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Una Repubblica fondata sulle banche

di redazionale - 20/02/2007

 

Gli istituti di credito italiani valgono un quarto dell’intera Borsa di Milano

(oltre un settimo del pil). Sono ricchissimi perché raccolgono denaro

a basso costo e poi fanno le loro puntate in tutte le partite che contano

 

Repubblica ieri ha riferito del

possibile ingresso di IntesaSanpaolo nel capitale

di Olimpia, ipotesi che circola da

tempo sul mercato. L’eventualità che la banca

possa acquistare il 20 per cento della holding

che controlla Telecom rilancia non solo

il rovatismo, ma anche il tema del peso

del potere bancario sull’economia, la finanza,

l’industria e come elemento accessorio

l’intreccio con il sistema dell’informazione.

Dall’aprile 2005, quando iniziò l’offensiva

giudiziaria di AbnAmro per il controllo dell’Antonveneta,

il sistema bancario italiano

è profondamente cambiato. L’introduzione

di nuove norme di diritto societario e di

nuovi criteri contabili ha reso più trasparente

il rapporto fra banche e imprese, e

più difficili quei collateralismi che avevano

minato la reputazione delle banche italiane

(ed estere) con gli scandali finanziari, Parmalat

in testa. Con l’arrivo di Mario Draghi

la moral suasion, che Antonio Fazio aveva

esercitato con uno stile sostanzialmente dirigista,

è tornata a essere veto di ultima

istanza. La Banca d’Italia non pretende più

di essere messa preventivamente a conoscenza

dei progetti di integrazione. Quest’apertura

al mercato ha innescato una serie

di aggregazioni ancora non terminate, ma

non ha cambiato il bancocentrismo del sistema

capitalistico italiano.

L’assenza, finora, di fondi pensione e

l’apporto limitato da parte del capitale di

ventura rendono le banche interlocutore

unico, assieme alla Borsa, per le aziende in

cerca di finanziamento. A febbraio l’intera

capitalizzazione di Borsa ha superato gli

800 miliardi di euro, una percentuale che

corrisponde al 53 per cento circa del pil italiano.

Le banche quotate hanno una capitalizzazione

complessiva di poco meno di 264

miliardi di euro, più di un quarto del valore

dell’intera Borsa italiana e oltre un settimo

del pil. Questa cifra non comprende

importanti realtà non quotate come la Popolare

di Vicenza e Veneto Banca (che a

breve ingloberà la Popolare di Intra), l’intero

universo delle Casse di Risparmio (fatta

eccezione per la Cassa di Risparmio di

Firenze), né le Banche di credito cooperativo.

E non comprende nemmeno le banche

controllate da gruppi non bancari quotati

come, per esempio, Unipol Banca e Banca

Mediolanum. Ai 264 miliardi andrebbero

aggiunti 43,7 miliardi di capitalizzazione

delle Generali, che secondo l’Antitrust sono

di fatto gestite da Mediobanca, suo primo

azionista con una quota del 14,1 per

cento del capitale. Un peso, quello degli

istituti di credito, che è ben riflesso dalla

composizione dello S&P/Mib, l’indice più

rappresentativo di Borsa italiana. Delle 40

società che lo compongono, nove sono banche

(cui si deve aggiungere la solita Generali).

Il potere delle banche non deriva dalla

capitalizzazione ma soprattutto dalla ricchezza

di mezzi. Secono le stime dell’Abi,

l’intero universo bancario italiano al 31 dicembre

2006 poteva contare su una raccolta,

costituita da depositi e obbligazioni, pari

a 1.193,5 miliardi di euro. I soli depositi

da parte di clientela residente sono stimati

a 716 miliardi, poco meno della metà del

pil. Sui depositi, cioè i soldi giacenti sui

conti correnti, le banche pagano interessi

attivi che spesso non superano lo 0,25 per

cento netto. Un’inezia, se si pensa che il

tasso di riferimento della Banca centrale

europea è al 3,5 per cento. Le nostre banche,

quindi, sono cariche di munizioni

che pagano pochissimo. Non c’è praticamente

alcuna vicenda finanziaria che non

veda una o più banche giocare il ruolo di

ago della bilancia. Anche per questo il

fondo infrastrutturale F2I va maneggiato

con cura.