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Le radici e l'albero. Un'ecologia coerente per affrontare la sfida della modernità

di Tarchi, Sermonti, Cardini, Bedini, Zarelli, Ripa di Meana - 28/07/2007

 

 

 
Quali sono le cause culturali del problema ambientale? E in quale direzione dobbiamo muoverci per recuperare un corretto rapporto con la Natura? Queste due domande, fondamentali per chi abbia a cuore l’ecologia, sono state al centro degli interventi nel convegno “Le radici e l’albero. Un’ecologia coerente per affrontare la sfida della modernità”, tenutosi l’11 maggio scorso a Lucca, nella splendida cornice della seicentesca Villa Bottini.
Organizzato da Fare Verde e dal Comune di Lucca, il convegno ha visto la partecipazione di relatori provenienti da esperienze culturalmente diverse, cui è stato chiesto di delineare le cause profonde che hanno portato l’uomo, in particolar modo quello occidentale, ad un uso insensato della natura, e, soprattutto, di indicare un credibile percorso alternativo. Filo comune degli interventi è stata la consapevolezza che gli attuali problemi ambientali non sono una mera accidentalità, dovuta a singoli errori umani o ad imperfezioni in un processo di progressivo miglioramento, ma, al contrario, il tragico esito scontato di un intero modello culturale, di cui alcuni miti (progresso, scientismo, individualismo, ecc) spesso riaffiorano nello stesso mondo ambientalista. “Le radici e l’albero”, appunto, nella convinzione che solo l’individuazione di quelle cause, ed il loro radicale superamento, potranno portare ad una coerente alternativa ecologista, capace, per usare la metafora richiamata da Fabrizio Vincenti, Presidente di Fare Verde, di far cambiar rotta, e non soltanto rallentare la corsa, al veliero che altrimenti andrà ad infrangersi sugli scogli.
 
Dopo il saluto del Sindaco di Lucca, Pietro Fazzi, i lavori sono stati aperti da Fabrizio Vincenti, Presidente Nazionale di Fare Verde, che, richiamando il carattere “fattivo” di Fare Verde, che, con le sue iniziative di volontariato, privilegia il “fare” e l’azione concreta, ha sottolineato come tale azione comunque vada inquadrata nell’ambito di coordinate culturali e di una coerente visione alternativa. La stessa scelta, ad es., del volontariato puro, che caratterizza  l’associazione dal primo all’ultimo degli iscritti, si inquadra in una più ampia adesione ad una visione antiutilitarista, che rifiuta, quale molla dell’agire umano, il calcolo dell’utile e della convenienza personale, preferendogli il libero donarsi e l’impegno gratuito.
A dettare, del resto, la necessità di approfondimenti culturali, afferma Vincenti, è proprio la complessità del problema ambientale, che è molto più ampio delle sole questioni strettamente correlate alla natura, e richiede invece un ripensamento a 360 gradi sul nostro stesso modello di sviluppo. A chi limita l’ecologia ad una mera “gestione dell’ambiente” cui far fronte con gli strumenti della scienza e della tecnica (un depuratore, la raccolta differenziata, la benzina “verde” ecc.), Vincenti ricorda la complessità dei problemi, e la drammaticità della situazione attuale, che impongono scelte ben più radicali. Si pensi, ad esempio, all’aumento dell’anidride carbonica, aumentata dal 1960 ad oggi del 17% (a fronte di un aumento del 13% dagli inizi della rivoluzione industriale al 1960), oppure alla cd. impronta ecologica (la quantità, cioè, di territorio consumato che un paese utilizza per far fronte alle proprie produzioni, ai propri consumi e allo smaltimento dei rifiuti), che negli Stati Uniti ha raggiunto un livello tale che se si volesse estendere a tutto il mondo il livello di benessere della società americana occorrerebbero 3 volte le dimensioni della terra: due esempi dai quali emerge chiaramente come sia impensabile confidare in semplici soluzioni tecniche, e come invece sia indispensabile rivedere il nostro modello di sviluppo.
Non si tratta di respingere in toto l’apporto della tecnica. Consapevole delle comode accuse che spesso vengono mosse al mondo ecologista, Vincenti respinge il ruolo dei visionari, di chi antepone soluzioni da libro dei sogni a soluzioni tecniche praticabili. La tecnica può sicuramente offrire alcune soluzioni a singoli problemi, ma l’esperienza e la gravità del degrado ambientale attuale dimostrano come sia impensabile credere che la tecnica sia sufficiente a rimediare ai guasti da essa creati. Ciò che va interrotta, denuncia il presidente di Fare Verde, è la perversa spirale in cui cade spesso la scienza, che prima, irresponsabilmente, produce nuove forme di inquinamento e poi si affanna a cercare soluzioni tampone, troppo spesso con scarsi esiti.
Fondamentale, quindi, è rivedere l’intero sistema, e con esso anche alcune convinzioni che sono alla base della nostra civiltà. Se ciò non avverrà, conclude Vincenti, il degrado sarà irreparabile. Ricorrendo ad una metafora, siamo come un veliero, che sta andando contro gli scogli ed è quindi destinato al naufragio; non basta che il comandante riduca la velocità, ricorrendo a tutti gli accorgimenti tecnici; per evitare gli scogli, sarà essenziale invertire la rotta.
 
Le coordinate per l’inversione di rotta sono state indicate da Alessandro Bedini, giornalista ed appassionato organizzatore del convegno. Con le sue “Riflessioni per un’ecologia profonda”, Bedini ha tracciato le linee guida per un coerente pensiero ecologista, di cui ha sottolineato la portata fortemente dirompente e rivoluzionaria rispetto ai dogmi della moderna società tecnoindustriale.
