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L'inferno vivisezione (dossier)

di Terzano Giancarlo - 20/02/2007

 


 


Aprì una porta, entrammo in una grande stanza nitida, lucida, dal pavimento di linoleum azzurro. Lungo le pareti erano allineate l’una a fianco dell’altra, come i letti in una clinica per bambini, strane culle in forma di violoncello: in ognuna di quelle culle era disteso sul dorso un cane dal ventre aperto, o dal cranio spaccato o dal petto spalancato.
Sottili fili d’acciaio, avvolti attorno a quella stessa sorta di viti di legno che negli strumenti musicali servono a tendere le corde, tenevano aperte le labbra di quelle orrende ferite: si vedeva il cuore nudo pulsare, i polmoni, dalle venature dei bronchi simili a rami d’albero, gonfiarsi proprio come fa la chioma di un albero nel respiro del vento, il rosso, lucido fegato contrarsi adagio adagio, lievi fremiti correre sulla polpa bianca e rosea del cervello come in uno specchio appannato, il groviglio degli intestini districarsi pigro come un nodo di serpi all’uscir dal letargo. E non un gemito usciva dalle bocche socchiuse dei cani crocifissi.
Curzio Malaparte, La pelle
 
 
Animali ustionati, accecati, avvelenati, infettati da virus o costretti a subire altre sofferenze varie; oppure, quando va bene, uccisi “umanitariamente” per prelevarne campioni su cui sperimentare. Chiamiamola anche, col freddo e asettico linguaggio della scienza, sperimentazione animale, ma senza dimenticare il carico di sofferenze che gli involontari protagonisti della vivisezione subiscono.
Sono all’incirca 1 milione gli animali annualmente oggetto di sperimentazione in Italia; circa 3 milioni nel Regno Unito e oltre 17 milioni negli Stati Uniti (nei due paesi anglosassoni ha sede la maggior parte delle industrie farmaceutiche del mondo). Cani, gatti, scimmie, topi, ratti, conigli, furetti, piccioni, maiali … sono tante le specie animali interessate che volta per volta vengono ritenute “degne” di similitudine con l’uomo e assoggettate ad esperimenti.
I campi di impiego sono vari: dai test di tossicità, resi obbligatori dalla Direttiva CEE 92/32 ogni qual volta debba essere immessa sul mercato una nuova sostanza, alla ricerca farmacologica (il settore prevalente, cui viene finalizzato il 57% degli animali coinvolti); dalla ricerca medica di base (altro settore rilevante, che incide per il 30%) alla didattica;  dalla ricerca veterinaria alla sperimentazione di cosmesi. In alcuni casi sono obbligatori per legge; spesso, tuttavia, vengono effettuati senza obbligo, per inerzia o comodità dei ricercatori.
I test sono di vario tipo. Alcuni hanno un nome ormai fatidico, come il LD50 (Lethal Dose Fifty Percent), per cui si iniettano negli animali dosi crescenti della sostanza chimica che si vuole sperimentare finché la metà dei soggetti non muore (sarà questo il dosaggio LD50); oppure il Draize Test, oculare o cutaneo, utilizzato per i cosmetici, che consiste nell’iniettare la sostanza negli occhi dei conigli (ideali perché non lacrimano) o sulla pelle e lasciarla lì finché l’occhio o la pelle non vengono bruciati. Ma le necessità della scienza (come la fantasia dei ricercatori) non hanno limite: con gli esperimenti neurologici negli animali vengono inserite sonde ed elettrodi; con i test di cancerogenità o quelli sull’HIV si mira a riprodurre negli animali tumori o il virus dell’AIDS; c’è chi è riuscito a far fumare i ratti e grazie alla biogenetica, abbiamo topi fosforescenti, ottenuti dopo centinaia di tentativi nati con malformazioni e malattie.
 
 
UN METODO SCIENTIFICO?
L’opposizione alla vivisezione si nutre, innanzitutto, di motivazioni etiche. Respinta l’idea cartesiana che gli animali siano poco più che “automi senz’anima”, essa nasce dal disagio di fronte alle sofferenze inferte agli animali, cui viene riconosciuta piena capacità di sentire dolori e provare angosce.
Gli animalisti più radicali contestano la stessa visione antropocentrica dominante, quella secondo cui gli animali sono al servizio dell’uomo. Respingendo gerarchie di tipo specista, essi ritengono che agli animali debba essere assicurato lo stesso diritto alla vita e al benessere preteso dagli uomini e condannano violenze che si giustificano con la sola utilità umana.
Ma anche in chi continua a riservare all’uomo un ruolo dominante sulle altre specie, si fa largo il rigetto per le sofferenze animali, laddove esse sembrino inutili. Non siamo ancora all’empatia, al sentimento di compartecipazione esteso alla vita di ogni specie, ma c’è l’attenzione alla sofferenza altrui, comunque evitabile. Si tratti delle batterie degli allevamenti intensivi, delle bestiole uccise per farne pellicce, degli animali sparati per “sport”, o, appunto, delle vittime dei laboratori.
 
