Giuliano e gli eroi
di Claudio Mutti - 22/02/2007
Il vocabolo sanscrito avatâra, che esprime il concetto di una “epifania” della divinità in forma umana, secondo il grammatico Pânini significa letteralmente una “discesa” dal cielo alla terra; è il medesimo significato della parola araba tanzîl, che la terminologia islamica applica alla “discesa” del Verbo divino in forma di Scrittura rivelata. Giuliano, da parte sua, riprende un termine già usato da Plotino e da Giamblico, pròodos, per indicare la “processione” dal cielo alla terra compiuta da Asclepio, che Zeus generò da sé tra gli intelligibili e manifestò tra gli uomini per mezzo dell’energia vivificatrice di Helios (Contro i galilei, 200A-B). Nato da un dio e da un essere mortale (una ninfa), Asclepio appartiene alla schiera di quegli esseri che per via analogica potrebbero essere definiti come gli avatâra della tradizione greca; si tratta di esseri intermedi tra gli dèi olimpici e gli uomini, che a volte sono chiamati genericamente “dèi” (theòi), altre volte “eroi” (héroes) o “semidei” (hemìtheoi).
Tra questi esseri, a dominare il paesaggio spirituale dell’età tardoantica e ad imporsi come modelli paradigmatici di saggezza e di regalità, furono principalmente Dioniso ed Eracle, ma anche Achille e Alessandro Magno: tutte figure che esercitarono su Giuliano, “uomo certamente degno di essere annoverato fra i geni eroici” (1), un’influenza profonda e determinante. A Dioniso e ad Eracle, Giuliano venne equiparato da Temistio di Costantinopoli, un commentatore di Aristotele, “uomo serio e sinceramente virtuoso, [che] accoppiava all’intelligenza dei più ardui problemi filosofici un senso del reale e dell’utile onde era tratto ad occuparsi, con particolare cura, di tutte le cose attinenti alla vita civile” (2). Leggiamo infatti nella giulianea Lettera a Temistio (253B-C): “Ma adesso tu, con la tua ultima epistola, hai reso più grande il mio timore e mi hai mostrato che l’impresa è in tutto più ardua, dicendo che dal dio sono stato assegnato al medesimo posto in cui precedentemente si trovarono Eracle e Dioniso, i quali erano filosofi e al contempo regnarono e ripulirono quasi tutta la terra ed il mare dal male che li infestava”. Come Temistio, così anche Libanio paragonò Giuliano ad Eracle (3), sicché non ci pare fuor di luogo supporre, con il Rostagni, che “l’assimilazione di Giuliano a Dioniso e ad Eracle (…) non fosse lanciata là a caso, solo per scopo retorico, ma avesse un contenuto mitico e partisse, direttamente, dalla coscienza degli iniziati. Con quel nome, cioè, e sotto quelle sembianze videro il cesare entrare nella vita politica e partire alla volta della Gallia i compagni di fede e di iniziazione ch’egli aveva in Oriente” (4).
Ma è lo stesso Giuliano che, nell’orazione Contro il cinico Eraclio, interpreta i miti concernenti le imprese di Eracle e la nascita di Dioniso. “Attraverso la sua esegesi di Eracle come salvatore del mondo, grazie alla guida costante di Atena Pronoia, Giuliano ambisce a stabilire una duplice connessione: nel suo ruolo di mediatore e di salvatore, Eracle è associato a Mitra, ma anche, a un altro livello, a Giuliano stesso, che appare appunto come un secondo Eracle-Mitra, destinato dagli dèi a restaurare l’ordine, religioso e politico, nel mondo romano” (5). Anche a Giuliano, infatti, venne riconosciuta la qualità “soterica” caratteristica di Eracle: si veda ad esempio come l’anonimo Panegirico composto in sua lode (6) riproponga il motivo dell’Imperatore quale “salvatore del mondo abitato” (sotèr tês oikouménes), che già si trova attestato in relazione al fondatore dell’Impero, Giulio Cesare. In questa prospettiva, anche un’impresa militare come la spedizione contro la Persia “non era una semplice Strafexpedition, vòlta a garantire un certo numero di anni di pacifico commercio” (7), ma era un vero e proprio atto rituale, in quanto “appare assimilata, attraverso la figura di Giuliano stesso, alla missione di ‘purificare tutta la terra e il mare’ che il Dio affidò ad Eracle e Dioniso” (8). In tal modo, la progettata conquista della Persia è atto di adeguamento a quella volontà divina che era già stata rivelata, ad esempio, mediante l’Eneide: l’espansionismo di Roma, “reinterpretato in termini soteriologici quanto mai adatti al IV secolo, costituisce l’aspetto di più rilevante novità nel pensiero giulianeo, ma anche, tutto sommato, di sostanziale continuità con la tradizione politica, culturale, religiosa e militare dell’Impero” (9). La stessa esegesi effettuata da Giuliano pone in evidenza, nel simbolismo eracleo, quella valenza imperiale che la figura dell’Alcide continuerà ad esprimere anche nel corso del Medio Evo (10). In particolare, Giuliano suggerisce una certa analogia tra Eracle ed Attis, in quanto ambedue, partendo da una condizione semidivina, giungono a realizzare la perfetta unione con il divino: una volta liberata dall’involucro carnale, l’anima di Eracle ritorna integra nella totalità del Padre (Inno alla Madre degli dèi, 167A).
