Carlos Franqui. Cuba, la rivoluzione: mito o realtà?
di Stenio Solinas - 19/02/2007
«M
emorie diun fantasma
socialista» è
il sottotitolo
dell’autobiografia
di
Carlos
Franqui
Cuba, la rivoluzione: mito o realtà?(Baldini Castoldi Dalai editore, 629 pagine,
19 euri). «Ritengo che il fallimento del
socialismo sia una delle più grandi vittorie
nella lotta per la libertà, ma anche una delle
più grandi tragedie: oltre al disastro sociale e
umano, ha assestato un terribile colpo ai
bisogni e alle speranze di tanti milioni di
esseri umani». Esule da Cuba ormai da quarant’anni,
Franqui ne ha oggi ottantasette e
resta il testimone più attendibile di quello
che fu il castrismo delle origini, nonché il
critico più lucido della sua trasformazione in
regime, della sua involuzione a macchina
repressiva. Rispetto ad altri dissidenti, ha
dalla sua una militanza clandestina e rivoluzionaria
antecedente a quella dello stesso
Fidel o di Guevara e il non aver mai voluto
ricoprire, finché gli fu concesso di rimanere
in patria, cariche politiche e/o di governo.
Intellettuale militante, e non scrittore puro,
questa sua condizione gli ha permesso di
fuggire da un lato la trappola delle «radici»,
la paura che ha ogni romanziere, ogni poeta,
di essere separato dalla propria terra, sua linfa
e sua memoria, dall’altro l’evasione letteraria
come risposta individuale, la ricreazione
cioè di un mondo interno, autonomo, e
privato, come antidoto a una realtà esterna
pubblica e ostile.
Così, il suo esilio si è trasformato in un
«combattere per la
rivoluzione» con altri
mezzi, senza illusioni
avventuristiche riguardo
la caduta del regime,
con la consapevolezza
di condannarsi a
un’opposizione spesso
solitaria, a volte velleitaria,
quasi sempre frustrante,
una testimonianza,
se si vuole, l’unica
però che gli permettesse
di tenere
insieme le due metà di
cui si componeva la
sua vita: aver lottato
perché la rivoluzione
trionfasse, dover lottare
contro la rivoluzione
trionfante.
Costruita in forma cronologica,
l’autobiografia
di Franqui spazia da
un’infanzia e una giovinezza povere e paniche,
immerse nella fatica come nella natura,
piene di lavoro, ma anche di colore, musica,
sesso, cibo, religiosità, quel mix tropicale
che spiega molto bene del resto il fascino
che successivamente avrà l’esperimento
cubano raffrontato con la sclerosi e il grigiore
del cosiddetto socialismo reale dell’Est
Europa, con il terribile egualitarismo del
modello cinese. Una infanzia e una giovinezza
umili, ma non prive di dignità, perché
se il padre di Franqui è un tagliatore di canna
da zucchero, c’è una solidarietà familiare
grazie alla quale si può andare a scuola, leggere
libri, ascoltare storie che rimandano alla
indipendenza cubana e che hanno visto zii,
cugini, nonni impegnarsi, anche a rischio
della vita, per fare dell’isola una nazione.
Così, l’apprendistato del giovane Carlos è
nel nome della giustizia sociale, nella volontà
di rompere un sistema di potere nel quale
il latifondo da un lato, la corruzione politica
dall’altro disegnano i contorni di una società
parafeudale in cui i margini per chi non ha si
fanno sempre più stretti e la possiblità di
arricchimento e di impunità per chi possiede
sono sempre maggiori, e senza che un’autorità
statuale tuteli i primi e regoli i secondi.
Franqui viene su, naturaliter, rivoluzionario,
ovvero fautore di un cambiamento radicale
dello stato di cose.
Questa prima parte del libro è, stilisticamente,
la più affascinante, ma permette altresì di
delineare un profilo di Cuba diverso dalla
vulgata che verrà in seguito accreditata. È un
Paese di buone risorse economiche, mal distribuite,
certo, ma nel quale la povertà non è
miseria e la realtà agricola permette un’autosufficienza,
con un’élite che guarda all’Europa,
che ha sempre guardato all’Europa perché
in fondo è dall’Europa che è stata conquistata
e plasmata, e una componente indigena
che separata dalla grandi civiltà indio
del continente latino-americano non ha altro
retaggio che quello afro-schiavistico da un
lato, afro-cattolico dall’altro, la religiosità
delle santerie, animismo e cristianesimo, fusi
in una fede misterica e magica. Una nazione
che nel Novecento è approdata dunque a una
indipendenza faticosa, difficile, instabile, ma
che ha scuole, università, scrittori, compositori,
una borghesia, un ceto imprenditoriale,
un desiderio di cambiamento, nella sua
minoranza più libertaria e più avvertita, nella
sua maggioranza meno disposta a sopportare
l’ingiustizia sociale che la opprime. Un potere
politico ed economico legato a filo doppio
con gli Stati Uniti, che grazie a un emendamento
costituzionale possono interferire
quando vogliono nei suoi affari e nelle sue
scelte.
