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Oltre Vicenza. Qualche riflessione

di Carlo Gambescia - 19/02/2007

 

Come sarà il dopo Vicenza? Intanto, per dirla in sociologhese, il movimento di protesta, da “espressivo” (di un dissenso di tipo sociale locale), si è trasformato in un movimento di “riforma politica”, che esprime scopi “universalistici”. Tradotto: dopo la manifestazione di sabato scorso, il no all’allargamento della base americana si è tramutato ufficialmente nel no alle “guerre americane”. E, benché possa apparire retorico, nel sì alla pace universale tra i popoli: due obiettivi, di certo, non localistici.
In genere, le moderne istituzioni liberali (governo, parlamento, magistratura) blandiscono o reprimono i movimenti “espressivi” ( di malessere, spesso, locale) e privi di una chiara identità ideologica “antisistemica” : si pensi alle origini locali e politicamente confuse del movimento contadino alla fine dell’ Ottocento liberale italiano ( ad esempio alla protesta dei “Fasci siciliani”, duramente repressa da Crispi). Si tratta di movimenti che vengono contrastati in modo contraddittorio attraverso concessioni paternalistiche e/o misure di polizia. Per contro, quando le istituzioni, si accorgono di trovarsi davanti a un movimento di riforma “universalistica”, quel che più temono è la sua trasformazione in fattore rivoluzionario o destabilizzante: si pensi alle traversie dei movimenti socialisti ottocenteschi, antecedenti alla loro “costituzionalizzazione”. Mentre nel caso dei “movimenti espressivi” si tratta semplicemente di gestire una protesta confusa, in quello dei “movimenti di riforma” è in gioco la legittimazione del sistema stesso. Per semplificare al massimo: un contadino affamato si accontenta di un pezzo di terra, un operaio e un intellettuale rivoluzionari chiedono nuovi rapporti di proprietà e produzione.
Di qui due opzioni.
Prima possibilità: se tra le istituzioni (ad esempio governo e partiti), vi sono forze democraticamente flessibili e capaci di recuperare e “canalizzare” le richieste di “riforma”, allora il movimento può essere riassorbito e istituzionalizzato, attraverso la cooptazione politico-parlamentare dei capi del movimento stesso. Come è avvenuto storicamente con il movimento socialista.
Seconda possibilità: se, invece, prevale l’inflessibilità politica, allora il movimento o viene represso con la forza, mettendo nel conto, che la repressione può determinare, anche in tempi brevi, derive di tipo terroristico. In quest’ultimo caso il movimento di “riforma” rischia di trasformarsi in movimento integralista ( si pensi alla deriva nichilista, delle protesta sociale, nella Russia autocratica zarista).
E qui va fatta una precisazione. Il terrorismo è sempre difficile da contrastare “culturalmente”, non solo da parte del potere costituito, ma, paradossalmente, anche dagli stessi interessati: il terrorismo, come modello socioculturale implica in coloro che vi aderiscono il settarismo (tipico in tutti i gruppi sociali “marginalizzati”). Una forma di mentalità “chiusa” che rinvia alla tipologia sociale del “combattente politico”. Il quale finisce per “introiettare” la sua condizione “eroica” di deviante, e comportarsi esattamente, come ci si aspetta si comporti un “terrorista”. Insomma, secondo le aspettative sociali dell’ordine costituito. Non solo: il terrorismo esercita sui possibili nuovi “adepti” certo fascino romantico . Insomma, la devianza, in quanto tale, si trasforma in elemento identitario (negativo) e in modello (da imitare). E agisce da costante rinforzo psico-sociale, facilitando il reclutamento e l’integrazione individuale “al contrario”. E pur non essendovi, alcun meccanico rapporto causa-effetto, si può ritenere, semplificando al massimo, che il grado di devianza sia inversamente proporzionale al grado di emarginazione sociale ed economica (provata o percepita) del soggetto a rischio: quanto più è maggiore la sua integrazione sociale (anche grazie alla partecipazione democratica), tanto più è minore il pericolo che si trasformi in terrorista.
Tornando ora alla questione vicentina, riteniamo che i governi che si sono succeduti (di destra e sinistra), abbiano prima sottovalutato l’importanza della questione sul piano locale, e poi mal compreso l’iniziale natura “espressiva” del movimento sociale. Cosicché la protesta si è potuta facilmente trasformare in movimento di “riforma” sistemica (o “universalistica”). Ora molto difficile da gestire sul piano politico, anche per due ragioni tipicamente italiane.
In primo luogo, perché le profonde divisioni subculturali interne al governo di centrosinistra, riducono la sua flessibilità esterna. Per essere chiari: il conflitto tra le rispettive subculture (riformista e postmarxista), ogni volta, finisce per fare premio sulla cultura di governo in senso stretto. E, questo, in chiave oggettiva, a prescindere perciò dalla qualità o meno dei rispettivi “subprogrammi”.
In secondo luogo, perché le richieste vicentine di “riforma”, chiamano in causa - piacciano o meno - due fattori sistemici: la politica estera filoamericana dell’Italia e il rispetto dell’articolo 11 della Costituzione (finora aggirato grazie al sotterfugio delle “missioni di pace”). Un principio costituzionale, che pur avendo per alcuni puro valore retorico, resta comunque un elemento portante e “universalistico” del dibattito politico pubblico italiano. Di qui il dilemma davanti al quale si trova il governo di centrosinistra: fare marcia indietro, perdendo la faccia con gli Usa, oppure proseguire, rischiando però di esacerbare il conflitto politico e sociale.
Di certo, il sensazionalismo mediatico contro il pericolo terroristico e la catena di arresti, che stranamente ha preceduto di pochi giorni la manifestazione vicentina, non contribuiscono a rasserenare il clima. Stampa e televisione, in particolare, enfatizzano il rischio terroristico, senza analizzarne seriamente le cause. E, questo, in un’Italia in cui i partiti hanno scarsa presa sociale e dove la società civile procede tra alti e bassi.…
Ora, il clima è così compromesso, che potrebbero mettersi in moto quei meccanismi identitari e mimetici di cui sopra. Con quale risultato? Quello di rafforzare, in alcune frange socialmente ed economicamente deprivate, la convinzione “culturale” che ormai l’unica strada da percorrere sia quella del terrorismo. Il che sarebbe una vera sciagura per il movimento vicentino, per l’Italia e per la libertà di tutti.
Possibile che Prodi non si sia ancora reso conto di avere preso la strada sbagliata ?