Sviluppatasi negli ultimi decenni in seguito alle preoccupazioni per il crescente degrado ambientale, l’ecologia ha avuto il merito di cominciare a seminare dubbi sulla bontà della crescita illimitata e sulla compatibilità tra logica del profitto e difesa dell’ambiente. Non sempre, tuttavia, ne sono state tratte tutte le implicazioni: in quell’indirizzo definito di “ecologia superficiale, non si mette in discussione l’attuale modello di sviluppo, che costituisce la causa principale del degrado ambientale, ma ci si limita ad accorgimenti tecnici, che si traducono in una sorta di diritto ad inquinare sottomesso a qualche penalità; fondata su una concezione antropocentrica (la natura è al servizio dell’uomo, e se va protetta è perché un eccessivo degrado andrebbe contro gli interessi umani), tale ecologia sostiene l’ipotesi del cd. “sviluppo sostenibile” e mira a conciliare la preoccupazione ecologica con l’industria ed il mercato.
Ben più radicale è invece l’indirizzo definito di “ecologia profonda”, teorizzato da studiosi come Arne Naess, Alan Drengson, Bill Devall, George Session, che, partendo da una concezione biocentrica (l’uomo appartiene alla natura, ed è legato da un rapporto di interdipendenza con ogni forma di vita), non si accontenta di determinare limiti di inquinamento sopportabili ma mira a riordinare il rapporto uomo-natura, sottraendolo alla mera strumentalità. L’ecologia profonda, ricorda Bedini, agisce sulle cause, anziché sugli effetti, e in tale ottica presuppone una gerarchia di valori radicalmente alternativi a quelli attuali dell’utilitarismo, dell’individualismo, del produttivismo, proponendo uno stile di vita profondamente diverso da quello imposto dalla società consumistica.
Nella consapevolezza che la qualità della vita sia data dall’armonia con le altre forme viventi, e non dalla quantità di beni posseduti, l’ecologia profonda ripropone il fondamentale concetto di “autolimitazione”, il passaggio, cioè, citando Alexander Langer, “dalla logica del più alla logica del meno”, ed il rifiuto di concepire lo sviluppo in termini di mera crescita materiale, la quale crea piuttosto dipendenza, alienazione, rinuncia ad essere sé stessi. In opposizione all’odierna società consumista, Bedini auspica una società della sobrietà, parsimoniosa nell’uso delle risorse e che sappia “valorizzare, rispettare e migliorare ciò che la natura ci offre come dono della creazione”.
Convinta che rispetto dell’ambiente e l’ossessiva ricerca di redditi e profitti sempre maggiori non possano coesistere, l’ecologia profonda implica quindi soluzioni ben più radicali che il semplice ricorso a depuratori, filtri, o altri palliativi forniti dalla tecnica. E’ necessaria una vera inversione di valori, un cambiamento di logica che deve avvenire innanzitutto dentro di noi (“l’autolimitazione – ricorda Bedini – non può essere imposta per legge”).
Le implicazioni di tale inversione sono notevoli. Va innanzitutto recuperato il primato della politica sull’economia, con tutto quello che questo comporta. All’individuo passivo consumatore, che insegue bisogni artificialmente indotti dal bombardamento pubblicitario (che crea, per dirla con Jean Braudrillard, un “sistema degli oggetti” sempre più lontano dalle autentiche necessità degli uomini) deve sostituirsi il cittadino partecipe, attivamente inserito all’interno delle proprie comunità. Lo strumento è la democrazia partecipativa, fondata non sulla delega ma, appunto, sulla piena partecipazione, che sviluppa il senso di appartenenza e quindi la ricerca del bene comune; richiamando Alain de Benoist, la democrazia partecipativa “deve fondarsi non su pretesi inalienabili diritti dell’individuo senza appartenenze ma sulla cittadinanza, che sancisce l’appartenenza ad un popolo – vale a dire a una cultura, ad una storia, ad un destino – e all’unità politica nella quale questo si dà forma … Al principio egualitario astratto “Un uomo, un voto” bisogna sostituire il principio realistico e concreto: “un cittadino, un voto”.
La valorizzazione del senso di appartenenza (un senso “innato in ciascun essere umano”) porta al recupero dei legami sociali e di quella “cultura del quotidiano” grazie ai quali le persone si sentono parte della loro comunità e non sono più anonimi individui, atomi consumanti sempre più soli. Quale freno ai processi di spersonalizzazione e di omologazione dei costumi, Bedini sollecita un impegno in difesa delle lingue, delle culture minoritarie e regionali, delle patrie locali a misura d’uomo. Da superare, in tal senso, è lo Stato nazionale, incentrato su strutture ipertrofiche e centralizzate, mentre massima applicazione va data al principio di sussidiarietà, che può valorizzare, culturalmente e istituzionalmente, le piccole patrie.
Richiamando Goldsmith, per cui lo scontro tra economia globale ed economia locale sarà la questione centrale del XXI secolo, Bedini sostiene un approccio localista anche a livello economico. La globalizzazione porta con sé una gestione predatoria delle risorse della terra, l’aumento del divario tra paesi ricchi e paesi poveri, la fine delle comunità, la perdita di controllo dei cittadini sulle proprie vite. Di contro, le economie locali rispettano l’ambiente, rafforzano i legami interpersonali, consentono il controllo dei cittadini sui prodotti e sulla produzione. In tal senso, l’ecologia è una cultura allo stesso tempo conservatrice e rivoluzionaria: conservatrice perché intende difendere la socialità organica, i contesti di vita tradizionali, le specificità culturali e la biodiversità; rivoluzionaria perché rompe con la logica del capitalismo e del mercato, oggi dominante. Bedini richiama il principio ghandiano dello swadeshi, per cui ciò che viene prodotto nel villaggio va utilizzato dai suoi abitanti. Non si tratta, precisa Bedini, di eliminare gli scambi ed il commercio, ma di riportarli alle giuste dimensioni. “Il benessere è necessario – diceva Ghandi – ma oltre un certo limite diventa un ostacolo”. Va riacquistato “il senso del luogo”, il che significa, come spiega Helena Norberg-Hodge, “osservare con attenzione e partecipazione l’ambiente che ci circonda, capire l’origine di quello che mangiamo, imparare a riconoscere i cicli stagionali, le piante, gli animali. Si tratta di un risveglio spirituale, che presuppone un legame con la Madre Terra e con ogni organismo vivente”.