Ma alla base della lotta alla vivisezione c’è anche un solido motivo scientifico.
La sperimentazione sugli animali si fonda sul presupposto che i risultati ottenuti sulle “cavie” siano poi utilizzabili, in quanto riproducibili, sugli uomini. Tale presupposto implica però un’analogia che in realtà non esiste. Non solo ciò che vale per un animale non è detto valga per l’uomo, ma a ben vedere differenze notevoli esistono anche tra le varie specie animali, tra le razze e finanche tra gli individui.
Per restare al confronto uomini-animali, sono molte le sostanze che hanno impatti radicalmente diversi. L’arsenico, ad esempio, notoriamente velenoso per l’uomo, è ben tollerato da pecore e porcospini; parimenti la stricnina, innocua per cavie, polli e scimmie; gatti e conigli, a loro volta, potrebbero ingerire senza danni il per noi letale fungo dell’amanita phalloides. Al contrario, l’innocua aspirina è letale per i gatti, e l’utilissima penicillina uccide le cavie (Howard Florey, uno dei suoi scopritori, avrebbe ammesso che fu una fortuna sperimentarla su altre specie animali). Senza considerare le differenze di tipo quantitativo (dosi, tempi di reazione, ecc.).
La casistica delle discordanze, del resto, è ampia. Nel sito www.novivisesione.org è riportato un elenco di 50 casi di errate conseguenze sulla salute umana tratte dalla sperimentazione animale: dall’introduzione di sostanze (benzene, arsenico, amianto) ritenute all’inizio innocue solo perché sugli animali non si riusciva a riprodurre cancro e leucemie, al ricorso a tecniche chirurgiche errate (la cheratomia radiale) e a tanti farmaci immessi in circolazione perché testati sugli animali rivelatisi, successivamente, dannosi per l’uomo; e, al contrario, tecniche, sostanze e farmaci (es., i beta-bloccanti, la ciclosporina A o la penicillina) utilmente applicabili all’uomo ma il cui utilizzo è stato ritardato dai negativi risultati ottenuti su alcune specie animali.
Il danno per la salute umana, come si vede, è doppio: da un lato sono state immesse sostanze risultate poi pericolose per gli uomini, dall’altro sono stati trascurati metodi e sostanze utili per l’uomo.
Insomma, nonostante l’opinione consolidata, gli animali non costituiscono validi modelli sperimentali per l’uomo, in quanto esistono differenze troppo grandi tra specie, razze ed anche singoli individui[1][1]. Ratti e topi, sebbene tra loro molto vicini, danno nel 60% dei casi risultati diversi. Ed anche le scimmie, il cui DNA è per il 97-99% uguale a quello umano, possono divergere profondamente, viste le diverse sequenze delle coppie-base (si noti, per inciso, come le scimmie, così vicine a noi, siano utilizzate nella ricerca solo in minima parte).
Paradossalmente, è proprio giocando su tali differenze che la vivisezione trova ancora margini di credibilità. In una assurda inversione di sequenze, accade che una volta riscontrato un fenomeno (grazie soprattutto alla ricerca clinica sull’uomo) esso venga riprodotto, con patologie artificiali, su diverse specie animali, finché non si rinviene quella che offre risultati più simili all’uomo. Insomma, di specie in specie, ognuno può ottenere il risultato più gradito, l’animale che meglio risponde all’esigenze, e che di volta in volta sarà il coniglio, il topo, il cane o la scimmia. Ma appare evidente, viste le variabili del risultato finale, la scarsa scientificità del metodo.
Ma, soprattutto, resta evidente che il vero test per verificare l’impatto sull’uomo di un farmaco o una sostanza resta quello sull’uomo! Finché non viene sperimentata direttamente sull’organismo umano, nessuna sostanza può essere riconosciuta come utile o dannosa per gli uomini. Le vere cavie siamo quindi noi, e gli esperimenti sugli animali si dimostrano in sostanza inutili. Il che spiega, del resto, l’enorme numero di medicinali immessi in commercio (dopo regolari test animali) e poi ritirati perché dannosi.
Ecco perché alla fatidica domanda “preferite salvare un topo o un bambino” gli antivivisezionisti rispondono “salviamo entrambi”. Non è solo pietà per il topo; c’è anche l’idea che con lo stesso prodotto il topo muoia e il bambino no; oppure, più tragicamente, che al topo vivo segua il bambino morto.
 
