Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Non chiamatelo Muro

Non chiamatelo Muro

di Ran Ha Cohen - 21/02/2007

 
 
Una manifestazione contro la carcerazione in atto a Jayyus

Ran Ha Cohen insegna all’università di Tel Aviv.
E’ uno degli ebrei di rilievo che sono contrari all’occupazione genocida.
Non lo vedrete mai pubblicato sui grandi media.

PALESTINA - Un anno fa, invitai i lettori a dimenticarsi della «Road-Map per la pace» del presidente Bush - verso cui fu sprecata tanta attenzione, all’epoca, e che ora è lettera morta - ed a concentrarsi sulla mappa reale della Palestina, radicalmente mutata dalla costruzione del Muro di Apartheid israeliano, virtualmente ignorata dai media internazionali.
E’ passato un anno, ed il silenzio è stato rotto: grazie al lavoro di molti giornalisti di coscienza, grazie agli sforzi palestinesi culminati nella denuncia del Muro presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, che dovrà presto decidere sulla sua legalità e - infine ma non meno importante - grazie alle migliaia di attivisti palestinesi, israeliani ed internazionali, di Ta’ayush, Gush Shalom ed altri gruppi, le cui manifestazioni non violente e quotidiane vengono disperse con crudele brutalità dall’esercito israeliano.
Il Muro è oggi sull’agenda, come dovrebbe.
Ma si tratta, in realtà, di un Muro?


Termini contrastanti
Il termine è stato controverso sin dall’inizio: «Il Muro di Apartheid» è il nome palestinese per ciò che gli israeliani chiamano «Barriera di separazione» o «di sicurezza».
Preferisco il termine palestinese: «barriera» è un ridicolo eufemismo per un muro di cemento armato alto 8 metri con un’ampia «striscia di sicurezza» larga 100 metri, tanto per cominciare. Attualmente, l’arsenale di sorveglianza include non solo vedette e telecamere, ma sta sviluppando anche armi automatiche telecomandate che, come fieramente riporta la stampa israeliana, permetterà a gentili soldatesse di sparare ad ogni «movimento sospetto» (leggi: essere umano) mentre sono comodamente sedute, dietro un monitor, in un ufficio con aria condizionata a molte miglia di distanza.
Per l’industria dell’assassinio, l’unico limite è il cielo.
In realtà, entrambi i termini - Barriera e Muro - sono fuorvianti.
Anche se la maggior parte della gente sa che il Muro non viene costruito lungo la Linea Verde, ma nella profondità del territorio palestinese, annettendone de facto ad Israele una gran parte (un terzo?), sia barriera che muro suggeriscono un qualche tipo di linea contigua con i palestinesi da un lato e gli israeliani dall’altro.
«Noi qui, loro lì», come dichiarava lo slogan elettorale di Barak.
Ma è questo ciò che sta accadendo?
No davvero.
La realtà è molto più orribile.


Cosa è il Muro in realtà
Date un’occhiata alla seguente mappa, adattata da un recente articolo di Amira Hass (Ha’aretz, 25 giugno 2004).



Essa mostra un piccolo dettaglio del Muro, nel cosiddetto Triangolo Cristiano a sud di Gerusalemme.
Le linee rosse sono il Muro - in parte già costruito, in parte in costruzione, in parte da costruire.
Ora date un’occhiata ai quattro villaggi palestinesi a sinistra: Nahalin, Hussan, Batir, Walaja.
Su quale lato del Muro si trovano?
Ovviamente, una domanda sbagliata.
Essi sono, in realtà, circondati dal Muro, intrappolati da tutti i lati.
Batir ed Hussan insieme, Nahalin e Walaja ognuno per conto suo.
Considerate la scala: attraversare ciascuna delle enclavi, da un muro all’altro, richiede 10-20 minuti di cammino.
Ogni abitante di questi villaggi non è mai lontano dal muro per più di un chilometro.
Non solo le terre agricole, ma le scuole, gli ospedali, le cliniche, i mercati, i negozi, i luoghi di lavoro, per non menzionare quelli di svago, sono tutti fuori.
Per uscire, bisogna passare da un cancello, attraverso un checkpoint dell’esercito israeliano.
Il cancello sarà probabilmente chiuso - perché è aperto solo per un paio d’ore al giorno, o perché qualcuno ha deciso di dichiarare lo stato di massima allerta, o perché è una festività ebraica, o perché il soldato incaricato non si è svegliato in tempo.
E se accade che il cancello è aperto, il soldato potrà lasciarti passare (se hai il permesso necessario) oppure no (per qualsiasi motivo, o senza alcun motivo), oppure chiederti qualcosa in cambio: un piccolo regalo, o maledire Maometto, Gesù o Arafat, o una mancia dal tuo vicino o da tuo fratello. Se il tuo lavoro, la tua salute o la vita di tuo figlio dipendono dall’uscire, farai qualunque cosa.
La stessa cosa accade se vuoi entrare nel villaggio - in qualità di ospite, guidatore di camion, elettricista o medico.