Quella ecologista è una cultura post-materialista, che può riunire ciò che è stato arbitrariamente separato: corpo e anima, materia e spirito, l’uomo ed il resto dell’universo. In tal senso essa si contrappone tanto al liberalismo economicista quanto al prometeismo marxiano, entrambi figli dello stesso sistema, fondato sul primato della produzione e sulla concezione del benessere in termini di mero possesso di beni materiali. Sul piano politico essa determina il superamento delle categorie di destra e sinistra, in quanto pone, come linee di confronto politico, dialettiche nuove, quali produttivismo / antiproduttivismo, essere / avere, quantità di beni / qualità della vita, sulle quali le tradizionali ideologie appaiono insufficienti.
L’ecologia, basilarmente, mette in discussione l’idea stessa di progresso, e l’insensato ottimismo verso un futuro modellato dalla tecnoscienza. A chi ancora si illude dietro il mito del progresso, Bedini ricorda la drammaticità dei problemi ambientali (la desertificazione, l’effetto serra ed i mutamenti climatici, la riduzione della biodiversità, la crisi di acqua potabile) e richiama l’osservazione di Hans Jonas, per cui “la vera minaccia che la tecnologia fondata sulle scienze naturali porta con sé non consiste tanto nei suoi strumenti di distruzione quanto nell’uso pacifico che se ne fa quotidianamente”.
L’auspicio finale di Bedini è che, per dirla con Le Goff, al tempo del mercante, tempo-danaro misurabile ed omogeneo, succeda il tempo della chiesa, ciclico, liturgico, soggetto all’uomo. Un tempo che torni anche ad essere tempo festivo, consacrato e tempo di gioia.
Se l’intervento di Bedini ha tracciato le linee generali, una sorta di manifesto, per un’alternativa coerentemente ecologista, i successivi relatori hanno approfondito, ciascuno nel proprio settore, l’argomento.
 
Intervenendo su “Il movimento verde di fronte alle nuove sfide politiche”, Marco Tarchi, ordinario di Scienza della Politica all’Università di Firenze e direttore delle riviste di cultura politica Diorama Letterario e Trasgressioni, ha analizzato gli sviluppi del discorso ecologista sul piano politico, evidenziando, in particolare, gli errori commessi dai vari partiti “verdi” ed indicando le strategie per il loro superamento. Un’analisi, quella di Tarchi, non solo attenta sul piano scientifico ma anche personalmente appassionata, visto che ormai da almeno 15 anni il professore fiorentino ha fatto della riflessione ecologista uno dei perni del suo pensiero.
Richiamando l’indirizzo di ecologia profonda sostenuto da Bedini, Tarchi ne sottolinea innanzitutto la portata alternativa, realmente rivoluzionaria, rispetto alla società in cui viviamo e alle credenze su cui essa si fonda. Tale drastica cesura fa sì che se da un lato molte delle preoccupazioni espresse dagli ambientalisti possono essere condivise dalla gran parte delle persone, dall’altro, superato il livello della partecipazione emotiva, esse hanno un’eco profondamente impolitica: il passaggio “dalla logica del più alla logica del meno”, la riduzione dei bisogni, la prospettiva di comunità politiche che decidono, ghandianamente, di produrre per sé e non per un’eccedenza (tanto per citare alcuni passaggi della relazione introduttiva) non costituiscono, per i più, una meta da raggiungere, o almeno un sogno, ma, al contrario “un incubo”: l’incubo del ritorno all’indietro e dell’abolizione delle conquiste del progresso.
La situazione, sottolinea Tarchi, è paradossale: da un lato c’è una concordia generale, seppur superficiale e generica, sulla necessità di fare qualcosa per l’ambiente, grazie anche all’ecologismo politico e culturale che ha fatto comprendere a tanti l’importanza della questione ambientale; dall’altro, tuttavia, ogni proposta “forte” di modifica di quel modello di sviluppo che è il responsabile del degrado ambientale è caduta inesorabilmente. Due esempi, fra i tanti, lo confermano: a Gela, l’intera cittadinanza è scesa in piazza per opporsi alla chiusura di uno stabilimento riconosciuto altamente nocivo per la salute degli stessi cittadini; nel caso di Porto Marghera, allo sgomento per la sentenza assolutoria, sono seguiti comunque commenti sull’impossibilità di fermare la produzione, la ricchezza, le ragioni dell’economia. In entrambi i casi, quando si è scesi sul terreno concreto dello scontro di interessi, le istituzioni, ma anche l’individuo comune, hanno parlato il linguaggio della produzione anziché quello dell’ecologia.
Il problema, chiarisce Tarchi, sta tutto qui: nell’incapacità di calare la sensibilità ambientale oltre la pura sfera emotiva, oltre il semplice dispiacere per le sofferenze di un animale o per le stagioni che sono più le stesse, senza alcuna messa in discussione del nostro stile di vita.
