Il libro della settimana: Bruno Manghi, Fare del bene. Il piacere del dono e la generosità organizzata, Marsilio, Venezia 2007, pp.94, euro 8,00
“Io ho quel che ho donato”… Ecco il motto favorito di Gabriele D’Annunzio. Parole che oggi accolgono i visitatori all’ingresso del Vittoriale. Nel bellissimo libro di Claudia Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume (il Mulino), pubblicato qualche anno fa, si dedica un capitolo all’economia del dono praticata a Fiume… Dove si mostra come tra i legionari, capeggiati da un D’Annunzio, precursore di Alain Caillé, l’antiutilitarista francese, prevalesse l’etica del donare. O meglio, del ridistribuire gratuitamente, tra legionari e popolazione fiumana, quel che si incamerava “sequestrando”, in perfetto stile filibusta, navi di passaggio.
Si dirà: eccezione e non regola. Cose da nobilissimi ribelli in lotta con l’intera storia del Novecento. Certo. Ma con il Comandante, elegantissimo nei suoi cappotti dal collo di pelliccia, pronto a dividere il rancio con una truppa di giovani volontari dagli occhi ridenti ed eccitati. Per poi proclamare, solenne, come “Grande Uscocco” (pirata), l’assoluzione collettiva: “Non avete predato se non per donare. Io non ho mai predato se non per donare”.
In realtà, il dono non è un eccezione storica. E non riguarda solo le esperienze “estreme” come Fiume, che ne rappresentano comunque un momento “alto”. Le società, anche quelle “normali”, lo hanno sempre praticato. Si pensi al mondo “primitivo” regolato da meccanismi, volti a sublimare le guerre, e perciò legati allo scambio reciproco di doni rituali (collane, bracciali, cibi particolari). Oppure al mondo antico dove privati e ricchissimi, cittadini, di regola, donavano alla collettività acquedotti, templi, anfiteatri. E a quello tardo medievale, caratterizzato da anonimi e ricchi donatori, pronti a finanziare la costruzione di imponenti chiese. E poi, si ricordi, l’assistenza ai poveri: un fenomeno sociale che attraversa il medioevo e l’età moderna, prolungandosi fino ai nostri giorni, anche nell’ opera delle organizzazioni filantropiche laiche.
Esiste, insomma, nelle società una sfera del dono, che nel tempo si allarga e restringe, senza però mai scomparire.
A questo argomento è ora dedicato un interessante testo di Bruno Manghi, Fare del bene. Il piacere del dono e la generosità organizzata (Marsilio, Venezia 2007, pp. 94, euro 8,00).
La prima nota positiva è che l’autore, pur essendo sociologo, non fa uso del “sociologhese”. Probabilmente si è giovato della sua esperienza sindacale alla Cisl, come esperto ma anche formatore delle giovani leve, alle quali si deve parlare chiaro e forte… Di qui il suo stile, al tempo stesso, limpido, ironico ma anche distaccato.
Il secondo aspetto positivo è che Manghi è un realista. A suo avviso, esiste nell’uomo un generoso impulso al “far bene”, che “sembra essere una delle costanti della ‘natura umana’ in contrasto perenne con le azioni malvagie o con la semplice indifferenza” . Tuttavia, la spontanea disponibilità ad aiutare l’altro, non va mai sopravvalutata. Manghi non è perciò un dannunziano: non crede nella pur nobile arte dell’ improvvisazione eroica collettiva. Le società non possono reggersi solo sugli slanci di generosità. Serve sistematicità.
E veniamo così alla terza nota positiva. Che può essere articolata in tre punti.
In primo luogo, secondo Manghi, le odierne società “benestanti”, racchiudono “un potenziale di ricchezze, immateriali, di tempo di vita e ovviamente anche tecniche ed economiche, sconosciuto a generazioni precedenti, tale da moltiplicare l’offerta oblativa”. Un ricchezza che va perciò preservata. Dal momento che una società più si impoverisce più diventa avara. Pertanto “far bene” agli altri e neopauperismo non vanno d’accordo. Queste le sue conclusioni.