 
 
LA NORMATIVA
A regolamentare la sperimentazione sugli animali in Italia è il D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 116. La norma, pur non vietando la vivisezione, sarebbe abbastanza restrittiva, ma tale rigore viene ad essere vanificato da alcune previsione derogatorie.
La sperimentazione su animali è ammessa soltanto in relazione a farmaci, alimenti o sostanze che servano per la salute di uomo, animali o piante, o per la protezione dell’ambiente naturale. Con un richiamo alla normativa precedente (L. 924/31), il D.Lgs. 116 salva tuttavia tra gli scopi la promozione del “progresso della biologia e della medicina sperimentale”: formula ampia e generica, applicabile, come dimostra l’esperienza, in sostanza ad ogni esperimento.
Oggetto di sperimentazione sono solo animali da allevamento, e con l’esclusione di cani, gatti e primati; sono inoltre vietati gli esperimenti su specie in estinzione o minacciate. Gli esperimenti su animali dovrebbero essere effettuati solo in anestesia, condotti in modo da evitare dolori inutili e realizzati soltanto laddove il risultato scientifico non possa essere ottenuto con metodi alternativi validi, ragionevolmente applicabili. Una norma ad hoc vieta inoltre di rendere afoni gli animali.
Tale sistema ordinario è soggetto ad un mero sistema di comunicazione: una volta ottenuta l’autorizzazione generica per svolgere nello stabilimento sperimentazione su animali, i singoli esperimenti non devono essere autorizzati preventivamente, ma solo comunicati all’autorità competente (il Ministero della Salute), giustificando la necessità del ricorso a quella specie e al tipo di esperimento. Nei fatti, quindi, la valutazione sulla necessità dell’esperimento è rimessa ai vivisettori stessi ed il Ministero svolge un ruolo meramente passivo e di raccolta dati.
Questo sistema viene ad essere messo in discussione da una serie di deroghe. In casi particolari, il capo II del decreto legislativo 116/92 consente infatti di sperimentare anche su cani, gatti e primati non umani, di non effettuare anestesia e di fare esperimenti a puro scopo didattico. In tutti questi casi derogatori, l’esperimento richiede un’autorizzazione espressa del Ministero.
A questa normativa si affiancano poi altre norme che regolano aspetti specifici, come, ad es., le direttive comunitarie in materia di sperimentazione per i cosmetici sui test di tossicità.
Dal 1993, inoltre, l’Italia, primo paese al mondo, ha anche una legge che garantisce il diritto all’obiezione di coscienza contro la vivisezione. La L. 12 ottobre 1993, n. 413, assicura infatti ai cittadini che, esercitando la libertà di pensiero, coscienza e religione, si oppongano alla violenza su tutti gli esseri viventi, la possibilità di obiettare contro ogni atto connesso alla sperimentazione animale. La norma riguarda sia i lavoratori (medici, ricercatori, personale sanitario vario) sia gli studenti universitari, ed assicura ad entrambe le categorie il diritto a non essere penalizzati nella carriera o nel corso di studi; gli istituti, in particolare, devono attivare modalità di insegnamento alternative e assicurare la massima pubblicità alla possibilità di effettuare l’obiezione.
 
 
I NUMERI DELLA VIVISEZIONE IN ITALIA
A fronte di questo quadro normativo, vediamo ora in concreto i numeri della vivisezione in Italia. I dati sono quelli riportati nel recente rapporto La vivisezione in Italia 2004, a cura della LAV e presentato in maggio al Parlamento. In alcuni casi i dati sono incompleti a causa dell’atteggiamento ostativo di vari UTG (le ex Prefetture), che non hanno risposto alle richieste dell’associazione animalista.
Tra università, istituti sanitari, enti vari (ENEA, ENI, CNR, ecc.) e case farmaceutiche, sono 551 gli stabilimenti autorizzati dal Ministero della Salute alla sperimentazione animale. Ben 121 di questi si trovano in Lombardia, dove c’è anche la metà degli allevamenti autorizzati. Segue l’Emilia Romagna[2][2], con 94 stabilimenti, in buona parte laboratori universitari, che sperimentano anche in deroga su cani, gatti, scimmie ed anche senza anestesia.
 