Da studioso della politica, Tarchi analizza tale nodo in maniera scientifica. Rileva come tra le regole della politica ci sia quella per cui le scelte, l’adesione ad uno schieramento (l’individuazione della contrapposizione schmittiana amico/nemico) avvengono esclusivamente sulla base di cleavages, cioè di fratture socio-culturali, punti di scontro ritenuti fondamentali, che inducono Tizio a schierarsi da un lato e Caio dall’altro. La comparsa dei Verdi negli anni ’70 e ’80 sembrò prefigurare l’emergere di un nuovo cleavage, un conflitto politico tra chi riteneva essenziale un corretto rapporto uomo-natura e la qualità della vita e chi, invece, riteneva che il degrado ambientale fosse un prezzo che valeva la pena di pagare per il benessere quantitativo e consumistico.
Tale previsione, in realtà, si è dimostrata non vera, in quanto i Verdi hanno rinunciato ad assumere fino in fondo, in maniera intransigente, una prospettiva ecologista ed hanno optato per un riformismo debole, tradendo di fatto la loro ragione di esistere. Il risultato è che un po’ in tutta Europa, i partiti verdi si sono ridotti ad assicurare la sopravvivenza a ridotte classi di politici ma non hanno avuto alcuna incidenza in senso ambientale, neanche quando sono stati al governo nei singoli paesi; anzi, si sono ridotti ad una posizione di subalternità, sia quando hanno avuto incarichi istituzionali (vedi l’allineamento alle recenti guerre volute dagli USA) sia su un punto cruciale quale quello della globalizzazione, dove, pur facendo parte del cd. movimento no-global, i Verdi sono al carro delle altre componenti.
L’errore fondamentale dei partiti Verdi è stato quello di farsi intimorire dall’accusa di fondamentalismo che le altre forze politiche, l’establishment intellettuale e i poteri economici riservano a chi si oppone all’attuale modello di sviluppo. E di non capire che invece il problema andava “drammatizzato”. Da studioso della politica, Tarchi ricorda come concetti fondamentali quali la “cultura del limite” possano far presa nelle masse soltanto in un caso: di fronte alla paura. Ma la paura, avverte, non può essere spesa in forme riformistiche e moderate (come ben sanno i leader populisti, che su altre tematiche insistono sulla “drammatizzazione” dei problemi). I Verdi avrebbero dovuto convincere l’elettorato dell’importanza della posta in palio, della necessità della loro battaglia, della gravità delle situazioni ambientali; optando per i discorsini riformisti, essi hanno annichilito il loro potenziale.
La strategia possibile è una sola: i movimenti verdi devono dotarsi di un’identità forte, coerente ed anche aggressiva, capace di convincere l’opinione pubblica sull’essenzialità delle tematiche da loro proposte, senza compromessi e debolezze. E’ un consiglio, quello di Tarchi, da studioso della politica; ma è anche il sentito auspicio di una coscienza disposta ad impegnarsi in tale sfida.
 
Con il prof. Giuseppe Sermonti, ordinario di Genetica all’Università di Perugia e scienziato di fama internazionale, l’analisi si sposta al mondo della scienza, di cui vengono rilevati due diversi approcci rispetto alla natura: quello darwiniano, fondato sul caso e sulla sopraffazione, e quello non darwiniano, fondato sull’ordine e sull’armonia.
Sermonti parte dal legame uomo-natura: a quanti, anche nel mondo ambientalista, vedono la presenza umana come un fattore contaminante, il biologo eccepisce l’apporto non necessariamente distruttivo, ma anche costruttivo dell’uomo, con creazioni anche artistiche (i giardini, i parchi, i filari di alberi ecc.) in cui gli uomini ritraggono il bello della natura. Anche l’agricoltura, lungi dall’essere solo sfruttamento, è nata metafisicamente come celebrazione della natura, “celebrazione del mistero della rinascita, del mistero del seme interrato che muore e ridà nuova vita”, ricorda Sermonti citando l’insegnamento dello studioso del sacro Mircea Eliade. Non a caso la prima agricoltura è quella tombale, dove le piante coltivate sulla tomba rappresentano il morto che si rigenera e fiorisce.
C’è, insomma, nell’uomo una tendenza a comprendere l’essenza della natura e a riplasmarla, per viverci meglio. Un tale approccio mira all’individuazione delle leggi, dei principi ordinativi che regolano la natura. Leggi ordinative che, tuttavia, la concezione scientifica oggi dominante tende ad escludere.
Il darwinismo, infatti, pone a fondamento di tutto due elementi: il caso, che mette insieme le cose, e la selezione naturale, che elimina ciò che non funziona. La natura darwiniana, precisa Sermonti, è tutt’altro che ordinata: “è un mondo di mostri prodotti dal caso in cui poi interviene la selezione che censura quelli che non sanno cavarsela e mantiene gli altri”. La concezione che ne deriva è una concezione fondata sulla sopraffazione, sulla prevalenza dei più forti sui meno capaci (tra le tesi di Darwin, ricorda Sermonti, c’era anche quella della competizione tra le razze umane, e la previsione che le razze superiori avrebbero sterminato quelle inferiori). Inevitabile che l’uomo sia arrogante con la natura, visto è la specie meglio riuscita, se non altro perché ha assoggettato tutte le altre.
Peggio ancora accade con la più recente scienza, quella delle manipolazioni genetiche. Essa dà ormai per superata la stessa evoluzione naturale, sostituita dall’ingegneria genetica, dalla capacità di creare le specie direttamente in laboratorio. Se l’evoluzione naturale, procedendo in base al caso, ci ha messo miliardi per creare questo mondo, gli scienziati biotecnologici promettono faville, assicurando nel giro di pochi decenni risultati ben superiori ai risultati della povera natura, fino alla nascita di un uomo senza malattie e che non conoscerà più la morte. L’uomo, già arrogante perché era il migliore prodotto della natura, diventa ancora più arrogante, e crede di potersi sostituire, con i suoi esperimenti in laboratorio, alla natura stessa.