In secondo luogo, “la generosità privata”, oltre a richiedere condizioni economiche favorevoli, ha bisogno di punti di riferimento pubblici. Di riflesso, appena “le organizzazioni in qualche misura si istituzionalizzano e diventano capaci si attrarre con continuità risorse pubbliche e private”, deve imporsi una regolamentazione, ma anche una divisione funzionale dei compiti. Di qui la necessità se interpretiamo correttamente il suo pensiero, di riservare al pubblico la gestione di attività connesse all’esercizio diritti sociali (come l’assistenza medica diretta, prolungamento del diritto alla salute ) e invece di demandare alle organizzazioni di volontariato, altri compiti, come ad esempio nell’ambito della cura delle tossicodipendenze. Mentre le attività di pura filantropia ( si pensi campo delle adozioni a distanza), devono saldamente restare, come è logico, in mani private.
In terzo e ultimo luogo, Manghi è consapevole che “nessun progetto globale potrà mai catturare l’universo delle buone azioni, spontanee e arbitrarie”. Perciò anche quando “una buona politica pubblica sarà riuscita a captare una parte delle energie private, altre polemicamente si costituiranno fuori di quel perimetro, chiedendo anch’esse d’essere legittimate e aiutate”. Il che spiega il perenne insorgere di nuovi conflitti tra prudenza dello Stato e, diciamo così, dannunziana generosità dei privati. Si pensi solo alle interferenze tra aiuti pubblici e privati, che regolarmente si ripetono in occasione di grandi emergenze internazionali, come un terremoto ad esempio.
Probabilmente il merito maggiore di questo libro è rappresentare plasticamente, due forze sociali, primordiali e in lotta: da un lato, la creatività umana, che si manifesta nella volontà collettiva del “fare del bene”; dall’altro, l’ordine politico, che paradossalmente deve arginarne agli eccessi. I “comportamenti generosi” - ecco in breve la tesi di Manghi - non devono mai diventare “occasioni per nuove profezie”.
In conclusione, ogni eccesso, anche quello di volere a tutti i costi il bene dell’altro, può ottenere l’effetto contrario. Insomma, noi abbiamo quel che abbiamo donato, come notava D’Annunzio, ma a patto - ci scusi, di lassù, Comandante - che i doni siano graditi e liberamente accettati.
Si dirà: eccezione e non regola. Cose da nobilissimi ribelli in lotta con l’intera storia del Novecento. Certo. Ma con il Comandante, elegantissimo nei suoi cappotti dal collo di pelliccia, pronto a dividere il rancio con una truppa di giovani volontari dagli occhi ridenti ed eccitati. Per poi proclamare, solenne, come “Grande Uscocco” (pirata), l’assoluzione collettiva: “Non avete predato se non per donare. Io non ho mai predato se non per donare”.
In realtà, il dono non è un eccezione storica. E non riguarda solo le esperienze “estreme” come Fiume, che ne rappresentano comunque un momento “alto”. Le società, anche quelle “normali”, lo hanno sempre praticato. Si pensi al mondo “primitivo” regolato da meccanismi, volti a sublimare le guerre, e perciò legati allo scambio reciproco di doni rituali (collane, bracciali, cibi particolari). Oppure al mondo antico dove privati e ricchissimi, cittadini, di regola, donavano alla collettività acquedotti, templi, anfiteatri. E a quello tardo medievale, caratterizzato da anonimi e ricchi donatori, pronti a finanziare la costruzione di imponenti chiese. E poi, si ricordi, l’assistenza ai poveri: un fenomeno sociale che attraversa il medioevo e l’età moderna, prolungandosi fino ai nostri giorni, anche nell’ opera delle organizzazioni filantropiche laiche.
Esiste, insomma, nelle società una sfera del dono, che nel tempo si allarga e restringe, senza però mai scomparire.