 
 

Stabilimenti dove si pratica la vivisezione (per Regione)
Fonte Rapporto LAV vivisezione 2004
 
 
 
 
Lombardia
121
 
Emilia Romagna
94
 
Lazio
57
 
Toscana
50
 
Veneto
39
 
Sicilia
27
 
Piemonte
26
 
Campania
25
 
Marche
23
 
Sardegna
19
 
Liguria
17
 
Abruzzo
16
 
Friuli
13
 
Puglia
12
 
Umbria e Calabria
4
 
Basilicata
2
 
Molise e Trentino Alto Adige
1
 
Valle d'Aosta
0
 

 
 
I dati relativi al numero di animali impiegati a fini sperimentali sono quelli pubblicati dal Ministero della Salute in Gazzetta Ufficiale (il D.Lgs. 116/92 prevede l’obbligo di pubblicazione almeno ogni tre anni), che coprono, allo stato attuale, il periodo dal 1992 al 2000. Ne risulta una diminuzione netta di animali (diminuiti, nel 2000, del 25% rispetto al 1992) anche se resta il ragguardevole numero di oltre 900.000 “cavie” da laboratorio.
 

Tabella 18 Dati del Ministero della Salute relativi al numero di animali impiegati a fini sperimentali dal 1992 al 2000 (Fonte Gazzetta Ufficiale n. 194 del 21 Agosto 1995; n. 32 del 12 settembre 1998; n.279 del 30 novembre 2001)
 
 
 
 
Specie
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
Topi
529477
538015
503580
414005
379327
356887
422454
394310
404602
Ratti
534533
522260
454448
440828
595407
688145
579479
491966
434664
Cavie
48777
50952
39451
31533
28925
31564
29471
18455
17467
Criceti
6827
3246
1775
2483
1842
2957
3955
3565
1614
Altri roditori
1306
1615
1774
2622
2360
2782
5372
2428
2308
Conigli
55827
49530
48019
40827
49530
48019
22920
16430
16720
Gatti
401
209
147
170
270
263
89
29
25
Cani
1357
1566
1058
658
984
897
876
745
766
Furetti
37
0
0
0
0
8
8
16
0
Altri carnivori
0
0
0
0
0
0
0
0
0
Cavalli
3
3
22
27
173
31
22
20
22
Maiali
917
1368
1415
1827
1094
1708
1529
2045
2544
Capre
33
26
76
82
70
45
206
41
58
Pecore
214
289
794
669
342
415
345
612
429
Bovini
38
267
128
618
189
182
229
542
552
Primati
561
398
290
896
776
583
427
500
612
Altri mammiferi
0
0
96
104
24
24
70
25
26
Quaglie
0
110
215
166
5
88
107
226
0
Altri uccelli
11004
15010
23947
11363
9213
6673
24992
19931
17105
Rettili
127
225
550
497
644
910
1739
1410
1046
Anfibi
2973
3261
1811
2529
3046
1725
3135
2164
3119
Pesci
4940
699
14960
5094
5484
3645
2066
3645
1924
TOTALE
1199352
1189049
1094556
956998
1079705
1147551
1099491
959105
905603
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
Alla diminuzione del numero assoluto corrisponde però, avverte la LAV, un aumento degli esperimenti in deroga, compiuti senza anestesia o su cani, gatti e scimmie. Tra il 2000 ed il 2002, infatti, sarebbe cresciuto il numero delle autorizzazioni derogatorie, che si assesterebbero ora intorno al 20% degli esperimenti totali. Tale aumento, conclude il rapporto, sconfessa la legge e ne dimostra i limiti applicativi, visto che la normativa prevede quale strumento eccezionale la sperimentazione in deroga.
Il rapporto individua anche altri punti critici della normativa. Innanzitutto, nella nozione di esperimento, non rientrano quelle prove, frequenti in farmacologia, che necessitano di organi di animali morti. L’animale quindi ucciso ad hoc, ma con “metodo umanitario” (dislocazione cervicale o ghigliottina), resta fuori dell’ambito della legge e i dati del Ministero non ne tengono conto. Similmente accade per le vittime indirette, come i topi uccisi da ratti per valutare l’aggressività di quest’ultimi prima di sottoporli al vero e proprio esperimento.
Altro punto debole riguarda gli esperimenti ordinari (l’80% del totale), eseguiti in regime di sostanziale autocertificazione. Qui esistono ampi margini di discrezionalità del vivisettore sulla traumaticità del test, come dimostra anche la circostanza che, a fronte di procedure identiche, ci sia chi applica l’anestesia e chi preferisce sperimentare in deroga. Un esempio frequente, poi, è quello di esperimenti condotti inizialmente con l’anestesia (e pertanto non soggetti ad esplicita autorizzazione) ma con effetti traumatici nel tempo: gli esperimenti neurologici, ad esempio, in cui, sotto anestesia, nel cranio animale vengono inserite sonde che l’animale porterà poi con sé anche in seguito.
Estremamente generica - prosegue poi il rapporto - è anche l’indicazione dei motivi che giustificano l’esperimento. La normativa prevede infatti che il ricercatore documenti al Ministero i motivi della necessità del ricorso ad una determinata specie e a quel tipo di esperimento. Dai protocolli esaminati, tuttavia, tale giustificazione risulta vaga; del resto, afferma la LAV, non potrebbe essere diversamente: ogni specie reagisce in modo diverso, e capita spesso che la stessa ricerca venga condotta su più specie, a conferma dell’inattendibilità scientifica della vivisezione.
Per sperimentare sugli animali, infine, i ricercatori dovrebbero dimostrare l’assenza di metodi alternativi alla vivisezione, ma anche tale punto nella prassi comune è trattato solo sommariamente e l’ esclusione di metodi alternativi è spesso enunciata ma non dimostrata. A pesare, ricorda la LAV, è soprattutto l’inerzia culturale dei ricercatori, che applicano il metodo più comune e semplice anziché complicarsi la vita con metodologie alternative. Certo, con meno pigrizia, si potrebbe salvare la vita a circa 400.000 dei 900.000 animali annualmente impiegati: proiettando su scala nazionale i dati forniti dall’UGT di Verona, risulta che il 40% degli esperimenti è finalizzato al prelievo di tessuti per realizzare colture cellulari su cui poi eseguire gli esperimenti … ma allo scopo si potrebbero utilizzare direttamente tessuti umani, provenienti da biopsie, interventi chirurgici o cadaveri, con meno sofferenze per gli animali e risultati più attendibili.
 