Un’arroganza ridicola, sentenzia Sermonti, anche perché nonostante gli enormi investimenti (ormai la scienza è ridotta ad un’impresa) i risultati delle manipolazioni genetiche continuano ad essere nulla rispetto alle costruzioni meravigliose che la natura o Dio hanno fatto.
Sfidando il conformismo del potere darwiniano (una sfida che costa la marginalità e la carriera nel mondo scientifico) Sermonti ha denunciato la “grande menzogna” della concezione darwiniana, contrapponendo ad essa (insieme ad altri scienziati di tutto il mondo, che hanno costituito il cd. Gruppo di Osaka per lo strutturalismo) una concezione della natura retta da principi ordinativi. “Chi ha stabilito tali principi – precisa il biologo – noi non lo sappiamo. Li riconosciamo però nella natura, ed essere scienziati vuol dire riconoscere questi principi, non negare che essi esistano col timore che la natura, con questi principi, sia una natura ordinata, e quindi al di sopra di questo ordine ci sia qualcosa”.
Non sopraffazione, quindi, ma ordine, che risponde ad un concetto estetico di bello. Scopo dello scienziato, conclude Sermonti, è cercare quest’ordine, e con esso il bello, il rispetto, la simbiosi, la cooperazione, che regolano la natura. Un discorso a favore di una vita semplice e parsimoniosa, non fondata sulla competizione; un discorso, in un mondo fatto di prepotenza, che è rivoluzionario, come rivoluzionario fu il messaggio del Cristo e di San Francesco.
 
Già portavoce dei Verdi e ministro dell’Ambiente nei primi anni ’90, oggi consigliere regionale verde in Umbria, Carlo Ripa di Meana ha portato il suo contributo di ambientalista concretamente impegnato nelle istituzioni, evidenziando dall’interno i limiti strategici dei partiti verdi, appiattiti su posizioni di ecologia superficiale.
Dopo aver rivendicato, in risposta alla prospettiva metapolitica indicata da Bedini, l’opportunità di fare politica nelle istituzioni rappresentative, Ripa di Meana ha tracciato un desolante bilancio della partecipazione dei partiti verdi al governo in tre grandi nazioni, Francia, Germania e Italia, evidenziando come gli ambientalisti non siano stati in grado di dettare i loro temi, e siano riusciti ad ottenere solo minimi risultati ambientali; in compenso, ricorda polemicamente Ripa di Meana, hanno appoggiato la guerra contro la Serbia, grazie al cd. “diritto di ingerenza umanitaria”, che è stato inventato proprio da due verdi, il ministro degli esteri tedesco Fischer e il francese Alain Cohn-Bendit. In Italia, in particolare, il bilancio di 5 anni di verdi al governo può essere riassunto in tre punti: il decreto Ronchi sui rifiuti, le domeniche ecologiche, l’eliminazione dell’eco-mostro del Fuenti (per tacere della rottamazione, dove l’ecologia era soltanto un pretesto): un bilancio esiguo, frutto di un verdismo banalmente riformista, e della rinuncia a quel conflitto forte indicato da Tarchi quale unica strategia vincente.
Ben altre erano le prospettive che Ripa di Meana proponeva ai Verdi. Il riferimento è alle “7 tesi per cambiare i Verdi (e la vita)”, redatte nel 1999 con Laura Marchetti, Franco Russo ed altri, e che indicavano un percorso politico e culturale ben più radicale. In esse veniva respinta la prospettiva riformista e l’ecologia veniva indicata come “una critica radicale del sistema, un progetto utopico di cambiamento olistico”, che avrebbe assoggettato l’economia (e non viceversa, secondo lo “slogan illusorio dello sviluppo sostenibile”), proponendo culturalmente il bioumanesimo “come principio fondativo e ricompositivo dell’istruzione e del sapere”, il quale riconosce alla natura e alla vita un valore in sé. Una prospettiva biocentrica, radicalmente alternativa allo sviluppo sostenibile e al cd. capitalismo verde, che non è passata tra i Verdi ed i cui proponenti, a distanza di due anni, si sono dispersi in altre direzioni, sottolinea Ripa di Meana, quasi a voler rimarcare le difficoltà insuperabili vissute all’interno del partito verde.
Anche nella recente battaglia per la tutela del paesaggio, l’ex ministro denuncia la timidezza e la non radicalità di molti ambientalisti. Il caso è quello delle “piantagioni” di pali eolici, vere e proprie torri che superano le misure dell’altezza della Basilica di San Pietro, e che già caratterizzano, ovviamente in negativo, i rilievi dell’Appennino centro meridionale (oltre 1.200 impianti sono presenti sulle colline abruzzesi, molisane, pugliesi e campane) e che con ogni probabilità caratterizzeranno anche gli altri paesaggi (la previsione è di circa 8-10 mila impianti un po’ in tutta Italia). Rivendicando l’immenso valore della natura selvaggia ed incontaminata, Ripa di Meana ha avviato una campagna per la conservazione del paesaggio, che tuttavia incontra incomprensioni in molti ambientalisti, per cui il paesaggio è un fattore secondario rispetto all’inquinamento e alla tutela della salute.
E’ questa la debolezza del movimento ecologista, che ha perduto una forte ispirazione e una forte messa in discussione degli impianti tecnoindustriali.
 
Il perché ed il come, sul piano storico, l’uomo sia giunto all’attuale rischio di collasso ambientale è stato spiegato dal prof. Franco Cardini, ordinario di Storia del Medioevo all’Università di Firenze, con un appassionante intervento su “Culture e tradizioni, per un’ecologia della storia”.