«Nei suoi cinque secoli di storia Cubaha vissuto quattrocento anni sottomessa al
colonialismo spagnolo, sette anni di occupazione
militare americana,
trentadue di
emendamento Platt,
vent’anni di governo
autoritario, ventuno
anni di dittature
militari, trent’anni
come semicolonia
sovietica, quarantacinque
sotto la dittatura
castrista e
meno di venti di
pace democratica».
L’apprendistato alla
rivoluzione di Franqui nasce in questo clima
e c’è spazio, naturalmente, per una iniziale
infatuazione comunista presto spazzata via
dal settarismo, dalla cecità politica, dal tatticismo,
dalle alleanze con quello stesso Batista
che si sarebbe dovuto combattere... E‚ un
comunismo internazionalista, che segue cioè
la Mosca degli anni Trenta nel suo fare e disfare
alleanze senza tener conto delle situazioni
locali, che nella Seconda guerra mondiale
decide amici e nemici in base alla logica del
Cremlino, che a conflitto finito si ritroverà di
nuovo al potere il Batista con cui aveva trescato
e da cui era stato corrotto...
E‚ un apprendistato che lo vede giornalista
politico, militante clandestino, organizzatore
di atti di sabotaggio nelle città (mai terrorismo
nei confronti dei civili, ma sempre mirato
verso luoghi, simboli, istituzioni del potere),
guerrigliero nella Sierra. Sotto questo
profilo il suo racconto è particolarmente interessante
perché riconduce alla giuste proporzioni
il ruolo e il peso di Castro nella lunga
lotta contro il regime.
Quando Fidel scende finalmente dalla Sierra
Maestra per guidare l’offensiva delle forze
ribelli
«si tratta di una vittoria politica, piùche militare, e lo provano le cifre. In due
anni di lotta il movimento guerrigliero ebbe
meno di duecento vittime, 29 al momento
dell’offensiva, e nove durante l’invasione e i
combattimenti finali a Santa Clara e in tutta
l’isola. I soldati che si arresero di fronte alla
avanzata di un migliaio di ribelli furono più
di 30mila... Il successo dell’avanguardia dei
guerriglieri non si sarebbe mai verificato
senza l’azione del movimento clandestino
delle città, che inviò nelle montagne la maggioranza
dei suoi uomini - oltre le armi,
medicine, cibo, denaro e giornalisti famosi -
e mise in atto migliaia di sabotaggi in tutta
l’isola, organizzò parecchi scioperi, ebbe
migliaia di caduti, creò una coscienza popolare
che favorì l’astensione alle elezioni del
30 novembre 1958 e la massiccia partecipazione
allo sciopero del gennaio 1959, nel
momento della vittoria
».
Come e perché un
movimento rivoluzionario
che si riprometteva
il ripristino delle
libertà democratiche,
parlamento, partiti,
elezioni, si trasformò
in una satrapia Franqui
lo racconta nell’ultima
parte del
libro, e quello che
emerge non è il comunismo
di Fidel, ma il
fidelismo del comunismo.
Chi prende
Castro per un comunista,
dice l’autore,
commette un errore:
Castro fu un caudillo
latino-americano che
si servì del comunismo,
inteso come alleanza con l’Urss, per
rafforzare e manenere il potere.
Era un’alleanza per certi versi obbligata, non
tanto o non solo dalle circostanze internazionali,
ma soprattutto perché una partnership di
quel genere era l’unica che potesse far fronte
alla incapacità economica da un lato, al pericolo
di una contestazione politica dall’altro.
«Il costo economico della Cuba castrista era
mostruoso, ma Cuba era il cavallo di Troia
del comunismo in America latina, in Africa e
nel Terzo mondo. Sosteneva i movimenti di
guerriglia, le guerre africane e costituiva
una formidabile piattaforma militare e spionistica
a 90 miglia dal territorio degli Stati
Uniti. La vita era austera, ma non insopportabile...
Dal punto di vista materiale il crollo
del sistema sovietico ha privato i cubani di
tutto».
Per chi nel 1959 aveva ereditato unaeconomia solida, come Castro stesso si era
vantato dicendo di aver fatto «una rivoluzione
senza l’esercito, contro l’esercito, in
assenza di una crisi economica» non è un bel
risultato.
Su cosa accadrà alla morte del «lìder maximo
» Franqui è cauto:
«Il cubano ha fame ditutto e non crede in niente, si vive nella diffidenza,
il malcontento è generale e così pure
l’apatia».
C’è una gerontocrazia al potere,età media 75 anni, una crisi irriversibile del
sistema, l’ipotesi di una «via cinese», ma
anche quella di una seconda Haiti... Un
bilancio amaro e dolente per chi spese metà
della sua esistenza nel nome della rivoluzione
e l’altra metà nel tentativo di riscattarla.