 
 
I METODI ALTERNATIVI
Seppur non siamo alla vera e propria empatia, la consapevolezza che gli animali soffrano ed un conseguente disagio verso il loro dolore sono comunemente diffusi. E la vivisezione, al giorno d’oggi, è presentata come un ripiego, il classico “male minore”, cui si ricorre per necessità, in mancanza di altri metodi scientificamente validi, come giustificano i vivisettori. Lo stesso legislatore consente gli esperimenti su animali soltanto laddove, per ottenere il risultato scientifico, “non sia possibile utilizzare altro metodo scientificamente valido, ragionevolmente e praticamente applicabile, che non implichi l’impiego di animali”.
Insomma, sembrerebbe opinione non controversa che, se potessimo, ne faremmo a meno. Non altrettanto pacifico è invece lo stato delle alternative: per i vivisettori (e le autorità ufficiali) esse sono ancora non sufficientemente valide, mentre per il fronte antivivisezionista si tratta di metodologie già applicabili (soprattutto partendo dal dato della non scientificità della vivisezione). Approfondiamo il punto.
Intanto, precisiamo che metodo alternativo è, a rigore, solo quello che consente di fare del tutto a meno della sperimentazione sugli animali. Non vi rientrano, quindi, quelle metodologie che mirano, invece, ad una mera riduzione del numero delle cavie o alla riduzione degli effetti.[3][3]
Le alternative, come vedremo, insistono soprattutto (ma non solo) su metodologie già applicate sull’uomo. Partendo dalla premessa che in ogni caso (anche quando ci sono stati esperimenti sugli animali) è necessaria una successiva sperimentazione sull’uomo, ciò che gli antivivisezionisti chiedono è di eliminare il passaggio precedente (appunto gli esperimenti sugli animali) in quanto inutile e spesso fuorviante. Ciò tenendo anche conto che non sempre il ricorso agli animali è imposto dalla legge (ciò avviene per i test di tossicità ma non , ad es., per la ricerca biomedica di base).
Nel campo della ricerca biomedica, tra le alternative c’è innanzitutto la ricerca clinica, l’osservazione diretta del paziente, che è stata e resta la fonte principale di conoscenza medica,  che oggi può essere resa più completa ed efficiente grazie ai moderni strumenti di analisi non-invasivi (utilizzati, con buoni risultati, soprattutto nel campo delle malattie cardiache). Di soccorso sono anche l’epidemiologia, che studia la frequenza e la distribuzione delle patologie nella popolazione, e la statistica, che hanno portato, ad esempio, alla conoscenza dei fattori di rischio nelle malattie cardiocircolatorie (fumo, soprappeso, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia). Altri metodi di conoscenza alternativi sono le autopsie (in fin dei conti praticate da secoli, spesso proprio in conflitto con la vivisezione) e le biopsie (i prelievi di frammenti di tessuti o organi da organismi viventi).
Per i test di tossicità dei prodotti chimici, per i quali è obbligatoria la sperimentazione sugli animali, pure esistono alternative, a partire dalla colture di cellule e di tessuti umani, i microrganismi per studiare i danni prodotti sul DNA, le simulazioni, in vitro o computerizzate, i modelli matematici al computer, le tecniche non invasive per immagini per la ricerca sul cervello.
Alcune delle metodologie su accennate (pratica clinica, microrganismi, colture cellulari e tessutali, simulazioni meccaniche e computerizzate) possono essere utilizzate anche per la sperimentazione didattica, insieme a semplici video o fotografie. Si noti come gli esperimenti a scopo puramente didattico, ammessi dalla legge solo in caso di “inderogabile necessità” e di impossibilità di ricorrere ad altri metodi dimostrativi, siano di fatto superati dalla normativa sull’obiezione di coscienza, che impone il ricorso a modalità di insegnamento alternative: in sostanza, cade il presupposto della inderogabile necessità, e se ne potrebbe fare a meno. Nel concreto, tali esperimenti incidono per lo 0,3 % (dati del 2000) e, secondo le associazioni animaliste, il 60-75% delle università scientifiche nazionali utilizza sistemi alternativi.
 