Nell’analizzare il rapporto uomo-natura presso le varie culture, Cardini sottolinea innanzitutto l’esistenza di una tendenziale omogeneità, fondata sul comune denominatore, da un lato, di un profondo rispetto verso la natura, e dall’altro, della consapevolezza che la natura non è amica, ma semmai, per dirla con Leopardi, indifferente. Anche nelle tante culture tradizionali che considerano la natura come una madre, essa è piuttosto una madre-matrigna, una madre terribile (la dea Kalì può ben rappresentare l’idea) che assiste immota alla tragedia dell’uomo che cerca di vivere in essa. In effetti, il rapporto con la natura è stato, per secoli, di durezza: l’uomo ha dovuto combattere per affermare il proprio diritto all’esistenza. Finché, negli ultimi due secoli, ed in particolare negli ultimi decenni, la natura non è stata sconfitta. Da spettatrice indifferente alle difficoltà degli uomini la natura è diventata possibile vittima. E gli uomini sono passati dalla condizione di figli che devono lottare contro una madre matrigna alla condizione di padroni, di figli che potrebbero anche strangolare la propria madre, con la particolarità, non da poco, che al matricidio corrisponderebbe il suicidio collettivo.
Come si sia arrivati a questo punto, Cardini lo spiega individuando quelle “eccezioni” al cammino della storia (un cammino che non ha un senso, che avviene per epoche di ristagni e di riprese, precisa lo storico smentendo la vulgata del progresso e della storia lineare) che hanno visto il successo dell’attuale cultura occidentale su tutte le altre.
La prima eccezione è quella che ha portato la civiltà mediterranea a prevalere sulle altre. La storia insegna che le civiltà più complesse sono nate intorno ai mediterranei, intorno a quei bacini (il Mediterraneo propriamente detto, i Caraibi, il mar della Cina e del Giappone, anche l’Oceano Indiano, che il regime dei monsoni, facilitando le comunicazioni, ha reso un “mare interno”) abbastanza miti dal punto di vista climatico e che potevano ospitare culture diverse, comunicanti tra loro ma anche sufficientemente differenziate in rapporto al territorio occupato. Tra questi, è il Mediterraneo che è stato il più fecondo, originando culture che avrebbero finito per prevalere sulle altre.
La seconda eccezione è quella abramitica, che rompe l’elemento immanente e mitico. Le varie culture che si sono succedute, ricorda Cardini, avevano in comune, religiosamente parlando, il carattere dell’immanenza. Il sacro, cioè, era qualcosa contenuto all’interno della natura, non vi era un salto di qualità tra gli uomini, la natura e gli dei, ma il tutto faceva parte della stessa realtà cosmica. Gli dei erano presenti nello stesso mondo degli uomini, anche se ad un livello diverso, in un rapporto di analogia. Alla base di tutto c’era il mito, l’evento paradigmatico fuori del tempo storico (in illo tempore) che continua ad agire nella realtà umana, rivitalizzato attraverso il rito, che consente il ritorno all’origine. Una struttura immanente, afferma Cardini, cui sembra naturalmente predisposta la natura umana, quando parla delle realtà invisibili.
Eppure, all’interno di un mondo fatto di culture religiose di tipo immanente, nasce, tra i popoli nomadi discendenti di Abramo, una cultura di tipo diverso, trascendente, con un Dio che si pone al di fuori della natura, che anzi ne è il creatore e padrone assoluto, e che fa un patto con l’uomo. In maniera del tutto nuova, tale Dio si pone al di sopra di tutti gli altri, elimina tutte le divinità della natura facendole diventare demoni, non si confina nel mito ma entra lui stesso nella storia. E’ questa l’eccezione abramitica, il passaggio da un sacro immanente ad un Dio trascendente che  – mistero della storia – non si limita ad essere il Dio di poche migliaia di nomadi del deserto ma riesce a diventare il Dio maggioritario nel mondo, e diviene addirittura il canone stesso del modo di concepire Dio anche presso il mondo laicizzato
Ed ecco la terza eccezione: il dominio del mondo da parte dell’Occidente e della sua cultura. Dall’eccezione abramitica nascono le tra grandi religioni monoteiste dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islamismo, che dominano il Mediterraneo. Dal tredicesimo secolo, l’occidente comincia a dominare il mondo, grazie ad una serie di eccezioni, a partire dall’inversione del rapporto domanda-offerta nel commercio. Tutte le culture, ricorda Cardini, si sono sempre fondate sullo scambio, il quale si regge sull’equilibrio tra domanda ed offerta. A dettare questo equilibrio è stata la domanda, cioè il bisogno degli oggetti. Almeno finché, nel medioevo, i mercanti toscani (a loro il triste merito) non hanno avviato una rivoluzione apparentemente piccola, ma profondissima: produrre più di quanto serva agli altri, ma convincerli che ne hanno bisogno. Una piccola cosa, apparentemente, ma che ha prodotto risultati enormi, e che è la molla che ha portato l’Occidente a cercare la conquista del mondo: nulla è più sufficiente, nulla è superfluo, abbiamo bisogno di tutto. Una rivoluzione, sottolinea Cardini, cristianamente empia, capace di azzerare il Vangelo, che invece invita a dare ai poveri il superfluo (ecco perché, ricorda lo storico fiorentino, i nostri ricchi mercanti non si sono mai sentiti con l’animo in pace, e sapendo di essere peccatori, hanno ben pensato di riempire le chiese cattoliche di magnifiche opere d’arte).
