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Gli idrocarburi rovinano le acque

di Marinella Correggia - 21/02/2007

 
Mortale per l'acqua è l'intreccio con gli idrocarburi. Secondo un rapporto dell'agenzia inglese di consulenti Wood Mackenzie, di cui dà nota il Financial Times, «oltre il 2020 probabilmente il petrolio e il gas convenzionali non saranno in grado di coprire la crescita della domanda, e questa sarà soddisfatta da fonti «non convenzionali» quali sabbie e scisti bitiminosi, come quelli abbondanti in Canada e Orinoco (Venezuela)». A partire da quelle la produzione di petrolio è costosa, difficoltosa e (ancora più) pesante per l'ambiente. Occorrono infatti grandi quantità di gas e di acqua per ricavare da questo bitume inutilizzabile un petrolio pesante di bassa qualità, tanto che alla fine il processo potrebbe assomigliare alla conversione dell'oro in piombo. Molta energia serve per scaldare l'acqua necessaria a lavorare le sabbie bituminose, e molta acqua calda serve a estrarre il petrolio dalla sabbia, prima ridotta a fanghiglia grazie alla mescolanza con l'acqua, poi pompata in impianti dove si estrae il bitume, aggiungendo acqua ancora più calda per scremare il bitume. La quantità di acqua utilizzata è multipla rispetto a quella del petrolio ricavato. E, come è ormai noto da tante lotte in corso, l'acqua usata e calda va poi a inquinare irrimediabilmente intere aree. Anche i giganti del petrolio ammettono che la scarsità di risorse idriche potrebbe, al crescere dell'attività di estrazione, diventare un problema. (E non solo per i petrolieri...).
Passo successivo, le raffinerie. Che usano volumi di acqua elevati, in particolare per i sistemi di raffreddamento. L'acqua di scarico dall'industria petrochimica contiene solitamente prodotti chimici pericolosi, come idrocarburi, fenolo o azoto ammoniacale tra gli altri.
E veniamo all'acqua di mare, contaminata dal trasporto marittimo degli idrocarburi. Che la situazione sia emergenziale nel Mediterraneo lo ha affermato anche un rapporto dell'Unione Petrolifera italiana del 2005 (Traffico petrolifero e sostenbiilità ambientale): la media di catrame pelagico è di 38 milligrammi al metro quadrato, la più elevata al mondo (seguono Mar dei Sargassi e Mar del Giappone).

Del nesso idrocarburi-petrolio ha parlato ieri l'esperto di ambiente marino Renato Grimaldi intervenendo alla conferenza-seminario di Rifondazione Comunista «Clima, energia: priorità della politica». Il Mediterraneo, piccolo mare semichiuso, con lentissimo ricambio delle acque (solo quelle superficiali impiegano un secolo per rinnovarsi), si vede arare dal 25-30% del traffico mondiale di idrocarburi: 250 petroliere al giorno. Il 10% degli idrocarburi del mondo transita per i porti italiani, soprattutto Cagliari, Genova, Augusta e Trieste. Oltre al rischio di incidenti, è fortissimo l'impatto prodotto da operazioni «ordinarie» (vietate, ma non ci sono controlli) quali il lavaggio in mare delle cisterne e il rilascio dell'acqua di zavorra. Il catrame è ormai stratificato sui fondali marini.
Gli Stati uniti, invece, sono all'avanguardia nella tutela dei loro mari. Quando nel 1989, in Alaska, dalla Exxon Valdez si sversarono in mare 40.000 tonnellate di petrolio, le reazioni furono durissime e i responsabili dovettero pagare un miliardo di dollari di risarcimento e due miliardi per le spese di bonifica. Nel frattempo fu assolutamente vietato il passaggio in acque Usa di qualunque nave non in sicurezza. Risultato: le carrette del mare si sono riversate sui tragitti mediterranei. In Italia, dopo il disastro della Havel (seguito a quello della Moby Prince) il risarcimento è stato molto inferiore: 120 miliardi di vecchie lire per 140.000 tonnellate di idrocarburi finite in mare. Oggi dopo 16 anni è tutto come allora. Il proprietario del carico non risponde mai dei danni, e sceglie le economiche carrette. Oltretutto: fino a quando ce la farà a resistere contro il catrame il fitoplacton, alga unicellulare che è alla base della catena alimentare marina e che operando la fotosintesi fa sì che i mari del pianeta assorbano il 33% della Co2 totale emessa?