Perché, allora, nonostante tali alternative, si prosegue nella sperimentazione sugli animali? Le cause sono varie. Gli animalisti sottolineano innanzitutto l’inerzia dei ricercatori, una pigrizia culturale che li porta a riprodurre metodi consolidati anziché affrontare sistemi meno comuni. C’è poi la facilità di produrre test sugli animali, e quindi di fare pubblicazioni, su cui si fondano le carriere universitarie. Laddove ci sono interessi privati, c’è la volontà di cautelarsi: partendo dal fatto che la sperimentazione animale è ammessa, molte aziende preferiscono comunque testare i loro prodotti sugli animali, in modo tale da cautelarsi in future controversie giudiziarie per i danni (è il motivo per cui alcune aziende cosmetiche testano sugli animali anche il prodotto finito, mentre la normativa europea impone la prova solo sui singoli ingredienti).
Per alcuni sistemi, poi, ci sono oggettive difficoltà di materia prima: è il caso dei tessuti umani, per i quali non esistono ancora sistemi organizzati (sul tipo delle banche dati esistenti per il trapianto degli organi) che forniscano alla ricerca il materiale comunque disponibile (placente, cordoni ombelicali, materiali asportati in operazioni chirurgiche e biopsie). Si è già detto, del resto, dei tanti animali uccisi (con “metodo umanitario”, e quindi normativamente considerati fuori del campo della vivisezione) solo allo scopo di ricavare tessuti su cui lavorare e la cui vita potrebbe essere tranquillamente salvata con una sperimentazione diretta sui tessuti umani (sicuramente più attendibile, visto che lo scopo finale è conoscere gli effetti sull’uomo).
C’è, soprattutto, un problema di “ufficialità”: la legge richiede che il metodo alternativo sia validato, ne venga cioè provata la ripetibilità e la riproducibilità. Ma, obiettano gli animalisti, il metodo di validazione è viziato, in quanto richiede che il test alternativo fornisca gli stessi risultati dei test animali (diversi da specie a specie) piuttosto che i risultati noti sull’uomo. A rigore (proprio partendo dalla diversità di risultati tra le specie), anche i test animali non potrebbero essere validati (e infatti essi non sono mai stati oggetto di validazione ufficiale).
Negli ultimi tempi, l’ECVAM (l’European Center for the Validation of Alternative Methods, l’Istituto con sede a Ispra, Varese, che ha il compito di validare i metodi alternativi alla vivisezione) sta accettando anche il “peso dell’evidenza”: se un metodo è già sufficientemente collaudato ed efficiente, ed è ripetibile e riproducibile, può essere adottato senza il confronto con i risultati dei test sugli animali.
Finora sono 3 i metodi validati a livello europeo dall’ECVAM. Di questi, però, uno solo (il modello di pelle umana tridimensionale, per valutare la corrosione di una sostanza chimica sulla pelle) è un vero e proprio metodo alternativo, mentre gli altri due (il TER - Transcutaneous Electrical Resistano e il test di foto-tossicità 3T3 NRU) utilizzano cellule di topi morti, seppur uccisi “con metodo umanitario”.
Dal maggio 2003, inoltre, anche in Italia esiste una Piattaforma per i Metodi Alternativi (IPAM, Italian Platform on Alternative Methods), dove, sull’esempio di altre esperienze europee, istituzioni governative, industria, mondo scientifico e associazioni animaliste, si impegnano nella diffusione d’informazioni e nella ricerca di fondi per promuovere i metodi alternativi alla sperimentazione animale.
Tra i metodi che potrebbero limitare gli esperimenti cruenti sugli animali ricordiamo anche la creazione di banche dati che, rendendo pubblici i risultati di test, evitino se non altro la ripetizione degli esperimenti. Il D.Lgs. 116/92 prevede, di regola, che siano ritenuti validi i risultati di esperimenti eseguiti in altri stati dell’Unione Europea. Non esistono tuttavia raccolte unitarie dei dati, e anzi la stessa normativa precisa che non devono essere pubblicate le informazioni pervenute al Ministero della Salute quando rivestono “un particolare interesse commerciale”. Resta così fuori l’intera ricerca privata.
 