Ci sono dozzine di villaggi accerchiati in questo modo in tutta la Cisgiordania.
Danny Rubinstein fa un rapporto su circa 200.000 palestinesi abitanti a nord di Gerusalemme, molti dei quali in possesso di carta d’identità israeliana, tutti completamente dipendenti dalla città per le scuole, gli ospedali ed i posti di lavoro, tutti costretti a passare attraverso l’unico checkpoint - quello di Kalandiya, sovraffollato e sporco: «I residenti di queste periferie sono stati inoltre informati dell’ulteriore costruzione di barriere interne che forniranno il passaggio per gli insediamenti. Queste barriere, la seconda fase del progetto del muro di separazione, creeranno cinque grandi isole in cui la popolazione palestinese verrà concentrata in ghetti» (Ha'aretz, 27 giugno 2004).
Talvolta le case sono recintate individualmente: Il Canale 2 della TV israeliana (25 giugno 2004) ha recentemente riportato di due case ai margini di un villaggio palestinese, attorno al quale è cresciuto un insediamento ebraico.
Le due famiglie sono state dunque circondate dalla «loro» barriera, che le separa per tre lati dall’insediamento ebraico e per il quarto lato dal resto del loro (circondato) villaggio.
Dunque questa non è l’eccezione: è la regola.
Tutti i palestinesi saranno rinchiusi tra queste barriere, ed i più fortunati avranno solo una gabbia più spaziosa.
La collocazione del muro segue la consueta regola empirica di Israele: il minimo della terra per i palestinesi, il massimo per gli ebrei.
I muri sono costruiti a pochi metri di distanza dalle ultime case di un villaggio, ma, in molti casi, le case vengono distrutte per fare spazio.
Persino i campi coltivati e le sorgenti d’acqua vengono lasciate al di fuori del muro, così che non possano più essere accessibili per i loro proprietari.
Sulla mappa si può vedere chiaramente come tutte le aree aperte siano assegnate all’insediamento israeliano di Gilo, Har Gilo o Betar Illit, mentre ai villaggi ed alle città arabe non viene lasciato un centimetro di terra libero.


«Muro» è un termine non appropriato
Ora, questo non è né una barriera né un Muro.
Proprio come non si può chiamare «libro» un foglio o «farina» un pezzo di pane, questo non può essere chiamato Muro.
Ciò che Israele sta costruendo in Cisgiordania è fatto di mura e barriere, ma non è un muro, né una barriera.
E’ qualcosa di molto diverso.
Non sono sicuro del nome appropriato: ghetti?
Centri di detenzione extra-giudiziaria?
Prigioni all’aria aperta?
Una rete di gabbie per umani?
Non sono certo che vi sia un nome appropriato e non sono certo che abbia un  precedente, nella storia dell’uomo.
Non solo non ha nulla a che fare con il Muro di Berlino, che al confronto è una miniatura, ha anche molto poco a che fare con i Bantustan dell’apartheid, i quali erano ciascuno di decine di migliaia di chilometri quadrati.
Le gabbie della Cisgiordania coprono pochi ettari ciascuna, che rappresenta qualcosa di molto differente.
Decenni fa, un argomento comune per Israele era che la Cisgiordania e la Striscia di Gaza erano troppo piccole per uno Stato palestinese praticabile.
Sia come sia, nessuno può sostenere che una gabbia di 2x2 chilometri, senza alcun servizio pubblico, senza riserve di terra per costruirvi case, senza campi, con un cancello custodito da un esercito ostile sia un luogo possibile in cui vivere.
Le autorità israeliane lo sanno molto bene; dopo tutto, la loro avidità di terra è insaziabile.
La loro intenzione è chiara: prima o poi, la popolazione disperatamente ingabbiata dovrà andare via, semplicemente per sfuggire alla morte per fame.
Questa è pulizia etnica, rendere la vita impossibile cosicché i palestinesi siano costretti ad andare via.
Più ci avviciniamo alla Linea Verde ed agli insediamenti più grandi, più piccole diventano le gabbie.
Queste sono le aree che Israele desidera di più, dunque le condizioni di vita dovrebbero spingere gli indigeni palestinesi ad andare via il più presto possibile.


Coloro che sono interessati ad una giusta pace in Medio Oriente dovrebbero quindi cercare
un termine appropriato per la rete di gabbie che sono in costruzione in Cisgiordania, un termine che rifletta la sua vera natura, ed iniziare una massiccia campagna per spiegarne il significato.
Non è separazione, ma una distruzione sistematica ed intenzionale delle condizioni basilari che rendono possibile la vita umana, la quale condurrà ad una fame di massa - o alla pulizia etnica.