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Alleati, ma non troppo. In guerra, anzi no

di Roberto Zavaglia - 19/02/2007

Se l’Italia riceve inviti

irrituali, per dirla con il

termine usato dai ministri

D’Alema e Parisi, è perché

si comporta in modo ambiguo.

Fra i sei Paesi che hanno sottoscritto

la lettera aperta agli italiani,

affinché proseguano nel

loro impegno in Afghanistan,

vi sono quelli che sopportano

il peso maggiore dei combattimenti

nel Sud di quel Paese:

USA, Gran Bretagna, Canada.

Noi siamo acquartierati nel

meno turbolento Nord-Ovest,

il che non ci ha evitato di subire

alcune perdite. Osservando

come il rifinanziamento

della missione italiana fosse a

rischio, per l’opposizione dei

senatori ribelli della sinistra

radicale, gli autori della lettera

hanno inteso spronarci con un

messaggio che suona anche

come esortazione ad assumere

maggiori responsabilità. Il

nostro governo si è mostrato

assai irritato per questa iniziativa,

ma l’Amministrazione

statunitense ha avallato l’operato

del suo ambasciatore a

Roma, dimostrando che a Washington

si seguono con preoccupazione

le divisioni all’interno

dell’esecutivo a proposito

della politica estera.

Da quando la fine della guerra

fredda ha lasciato il campo a

una serie di conflitti incandescenti,

il nostro Paese si è

reso protagonista di numerose

missioni militari che sono

state definite in modi diversi:

peace keeeping, peace

enforcing, nation building…

Il più delle volte, le nostre

sono state, però, operazioni

di guerra, anche se non si è

mai trovato il coraggio di

chiamarle con il loro nome.

In che altra maniera si

dovrebbe definire l’invio di

un contingente militare in

appoggio a Paesi che, sul

territorio, stanno combattendo

contro la guerriglia locale?

Anche se i nostri soldati

non si sono mai trovati nelle

zone cruciali, erano comunque

gli alleati in armi di una

delle due parti in conflitto. I

primi a riconoscerlo sono stati

i nostri “nemici” che, a Nassiriya,

ci hanno colpito sanguinosamente.

Si è sempre scelto

di inviare le nostre truppe nelle

“retrovie”, dove la guerra si

svolgeva con intensità minore,

assecondando l’equivocità del

mandato politico che, più che

sull’aspetto militare, insisteva

su quello della ricostruzione

civile. Addirittura, nel corso

della guerra contro la Jugoslavia,

l’allora Presidente del

Consiglio, D’Alema, giunse a

dire che i nostri aerei sorvolavano

il territorio, ma non sganciavano

bombe…

La nostra ambiguità viene ora

smascherata in Afghanistan,

dove i Talebani hanno recentemente

riconquistato la cittadina

di Musa Qala e dove, nella

prossima primavera, si prevedono

durissime e forse decisive

battaglie. La NATO, da

diverso tempo, chiede a Italia,

Francia, Spagna e Germania di

dare un contributo maggiore e

di darlo nelle zone più calde

del Paese. Il governo Prodi

risponde che ci limiteremo a

confermare i nostri 2.000 soldati,

lasciandoli dove stanno

ora. Già questa scelta risulta

difficile da digerire per l’ala

sinistra della maggioranza, ma,

poiché la situazione sul campo

non è affatto facile per la

NATO, è probabile che in futuro

venga richiesto ai nostri

comandanti di appoggiare i

contingenti che si verranno a

trovare in difficoltà, come prevedono

gli accordi della missione

“Isaf”. A quel punto, il

governo potrebbe rifiutare,

opponendo i cosiddetti

“caveat” che limitano, per certi

Stati, l’uso delle truppe. Sarebbe

una pesante perdita di credibilità

per il nostro esercito e

per il nostro Paese che si troverebbero

a negare l’aiuto ai propri

alleati sotto il fuoco nemico.

È più probabile che i nostri

soldati vengano inviati sul

campo di battaglia, senza

farlo sapere alla nazione

come, del resto, è già avvenuto

in altre occasioni.

La nostra condizione,

comunque, ci rende sospetti,

pur non evitandoci del

tutto i rischi. La sinistra

radicale, in cambio del voto

favorevole sull’Afghanistan,

ha chiesto forti segnali

di discontinuità: una data

per l’exit strategy, l’avvio

di una conferenza di pace e

l’intensificazione dell’impegno

civile a scapito di

quello militare. Siamo

all’assurdo: l’Afghanistan è

un Paese in cui si svolge

una guerra dall’esito incerto,

che si sta espandendo in

zone che, precedentemente,

erano relativamente tranquille.

Noi, invece, ci apprestiamo a

rinnovare il mandato alle

nostre truppe, pretendendo che

ci si dica che si andrà via al più

presto, che non si spari se non

in casi eccezionali e che si

convochi una conferenza di

pace alla quale nessun altro

pensa. L’attuale governo spinge

l’ipocrisia del precedente

esecutivo -anche Berlusconi

sosteneva che eravamo in Iraq

per ricostruire il Paese - fino al

limite del ridicolo, nel tentativo

di mantenere unita la maggioranza.

Nessuno ha il coraggio

di guardare in faccia la

realtà: in Jugoslavia, in Iraq, in

Afghanistan si combattono

delle vere e proprie guerre, alle

quali si può decidere di partecipare

o meno.

A nostro giudizio dovremmo

tenercene fuori, ma se si invia

l’esercito, però, non si può

spacciarlo per un corpo di protezione

civile che non serve a

niente e non sa come comportarsi.

È uscito in questi giorni

un libro del diplomatico inglese

Rory Stewart - di cui ha

riferito, su la Repubblica, Paolo

Rumiz - in cui si racconta

della passività dei nostri soldati

a Nassiriya, che, bersagliati

dai guerriglieri, non rispondevano

al fuoco o riducevano al

minimo i pattugliamenti. Di

mercoledì scorso è la notizia,

solo apparentemente in controtendenza,

del rinvio a giudizio

di due Lagunari che, nel corso

della “battaglia dei ponti”, avevano

sparato contro un’ambulanza,

scambiandola per un’autobomba.

Come se in combattimento

non si commettessero

mai tragici errori…

L’Italia, a partire dall’Otto Settembre,

vive un rapporto patologico

con le armi e con la forza:

all’estero è vista con

sospetto, come un alleato infido

e privo di coraggio, mentre

la nostra politica ritiene che il

Paese debba esercitare un ruolo

di rilievo nelle crisi, a patto

di non infrangere il tabù della

guerra. Senza scelte chiare e

comportamenti coerenti la

nostra reputazione non potrà

migliorare e noi stessi rimarremo

confusi sulla nostra identità,

continuando a far finta di

essere ciò che non siamo.