 
COSMETICI
Un capitolo a parte lo dedichiamo ai test cosmetici sugli animali. Nonostante la cultura animalista respinga il concetto stesso di una “vivisezione cattiva” (quella appunto sui cosmetici) da contrapporre alla “vivisezione buona” (quella legata alla ricerca sui farmaci), è evidente che nell’opinione comune delle persone le sofferenze agli animali risultino diversamente intollerabili a seconda dello scopo per cui vengono inflitte; e, in questa triste classifica, sicuramente la sperimentazione per rossetti, creme e dentifrici si pone ai gradini più bassi[4][4].
La sperimentazione cosmetica sugli animali è obbligatoria, in Italia, dal 1976, a seguito dell’emanazione della Direttiva del Consiglio n. 76/768/CEE; essa riguarda i singoli ingredienti ma non il prodotto cosmetico finito.
Così, per il nostro bell’aspetto, gli animali vengono costretti per varie ore ad inalare talco, respirare tinture e decoloranti, ingoiare dentifrici, farsi iniettare colliri fino alla distruzione del bulbo oculare, ecc. … una sperimentazione che uccide annualmente, secondo le stime LAV, circa 50.000 animali.
Grazie anche alle pressioni delle associazioni animaliste, nel 1993 il Consiglio Europeo approvò una direttiva (la n. 93/35/CEE, del 14 giugno 1993) che vietava, a partire dal 1/1/1998, sia i test cosmetici sugli animali sia la commercializzazione, nel territorio comunitario, di prodotti (e ingredienti) testati sugli animali.
L’entrata in vigore del divieto, tuttavia, è stata prorogata più volte e a tutt’oggi non è operativa. Le maggiori difficoltà si rinvengono non tanto nel divieto di sperimentazione (di per sé eludibile dalle grandi aziende spostando i laboratori fuori del territorio comunitario) quanto nel divieto di commercializzazione. A pesare sono in particolare gli accordi internazionali del WTO sulla libera circolazione delle merci (l’ennesimo caso, nel nome del dogma del “libero mercato”, di prevalenza di interessi particolari su aspetti etici e la volontà dei locali legislatori). Lo stesso Parlamento Europeo ha stigmatizzato tali rinvii, affermando che “la Commissione Europea da’ ripetutamente la precedenza ai profitti dell’industria tralasciando la sofferenza e la vita degli animali, ignorando l’opinione pubblica”.
Recentemente, Consiglio e Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo di compromesso: la Direttiva 2003/15/CE del 27 febbraio 2003, ribadendo quale obiettivo fondamentale l’abolizione della sperimentazione animale (ma non della vendita), ha demandato agli Stati membri il divieto immediato di sperimentazioni animali sul territorio relative ai prodotti cosmetici finiti (di per sé già non obbligatorie) e agli ingredienti (in tal caso il divieto opera a partire dalla convalida di metodi alternativi), mentre per il divieto di commercializzazione di prodotti ed ingredienti testati sugli animali ha rinviato ad un calendario progressivo, che dovrà essere pubblicato entro l’11 settembre 2004.
In particolare, per il divieto di vendita, posta la condizione che venda convalidato ed adottato a livello comunitario un metodo alternativo, la direttiva fissa un termine massimo di 6 anni, elevato a 10 per gli esperimenti concernenti la tossicità da uso ripetuto, la tossicità riproduttiva e la tossicocinetica, per i quali, afferma la Direttiva, non sono ancora allo studio metodi alternativi.
Insomma, ancora 10 anni, salvo proroghe, di animali sfigurati da rossetti, intossicati da profumi, bruciati da creme. Eppure, sono già oltre 8.000 gli ingredienti per cosmetici già testati.
Come sempre, la latitanza del legislatore non giustifica l’ignavia dei singoli. Se i processi di globalizzazione tendono sempre più a renderci meri consumatori anziché cittadini, possiamo per lo meno essere consumatori critici. La Coalizione Europea contro la Vivisezione, un coordinamento di circa 50 associazioni animaliste europee e statunitensi (in Italia vi aderisce la LAV), ha proposto uno standard unico internazionale di riconoscimento dei prodotti che non incrementano oggi la sperimentazione sugli animali. Più di 150 aziende lo hanno sottoscritto, impegnandosi a non condurre né commissionare a terzi test su animali e a non comprare materie prime da fornitori che effettuino o facciano effettuare esperimenti sugli animali.
Riportiamo i nomi delle aziende presenti in Italia che hanno aderito all’impegno (l’elenco è tratto dal sito www.infolav.org, dove sono riportate anche tutte le altre aziende aderenti, seppur non presenti in Italia)
 


