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Di chi è la proprietà intellettuale del virus dell´aviaria?

di Diego Barsotti - 22/02/2007

Una riflessione insieme a Marcello Cini: mentre i consumatori sono sempre più provvisori e virtuali, l´Indonesia ritorce le regole del mercato (e delle multinazionali) contro i Paesi occidentali: la conoscenza del virus in cambio del futuro vaccino
La conoscenza è ormai ridotta a merce. Lo conferma drammaticamente il caso del virus dell’aviaria: l’H5N1, la versione più pericoloso di questo virus, è un prodotto della natura ed è di tutti, ma le capacità di studiarlo è concentrata nei Paesi più ricchi che possono quindi applicare la conoscenza per farne vaccini con cui difendersi, ma anche con cui farsi pagare ad alto prezzo dai Paesi in via di sviluppo dove il virus è nato.

L’Indonesia questa volta ha detto no: ha rifiutato di mandare all’Organizzazione mondiale della sanità i tessuti degli animali morti, proponendo uno scambio alla pari: la biodiversità indonesiana (cioè il virus) in cambio di farmaci garantiti e a prezzo contenuto. La situazione può essere letta in due modi: lotta per sopravvivere (se un giorno scoppiasse la pandemia come acquisterebbero i farmaci i cittadini dei paesi in via si sviluppo?) oppure come atteggiamento egoistico e ricattatorio che mercifica - ulteriormente - la conoscenza.

Ne abbiamo parlato con Marcello Cini, fisico, saggista, padre della cultura ambientalista, membro del comitato scientifico di Legambiente

Come legge questa ennesima contraddizione in fatto di libera circolazioni delle informazioni scientifiche?
«In qualche modo queste notizie che provengono dall’Indonesia confermano quello che sto dicendo da parecchi anni, perché non si parla neppure più di informazioni scientifiche, ma addirittura della riduzione a merce della conoscenza, un elemento tanto più delicato quando come in questo caso ne va della salute umana.

Ci spieghi che cosa sta accadendo.
«Questo è effettivamente un caso da manuale. Il virus è in Indonesia, ed è in Indonesia quindi anche la conoscenza sul dna che permetterebbe di fabbricare il vaccino. Normalmente queste conoscenze si pubblicano e poi che le vuole e le può applicare lo fa, fino ad arrivare a brevettare non certo la conoscenza in sé, ma il modo in cui questa conoscenza si applica.
Ma in questo caso la conoscenza non è libera, è diventata a tutti gli effetti merce e si abusa di un patrimonio che invece è dell’umanità».

Quindi ritiene che l’atteggiamento indonesiano sia un abuso?
«L’Indonesia approfitta del fatto che per una volta ha il coltello dalla parte del manico e non i Paesi ricchi, che con le loro multinazionali hanno finora fatto le regole: il virus viene mandato gratis all’Oms, l’Oms lo cede alle multinazionali, che poi realizzano il vaccino e lo fanno pagare a un prezzo insostenibile per i paesi asiatici. Così invece si tratta di trovare degli accordi».

Ma è ancora possibile la libera circolazione della conoscenza? E questo caso influirà in modo positivo o negativo?
«La situazione di oggi dimostra la perversità della nostra economia e impone una regolamentazione mondiale in tal senso. Se si pensa che in America l’economia della conoscenza rappresenta oggi la metà del pil, possiamo renderci conto della follia di ridurre tutto a merce. Da sempre l’umanità basa la propria esistenza sulla condivisione delle conoscenze e invece oggi ci stanno imponendo di violentare questa natura: un giorno con questa storia della proprietà intellettuale potrebbero imporci di pagare delle royalties ai discendenti di Prometeo per ogni volta che accendiamo il fuoco».

Quali sono le azioni per riappropriarci del nostro diritto alla conoscenza?
«Bisogna demercificare e scendendo nel particolare è necessario che l’ufficio brevetti degli Stati Uniti non sia più quello che è oggi: ovvero quello che regola oggi l’economia della conoscenza senza controllo senza democrazia senza giustizia dei popoli, acuendo le disuguaglianze e i mali per i poveri a favore dei detentori dei profitti. Le regole non possono essere solo quelle del mercato, servono regole nuove, decise e valide da parte di tutti, e non di pochi privilegiati. Le regole non possono essere solo quelle del mercato».

Prima ha citato la proprietà intellettuale, che si esemplifica nei contratti di licenza d’uso che sottoscriviamo ogni volta che acquistiamo per esempio un oggetto tecnologia: in realtà noi compriamo della macchina fotografica soltanto l’esterno, mentre il sostare ci viene solo concesso in uso. anche lei ritiene che oggi ci troviamo nella condizione di consumatori provvisori e virtuali?
«Si e purtroppo questo non riguarda più soltanto i software, come abbiamo visto nel caso del virus dell’aviaria. Per fortuna è in piedi tutto un movimento dell’open source del free software che già distribuisce gratuitamente prodotti della conoscenza. Il modello Linux permette di fare quello che si faceva fino a 20 anni fa: si produceva conoscenza non ai fini di lucro. E anche il movimento ha le sue regole ovviamente: chi usa una sorgente per creare un nuovo prodotto deve a sua volta impegnarsi a diffonderlo nello stesso modo».

Qual è quindi il futuro che dobbiamo inseguire?
«Giusta remunerazione per i creatori. Ma non abuso di monopolio e appropriazione indebita di beni della collettività».

E come ci arriviamo?
«La politica è sensibile alle pressioni che vengono dai fatti. Se ci sono catastrofi come la pandemia i decisori politici si muovono. Ma fortunatamente a volte bastano anche alcune pressioni, e segnali che alcune forze politiche cominciano ad essere avvertite da questi problemi ci sono. Viceversa molti altri pensano solo al pil e ogni giorno che Bush resta sulla sua sedia il mondo lo dovrà scontare a caro prezzo».