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Il libro della settimana: Bruno Manghi, Fare del bene. Il piacere del dono e la generosità organizza

di Carlo Gambescia - 21/02/2007

Il libro della settimana: Bruno Manghi, Fare del bene. Il piacere del dono e la generosità organizzata, Marsilio, Venezia 2007, pp.94, euro 8,00

“Io ho quel che ho donato”… Ecco il motto favorito di Gabriele D’Annunzio. Parole che oggi accolgono i visitatori all’ingresso del Vittoriale. Nel bellissimo libro di Claudia Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume (il Mulino), pubblicato qualche anno fa, si dedica un capitolo all’economia del dono praticata a Fiume… Dove si mostra come tra i legionari, capeggiati da un D’Annunzio, precursore di Alain Caillé, l’antiutilitarista francese, prevalesse l’etica del donare. O meglio, del ridistribuire gratuitamente, tra legionari e popolazione fiumana, quel che si incamerava “sequestrando”, in perfetto stile filibusta, navi di passaggio.
Si dirà: eccezione e non regola. Cose da nobilissimi ribelli in lotta con l’intera storia del Novecento. Certo. Ma con il Comandante, elegantissimo nei suoi cappotti dal collo di pelliccia, pronto a dividere il rancio con una truppa di giovani volontari dagli occhi ridenti ed eccitati. Per poi proclamare, solenne, come “Grande Uscocco” (pirata), l’assoluzione collettiva: “Non avete predato se non per donare. Io non ho mai predato se non per donare”.
In realtà, il dono non è un eccezione storica. E non riguarda solo le esperienze “estreme” come Fiume, che ne rappresentano comunque un momento “alto”. Le società, anche quelle “normali”, lo hanno sempre praticato. Si pensi al mondo “primitivo” regolato da meccanismi, volti a sublimare le guerre, e perciò legati allo scambio reciproco di doni rituali (collane, bracciali, cibi particolari). Oppure al mondo antico dove privati e ricchissimi, cittadini, di regola, donavano alla collettività acquedotti, templi, anfiteatri. E a quello tardo medievale, caratterizzato da anonimi e ricchi donatori, pronti a finanziare la costruzione di imponenti chiese. E poi, si ricordi, l’assistenza ai poveri: un fenomeno sociale che attraversa il medioevo e l’età moderna, prolungandosi fino ai nostri giorni, anche nell’ opera delle organizzazioni filantropiche laiche.
Esiste, insomma, nelle società una sfera del dono, che nel tempo si allarga e restringe, senza però mai scomparire.
A questo argomento è ora dedicato un interessante testo di Bruno Manghi, Fare del bene. Il piacere del dono e la generosità organizzata (Marsilio, Venezia 2007, pp. 94, euro 8,00).
La prima nota positiva è che l’autore, pur essendo sociologo, non fa uso del “sociologhese”. Probabilmente si è giovato della sua esperienza sindacale alla Cisl, come esperto ma anche formatore delle giovani leve, alle quali si deve parlare chiaro e forte… Di qui il suo stile, al tempo stesso, limpido, ironico ma anche distaccato.