C’è un’altra eccezione, tipicamente occidentale, ed è quella della teoria dei diritti umani. L’Occidente, ricorda Cardini, ha inventato questo concetto, rappresentandosi un’umanità piena di diritti ed ha insegnato tali diritti al mondo, anche a coloro che non ci pensavano, che vivevano anche senza. Sulla scia delle proprie lotte intestine, è arrivato a maturare anche il concetto di tolleranza, di rispetto delle altre culture, che è un fatto nuovo, in quanto tutte le altre culture, dall’impero della Cina all’ultimo villaggio africano, si sono rappresentate sempre in termini esclusivi, o comunque di centro del mondo. Eppure – l’eccezione è un paradosso – la cultura occidentale è quella che ha finito per dominare il mondo. “Abbiamo elaborato un sistema che ci permette di rispettare tutte le altre culture, mentre le altre culture non lo hanno mai fatto, e al contempo abbiamo esercitato il dominio sopra gli altri”, nota Cardini (è lo stesso paradosso che sta alla base del disprezzo con cui vari ultrà della cultura occidentale – la Fallaci, Floris D’Arcais, ad esempio – guardano alle culture dei popoli diversi, non riconoscendo loro neanche la dignità di culture).
Nonostante insegnassimo tolleranza e diritti umani agli altri popoli, abbiamo conquistato il mondo, ne abbiamo preso le risorse, le materie prime e la forza lavoro, portando in cambio (in uno scambio ineguale) la nostra cultura, la democrazia formale ed i diritti umani. Lo abbiamo fatto perché abbiamo bisogno anche delle risorse altrui, perché, soprattutto abbiamo perso il concetto del limite, della restrizione tra il fine ed i mezzi. La produzione, la ricchezza, la scienza, non sono più strumenti per migliorare la vita dell’uomo, ma sono diventati fini in sé, realizzando la profezia del Faust: “io sono lo spirito che vuole continuamente il male e che persegue continuamente il bene”.
Il problema è che, se, ancora nel secolo scorso, potevamo illuderci sull’abbondanza delle risorse, oggi non è più così, e sappiamo (sebbene ci sia ancora qualche scienziato o politico disposto a negarlo) che il petrolio, le foreste, le acque e persino l’aria non sono più infiniti. Stiamo esaurendo le risorse, proprio ora che anche gli altri popoli le reclamano: siamo riusciti talmente ad affermare la nostra cultura, che anche gli altri popoli del mondo vogliono diventare come noi, convinti della bontà del nostro modo di vivere, di consumare, di far profitto, di sprecare. E non basterà conquistare l’Afghanistan per assicurarsi il controllo del petrolio dell’Asia Centrale. E’ necessario ridistribuire le ricchezze, per evitare che nascano altri Bin Laden, ma è anche necessario rivedere il nostro modo di produrre, rapportandolo ad una natura che è limitata.
E’ questa, conclude Cardini, la grande sfida che attende l’Occidente. Abbiamo il dovere morale, noi che abbiamo sperperato le ricchezze del mondo e che abbiamo insegnato il nostro stile di vita agli altri popoli, di far capire che, se non ci limitiamo tutti, tutti finiremo in rovina. Noi dobbiamo ridurre i nostri consumi, gli altri devono passare dalla povertà al nostro stesso regime. Dobbiamo recuperare il concetto del limite, e condividerlo con gli altri popoli, riattingendo a quei valori ancora presenti nelle culture tradizionali. Se questo non avverrà, l’Occidente perderà la sua ultima battaglia, e purtroppo la farà perdere a tutto il mondo.
 
Intervenendo su “Le piccole patrie di fronte alla sfida della modernità”, Eduardo Zarelli, direttore della Arianna Editrice (una piccola casa editrice che sta svolgendo una pregevole opera di diffusione di validi testi sull’ecologia) ha fornito un interessante approfondimento sulla concezione localista, in contrapposizione, per dirla con Serge Latouche, alla megamacchina, l’attuale organizzazione sociale globalizzante e spersonalizzante.
Il localismo, afferma Zarelli, “è il normale modo di vedere dell’uomo: vista limitata, sensi limitati, possibilità di spostamento e di conoscenza limitate”. Ogni individuo e ogni popolo hanno scoperto il mondo circostante a poco a poco, procedendo per cerchi concentrici, nel rispetto di valori profondamente radicati nell’animo umano: la comunità (la consapevolezza di appartenere ad un gruppo, all’interno del quale si svolge l’avventura della vicenda umana), la vita (la consapevolezza che il cosmo ha un senso, un’intelligenza, una sacralità di cui siamo parte), la natura (che è viva, animata, parte del cosmo e non semplice materia). L’attaccamento dell’uomo alla sua comunità, alla natura, al suo territorio, è un modo di pensare ecologico per eccellenza, rende l’uomo consapevole di essere parte di un tutto, lo mette a confronto con il concetto del limite. Per millenni l’uomo, legato al territorio, si è confrontato con il limite, ed è riuscito a rinnovarsi restando attento a non superare i limiti demografici, quella che oggi chiameremmo impronta ecologica.
La modernità, continua Zarelli, è riuscita a compiere questo “prodigio”: ci ha atomizzati e privati di una comunità nel cui grembo svilupparci; ha mercificato ogni aspetto della nostra vita, compresi il tempo, la creatività, i rapporti umani; ci ha distaccati dalla natura, indicandocela come inanimata, pura materia e quindi merce, trasformando le foreste in metri cubi di legname, gli animali in prodotti agricoli. Ha rotto il legame con il territorio, sostituendolo, tramite la globalizzazione, con uno spazio infinito e virtuale, lontano dai nostri sensi e dalla nostra vita.