 

Almacabio-Bergland-Equo-Hedera Natur;      
Argiletz; 
Argital;    
Barry M; Bioforce;  
Biokosma;  
The Body Shop International;   
Borlind of Germany;   
Cibe Laboratori;   
D'Aymons;   
Dermotricos;  
Elizabeth van Buren Aromatherapy;  
Flora-Primavera;    
Helan;    
Honesty Cosmetics;    
Jardin de Paradis; 
John Paul Mitchell; 
L’Occitane;  
Lakshmi;   
L’Erbolario;  
Montagne Jeunesse;    
Nectar beauty shops;   
Pedrini-Lepo Line;   
Ram Raja;     
Rebis;    
W Urlich Weleda.

 
Un’ultima avvertenza: l’attuale normativa non assicura un’etichettatura ufficiale per i cosmetici non testati in alcun modo sugli animali  Si ricorda comunque che le espressioni comunemente riportate di “testato clinicamente” o “testato dermatologicamente” nulla chiariscono in ordine al ricorso a test su animali (significano solo, rispettivamente, che il prodotto è stato testato – anche?- su umani e sulla pelle). Ma visto che l’obbligo di sperimentazione riguarda gli ingredienti e non i prodotti finiti anche l’espressione “prodotto non testato su animali”  potrebbe essere riduttiva (riferirsi appunto soltanto al prodotto finito ma non ai suoi ingredienti). In tal senso la citata Direttiva 2003/15/CE prevede l’elaborazione di linee guida per un’etichettattura univoca, che non tragga in inganno il consumatore.
 
 
Per ulteriori informazioni:
www.novivisezione.it
www.animalisti.it
www.infolav.org


[1][1] Per restare all’uomo, è noto che anche i più comuni farmaci possono provocare risultati differenti a seconda degli individui. Destando grande scalpore, lo ha ammesso anche Allen Roses, dirigente di una delle più grandi ditte farmaceutiche mondiali, la GlaxoSmithKline (già, quella finita recentemente sotto inchiesta per pratiche “poco ortodosse” in materia di promozione dei suoi prodotti) secondo cui la stragrande maggioranza dei farmaci – il 90% - funziona soltanto per il 30-50% dei pazienti. Qualche esempio: i medicinali per l’Alzheimer sarebbero efficaci solo per il 30% dei pazienti; ancor più basse le cure oncologiche, con un 25% di efficacia; più efficaci sarebbero invece i farmaci per l’asma e le aritmie cardiache (60%), la depressione (62%) e gli analgesici (80%).
La stessa vicenda del prof. Di Bella conferma la diversa reattività per ogni individuo.
[2][2] L’Emilia Romagna ha approvato una legge che vieta la vivisezione a scopo scientifico su tutto il territorio regionale. Su ricorso del governo, tuttavia, la Corte Costituzionale proprio in questi giorni ha ritenuto illegittima tale normativa ritenendo che le regioni non possano vietare né allargare la sperimentazione sugli animali, che resta regolata dalla legge dello Stato.
[3][3] Quando si parla di alternativa alla vivisezione, ci si rifà alla formulazione proposta nel 1959 da due studiosi, Russel e Burch, fondata sulle 3 R: Raffinamento (refinement), cioè il ricorso a metodi che riducano le sofferenze degli animali, oppure l’utilizzo di specie meno evolute; Riduzione (reduction), quindi la mera diminuzione del numero degli animali impiegati; Rimpiazzamento (replacement), la sostituzione, appunto, degli animali con altre metodologie. Appare evidente che solo la terza è una vera e propria alternativa, mentre le altre due R hanno solo lo scopo di ridurre l’impatto della vivisezione.
[4][4] Nello scorso gennaio è stato pubblicato un sondaggio sulla vivisezione che la rivista Natural Style ha commissionato alla S&G Kaleidos di Milano. Dalle risposte, emerge una percentuale di intervistati contrari alla sperimentazione per i cosmetici del 77,3 % (contro il 22,7 % di favorevoli); tale contrarietà si riduce, nel caso di sperimentazione di farmaci, al 55,1% e ancora più al 38,7% se la sperimentazione riguarda farmaci salvavita. Nella maggior parte delle persone, è evidente, prevalgono quindi aspetti etici ed emotivi, mentre l’aspetto scientifico (la validità stessa del metodo vivisezione) è assente. L’80% degli intervistati, del resto, lamentava sulla materia l’insufficienza dell’informazione.