Il secondo aspetto positivo è che Manghi è un realista. A suo avviso, esiste nell’uomo un generoso impulso al “far bene”, che “sembra essere una delle costanti della ‘natura umana’ in contrasto perenne con le azioni malvagie o con la semplice indifferenza” . Tuttavia, la spontanea disponibilità ad aiutare l’altro, non va mai sopravvalutata. Manghi non è perciò un dannunziano: non crede nella pur nobile arte dell’ improvvisazione eroica collettiva. Le società non possono reggersi solo sugli slanci di generosità. Serve sistematicità.
E veniamo così alla terza nota positiva. Che può essere articolata in tre punti.
In primo luogo, secondo Manghi, le odierne società “benestanti”, racchiudono “un potenziale di ricchezze, immateriali, di tempo di vita e ovviamente anche tecniche ed economiche, sconosciuto a generazioni precedenti, tale da moltiplicare l’offerta oblativa”. Un ricchezza che va perciò preservata. Dal momento che una società più si impoverisce più diventa avara. Pertanto “far bene” agli altri e neopauperismo non vanno d’accordo. Queste le sue conclusioni.
In secondo luogo, “la generosità privata”, oltre a richiedere condizioni economiche favorevoli, ha bisogno di punti di riferimento pubblici. Di riflesso, appena “le organizzazioni in qualche misura si istituzionalizzano e diventano capaci si attrarre con continuità risorse pubbliche e private”, deve imporsi una regolamentazione, ma anche una divisione funzionale dei compiti. Di qui la necessità se interpretiamo correttamente il suo pensiero, di riservare al pubblico la gestione di attività connesse all’esercizio diritti sociali (come l’assistenza medica diretta, prolungamento del diritto alla salute ) e invece di demandare alle organizzazioni di volontariato, altri compiti, come ad esempio nell’ambito della cura delle tossicodipendenze. Mentre le attività di pura filantropia ( si pensi campo delle adozioni a distanza), devono saldamente restare, come è logico, in mani private.
In terzo e ultimo luogo, Manghi è consapevole che “nessun progetto globale potrà mai catturare l’universo delle buone azioni, spontanee e arbitrarie”. Perciò anche quando “una buona politica pubblica sarà riuscita a captare una parte delle energie private, altre polemicamente si costituiranno fuori di quel perimetro, chiedendo anch’esse d’essere legittimate e aiutate”. Il che spiega il perenne insorgere di nuovi conflitti tra prudenza dello Stato e, diciamo così, dannunziana generosità dei privati. Si pensi solo alle interferenze tra aiuti pubblici e privati, che regolarmente si ripetono in occasione di grandi emergenze internazionali, come un terremoto ad esempio.
Probabilmente il merito maggiore di questo libro è rappresentare plasticamente, due forze sociali, primordiali e in lotta: da un lato, la creatività umana, che si manifesta nella volontà collettiva del “fare del bene”; dall’altro, l’ordine politico, che paradossalmente deve arginarne agli eccessi. I “comportamenti generosi” - ecco in breve la tesi di Manghi - non devono mai diventare “occasioni per nuove profezie”.
In conclusione, ogni eccesso, anche quello di volere a tutti i costi il bene dell’altro, può ottenere l’effetto contrario. Insomma, noi abbiamo quel che abbiamo donato, come notava D’Annunzio, ma a patto - ci scusi, di lassù, Comandante - che i doni siano graditi e liberamente accettati.