A questo argomento è ora dedicato un interessante testo di Bruno Manghi, Fare del bene. Il piacere del dono e la generosità organizzata (Marsilio, Venezia 2007, pp. 94, euro 8,00).
La prima nota positiva è che l’autore, pur essendo sociologo, non fa uso del “sociologhese”. Probabilmente si è giovato della sua esperienza sindacale alla Cisl, come esperto ma anche formatore delle giovani leve, alle quali si deve parlare chiaro e forte… Di qui il suo stile, al tempo stesso, limpido, ironico ma anche distaccato.
Il secondo aspetto positivo è che Manghi è un realista. A suo avviso, esiste nell’uomo un generoso impulso al “far bene”, che “sembra essere una delle costanti della ‘natura umana’ in contrasto perenne con le azioni malvagie o con la semplice indifferenza” . Tuttavia, la spontanea disponibilità ad aiutare l’altro, non va mai sopravvalutata. Manghi non è perciò un dannunziano: non crede nella pur nobile arte dell’ improvvisazione eroica collettiva. Le società non possono reggersi solo sugli slanci di generosità. Serve sistematicità.
E veniamo così alla terza nota positiva. Che può essere articolata in tre punti.
In primo luogo, secondo Manghi, le odierne società “benestanti”, racchiudono “un potenziale di ricchezze, immateriali, di tempo di vita e ovviamente anche tecniche ed economiche, sconosciuto a generazioni precedenti, tale da moltiplicare l’offerta oblativa”. Un ricchezza che va perciò preservata. Dal momento che una società più si impoverisce più diventa avara. Pertanto “far bene” agli altri e neopauperismo non vanno d’accordo. Queste le sue conclusioni.
In secondo luogo, “la generosità privata”, oltre a richiedere condizioni economiche favorevoli, ha bisogno di punti di riferimento pubblici. Di riflesso, appena “le organizzazioni in qualche misura si istituzionalizzano e diventano capaci si attrarre con continuità risorse pubbliche e private”, deve imporsi una regolamentazione, ma anche una divisione funzionale dei compiti. Di qui la necessità se interpretiamo correttamente il suo pensiero, di riservare al pubblico la gestione di attività connesse all’esercizio diritti sociali (come l’assistenza medica diretta, prolungamento del diritto alla salute ) e invece di demandare alle organizzazioni di volontariato, altri compiti, come ad esempio nell’ambito della cura delle tossicodipendenze. Mentre le attività di pura filantropia ( si pensi campo delle adozioni a distanza), devono saldamente restare, come è logico, in mani private.
In terzo e ultimo luogo, Manghi è consapevole che “nessun progetto globale potrà mai catturare l’universo delle buone azioni, spontanee e arbitrarie”. Perciò anche quando “una buona politica pubblica sarà riuscita a captare una parte delle energie private, altre polemicamente si costituiranno fuori di quel perimetro, chiedendo anch’esse d’essere legittimate e aiutate”. Il che spiega il perenne insorgere di nuovi conflitti tra prudenza dello Stato e, diciamo così, dannunziana generosità dei privati. Si pensi solo alle interferenze tra aiuti pubblici e privati, che regolarmente si ripetono in occasione di grandi emergenze internazionali, come un terremoto ad esempio.
Probabilmente il merito maggiore di questo libro è rappresentare plasticamente, due forze sociali, primordiali e in lotta: da un lato, la creatività umana, che si manifesta nella volontà collettiva del “fare del bene”; dall’altro, l’ordine politico, che paradossalmente deve arginarne agli eccessi. I “comportamenti generosi” - ecco in breve la tesi di Manghi - non devono mai diventare “occasioni per nuove profezie”.
In conclusione, ogni eccesso, anche quello di volere a tutti i costi il bene dell’altro, può ottenere l’effetto contrario. Insomma, noi abbiamo quel che abbiamo donato, come notava D’Annunzio, ma a patto - ci scusi, di lassù, Comandante - che i doni siano graditi e liberamente accettati.