico-diplomatico, che segue anni di buoni rapporti economici, tanto da prevedere a breve uno scambio di visite tra i premier dei due Paesi .

Tale distensione non elimina certo la competition nel Pacifico tra i due colossi asiatici: la richiesta di mantenere l’embargo sulla vendita di armi imposto alla Cina dopo i fatti di Tianamen del 1989, formulata da Abe alle cancellerie europee durante il suo tour del gennaio scorso nel vecchio continente, rivela il timore giapponese verso un vicino che da quasi 20 anni destina più del 10% del proprio bilancio per le spese militari. Il cerchio si chiude con le problematiche relative a una troppo stretta vicinanza con l’indispensabile alleato americano. L’opinione pubblica giapponese non ama la politica unilateralista di Washington, specialmente riguardo alla guerra irachena. Il premier Abe, in picchiata nei consensi interni, non potrà non tenerne conto in futuro.

Quanto alla politica interna giapponese, dispute come quelle relative al presunto test nucleare nord-coreano oppure al veloce riarmo cinese, stimolano la crescita delle componenti più nazionaliste, le quali chiedono una rivisitazione della politica di difesa nazionale in materia nucleare. Una possibilità, questa, avversata dall’alleato americano, temuta da cinesi, russi e nord-coreani e sostanzialmente non condivisa dalla maggioranza dei giapponesi che, memori delle tragedie del passato, si schierano ancora su posizioni pacifiste. Il governo Abe, seppur con cautela, non esclude, però, sviluppi in tale direzione.

Rispondendo a una interrogazione parlamentare nel novembre scorso, il numero due del governo, Yasuhisa Shiozaki, dichiarò che dal punto di vista costituzionale “il paese può dotarsi di armi nucleari per autodifesa”.