martedì, febbraio 20, 2007

La cultura ideologica dell' "antismo": antiamericanismo, antifascismo, anticomunismo

La dura polemica politica, tuttora in corso, sulle frange “antiamericaniste” presenti nel governo di centrosinistra impone di riflettere sulla pericolosità dell’ ”antismo”. Un termine, da noi coniato, prendendo spunto dal prefisso “anti”. Ma cerchiamo prima di scoprirne il significato sotto l’aspetto linguistico.
Sul piano definitorio è sufficiente aprire un qualsiasi dizionario, per scoprire che il prefisso "anti" indica “opposizione”, “avversione”. E che deriva dal greco ante.
Ma andiamo più a fondo.
Il termine “anti” appartiene alla cultura politica novecentesca, e ne riflette la natura dannosamente conflittuale, soprattutto sul piano culturale: quello del costruttivismo ideologico totalitario racchiuso nell' espressione: "se le mie idee non sono in linea con i fatti, tanto peggio per i fatti". Un'enfasi costruttivistica che ritroviamo in tre "antismi": antifascismo, anticomunismo, antiamericanismo.
Ovviamente, la nostra è una pura e semplice ricognizione, priva di qualsiasi pretesa di completezza scientifica. Deve rappresentare un puro stimolo per ulteriori e più approfondite indagini.
Il termine antifascismo, come “avversione al fascismo” viene fatto risalire a Mussolini: “Chi è contrario al fascismo” (1920) [Si veda M. Cortelazzo e P. Zoli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1990, vol. I, p. 60].
Il termine anticomunismo, che a grande linee, risale al periodo tra le due guerre mondiali, è per la prima volta definito chiaramente, come “avversione al comunismo” - per l’area linguistica italiana da Paolo Alatri, storico comunista, sulla rivista “Rinascita” (1946) [ si veda M. Cortelazzo e P. Zoli, op. cit, vol. I, p. 59].
Il termini antiamericanismo, non è ancora largamente presente nei dizionari. Difficile perciò ricostruirne con precisione le origini storiche e linguistiche, anche solo per l’Italia. Ad esempio nel Dizionario della lingua italiana , La Biblioteca del Sapere - Corriere della Sera, Milano-Bologna- Bergamo 2004 (già Sabatini Colletti), che abbiamo a portata di mano, “Antiamericano” è chiunque sia “contrario, polemico, con la politica, la cultura, l’ideologia dominante negli Stati Uniti d’ America; riferito a uno stato, a un partito avversario degli Stati Uniti”. E lo si fa risalire, senza ulteriori spiegazioni storiche al 1985 [ vol. 23-I, p. 196]. In realtà, e stando agli storici, il termine, e non solo per l’Italia, risale agli anni Trenta del Novecento, e agli ambienti fascisti e comunisti [ si vedano i lavori di Michela Nacci: L’antimericanismo in Italia negli anni Trenta, Bollati Boringhieri, Torino 1989 La barbarie del comfort. Il Modello di vita americano nella cultura francese del Novecento, Guerini e Associati, Milano 1996]. Per quello che invece riguarda la sua accezione contemporanea, la data più verosimile sembra essere il 1987. Ne parlò per primo l’ambasciatore americano Price, che in un articolo apparso all'epoca sul Guardian, definì “l’antiamericanismo (…) un modo di sentire amorfo, totalmente soggettivo (…), difficile che si trovi un accordo sul darne una definizione accettabile”. Il che però non toglieva - queste le sue conclusioni - che “oggi ne vedo moltissimo, in Inghilterra e in Europa” [ L’antiamericanismo in Italia e in Europa nel secondo dopoguerra, a cura di P. Craveri e G. Quagliariello, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, p. 73].
E qui purtroppo, anche per ragioni di leggibilità del “post”, dobbiamo fermarci. Ci scusiamo, naturalmente, per la premessa filologica-storica e storica e per le pedanti citazioni. Le quali, tuttavia, suggeriscono le seguenti conclusioni.
In primo luogo, il prefisso “anti” privilegia una concezione del mondo totalitaria. Chi è "anti" è radicalmente contrario alla concezione che reputa opposta alla sua. Che, subito però viene difesa, con altrettanta violenza da chi subisce l'attacco. E così via, lungo una spirale dell’odio. Il che significa, sul piano della cultura politica, la fine di ogni libero dibattito.
In secondo luogo, quanto sopra, mostra la natura ideologica dell’ “antismo”, e soprattutto come sia legato a una forma di comunicazione politica fortemente simbolica, nata in un “secolo di ferro” volta a squalificare totalmente il nemico, mettendolo completamente fuori gioco. A ogni costo, anche limitando la democrazia. Il che significa, sul piano della pratica politica, la fine di ogni libera partecipazione.
In terzo luogo, come abbiamo già accennato, condividere l’ “antismo” significa, in certo senso, autorizzare, il “nemico” a farne uso, a sua volta. E qui, ad esempio, si pensi alle guerre, non solo ideologiche, tra comunisti “antiamericani” da una parte, e “antifascisti” “anticomunisti” ma non antiamericani dall’altra. Gli uni odiano gli altri, come nemici “ assoluti”. Il che ha provocato e provoca l’ imbarbarimento progressivo del conflitto politico, perché all’avversario, al quale si dovrebbe in qualche misura umano rispetto, si sostituisce meccanicamente il nemico assoluto, da sterminare per ragioni di barbara prevalenza ideologica.
Ora, dovrebbe essere chiaro quanto l’ ”antismo” sia pericoloso. E continuare a screditare i movimenti “antiamericani”, enfatizzandone per ragioni ideologiche la pericolosità, ne favorisce, oggettivamente, la radicalizzazione.
L’ ”antismo” è una strada senza ritorno.