La modernità ha compiuto la violenza, ecologica ed antropologica, di distruggere il concetto stesso di limite, rimovendolo dalla nostra vita e contrapponendogli la visione lineare della storia come continuo progresso, crescita, sviluppo. Un progresso che in realtà è solo materiale, e che anzi spesso è un regresso sul piano sociale: i bambini che oggi vivono rovistando nelle bidonville di Città del Messico, prima dello “sviluppo”, mangiavano tortillas nelle loro capanne e giocavano sporcandosi di terra. In un solo campo il progresso è evidente ed indiscutibile: nella moltiplicazione dei consumi e delle merci. In compenso, ricorda Zarelli, il patrimonio di conoscenze tradizionali, di varietà culturale e biologica, si è inestimabilmente ridotto, come anche la nostra capacità di sopravvivenza: dipendiamo dalla tecnologia per il soddisfacimento di qualunque bisogno primario, ed essa crea di continuo nuovi bisogni di cui prima non avvertivamo la necessità.
Contro la megamacchina, ricorda Zarelli, non contano le false contrapposizioni, come quella destra / sinistra, che costituiscono semplici varianti del pensiero unico occidentale, e di cui la megamacchina si alimenta per gestire le proprie fasi alterne di sviluppo e contrazione. L’unico modo per uscirne è riacquisire il legame con il territorio e con le comunità locali, tornare ad essere “abitanti della nostra terra, anziché virtuali cittadini del mondo”. E’ questo il senso della prospettiva glocalista, che vede il mondo come una “somma di realtà locali”, anziché come un unico villaggio globale.
Non esiste, quindi, una “globalizzazione buona”, diversa da quella cui assistiamo, e da auspicare. Ogni pretesa globalizzante è funzionale alla megamacchina, ci sradica dal nostro territorio e dalle nostre comunità, distrugge la diversità culturale, prepara il terreno all’avvento del “pensiero unico”. Riferendosi ad alcuni temi che caratterizzano il cd. movimento no-global, Barelli ricorda che si deve mirare alla globalizzazione dei diritti, o all’affermazione dei diritti dei migranti, ma all’affermazione opposta del “diritto di ognuno di starsene nel proprio luogo, nella propria terra, da padrone, con i propri diritti, la propria cultura, e senza essere rapinato, educato, acculturato all’occidentale”. Non va chiesto alla Banca Mondiale di rimettere quote del debito dei paesi poveri; vanno convinti quest’ultimi a non pagarlo. Bisogna uscire completamente dalla logica della megamacchina. E’ l’unico modo, conclude Zarelli, per evitare di finire a schiantarci insieme con il treno della globalizzazione.
 
La conclusione del convegno è stata affidata ad una figura storica dell’ambientalismo italiano, Giannozzo Pucci, con una relazione su “Ecologia, etica e comunità”, che ha sottolineato la necessità di dare un fondamento “forte”, appunto etico, alla proposta ecologista.
Con rammarico, Pucci ha ricordato come da anni nel movimento ecologista siano mancate occasioni come il convegno di Fare Verde per un vero dibattito culturale, il che spiega il vuoto di cultura verde ed il pedissequo allineamento dei rappresentanti ambientalisti su altre ideologie, che proprio l’emergere della cultura ecologista sembrava aver ormai superato.
La mancanza di approfondimenti culturali ha fatto sì che sia prevalso nel mondo verde un atteggiamento simile a quello delle ideologie ottocentesche, fondato sul presupposto che tutto il passato era sbagliato e che viceversa la soluzione fosse in una nuova ideologia capace di governare il mondo in modo diverso, in un programma politico differente.
Tale concezione è errata, afferma Pucci, in quanto il problema ecologico ha le sue radici nella tradizione culturale più profonda, nell’eredità vitale del popolo. E’ su tali radici che bisogna lavorare, recuperandole e liberandoci da quel complesso di provincializzazione che ha portato - come ricordava anche Cardini – l’uomo occidentale, unico tra tutti i popoli, a non sentirsi “centro della terra” ma a cercare sempre qualcosa di diverso, tradendo le sue radici e facendosi imprigionare dalla ricerca della modernità.
Non basta, quindi, fare delle manipolazioni genetiche (o dei tanti altri problemi ambientali) una battaglia politica: il problema deve entrare nell’etica dell’intero popolo, nella concezione corrente del bene e del male, nelle scelte delle persone. Una scelta, potremmo dire, metapolitica, dove ciò che conta non è il successo di un partito che si faccia unico interprete di tali tematiche, né il rischio di rimanere minoranza politica, ma l’adesione generalizzata delle coscienze al tema.
Del resto, l’uomo ha in sé la capacità di distinguere il bene: citando San Tommaso, Pucci ricorda che “l’uomo ha in sé la conoscenza dell’aria e della natura prima ancora della parola”. Il primo inquinamento della scienza è stato proprio quello di togliere all’uomo questa sua conoscenza, di affermare, come ricorda Galileo, che l’astronomia deve essere lasciata agli scienziati, di presentare la natura non con gli occhi spontanei di chi la guarda ma con gli occhi di altri, di “tecnici”. La divisione tra la conoscenza della scienza, che è vera, e quello che sanno le persone comuni, che è apparenza, ha avuto l’effetto fuorviante di allontanare l’uomo dalla natura, fino a costruire una natura che è ben diversa da quella che il senso etico suggerisce. Non sorprenda in tal senso il contrasto tra la natura del diritto naturale, fondata sull’armonia, e quella della scienza darwinista, fondata sulla sopraffazione.
Nel passato sia il nostro futuro”: l’invito di Pucci è al recupero della nostra identità, della nostra tradizione morale e culturale. E’ lì che devono affondare le radici, per poter affrontare senza contraddizioni la sfida della modernità.