Per quanto riguarda Achille, già la madre di Giuliano, Basilina, aveva ricevuto da un sogno l’annuncio che suo figlio sarebbe stato “un nuovo Achille”, ed anche Imerio e Libanio, da parte loro, avevano insistito su questo rapporto dell’eroe omerico con Giuliano. Che agli occhi di quest’ultimo il Pelide rappresentasse un paradigma da imitare, lo attestano queste parole di una lettera a Oribasio, le quali sembrano enunciare un ideale di vita ispirato al protagonista dell’Iliade: “È meglio agir bene per poco tempo, che male per molto” (385D). Ma la devozione di Giuliano per Achille è dimostrata anche dalla visita ai luoghi sacri della Troade, che l’Augusto piamente effettuò sotto la guida del vescovo locale, tale Pegasio, il quale, a quanto si diceva, “pregava Helios in segreto e lo adorava” (Lettera 79 Bidez-Cumont, 19 Wright). Pegasio accompagnò Giuliano all’herôon di Ettore, dove erano visibili le tracce di sacrifici recenti; al santuario di Atena Ilia, che era intatto e ben tenuto; e infine all’Achilleion, che fu trovato anch’esso in perfetto stato di conservazione. Sulla tomba di Achille aveva già pregato Giulio Cesare e, prima di lui, Alessandro Magno (che da Achille discendeva per parte di madre, mentre la genealogia paterna lo riconduceva ad Eracle). Verrebbe quasi da domandarsi se quei luoghi, che millecento anni più tardi sarebbero stati visitati dal fondatore di un altro grandioso edificio imperiale, Mehmed II della casa di Osman (11), non fossero circonfusi da un’aura speciale, che ne faceva una sorta di meta di pellegrinaggio per i costruttori di imperi.
Fu quella, dunque, una delle circostanze in cui Giuliano si ricollegò in maniera ideale ad Alessandro Magno, del quale, come ricorda Giovanni Boccaccio, riteneva non gli mancassero “né i costumi né la fortuna” (12). È stato detto che Giuliano cominciò consapevolmente ad imitare Alessandro, fino a considerarlo “un modello e un eroe, così come aveva fatto già suo zio Costantino” (13), nel momento in cui si dichiarò ufficialmente figlio di Helios; in maniera analoga, infatti, il Macedone si era proclamato figlio di Ammone.
Si veda, a questo proposito, la lettera dell’Imperatore Agli Alessandrini: in tale proclama viene ripetutamente evocato, quale esponente esemplare della tradizione ellenica e modello positivo contrapposto alla deviazione galilea, quell’”uomo devoto agli dèi” che soggiogò l’Egitto e vi fondò una delle tante città che da lui presero il nome, la più grande e la più famosa di tutte.
Alessandro il Macedone rivive nella vicenda di Giuliano: alla madre di quest’ultimo era stato predetto che da lei sarebbe nato un nuovo Alessandro, il quale avrebbe condotto a termine l’impresa del primo riunendo in un solo Impero l’Oriente e l’Occidente. Credette perciò, Giuliano, alle parole di Massimo d’Efeso, quando questi lo assicurò che era destinato a superare le gesta del Macedone. D’altronde, non gli appariva più volte nel sogno l’anima di Alessandro, additandogli una via e poi scomparendo?
Alla morte dell’Augusto, dice una leggenda, gli astanti videro uscire dal corpo di lui due anime: prima quella di Giuliano, poi quella di Alessandro. Simili a due fiaccole, diventarono due palle di fuoco, quindi due stelle filanti che si confusero con gli astri innumerevoli del firmamento...
Qual era il messaggio insito in una leggenda come questa? Pensavano fosse, gli esponenti dell’ultima fase della tradizione greca, che in Alessandro e in Giuliano agisse una medesima forza e che le loro esistenze fossero due “vite parallele” in cui si era manifestato un unico principio? Se si vuol cercare di dare una risposta a questa domanda, è necessario abbandonare il terreno “scientifico” dell’indagine storica e inoltrarsi in quello della ierostoria. E allora conviene meditare sulle implicazioni di un epiteto attribuito ad Alessandro Magno, quello di “Bicorne”, che venne interpretato in relazione ai “due secoli”, alle “due età”, ai “due cicli” di Alessandro. Secondo alcuni, Alessandro sarebbe vissuto due secoli. Ma quale fu il suo secondo secolo? Coincise davvero con quello di Giuliano?
La ricerca della Fonte di Vita, intrapresa senza successo da Alessandro nella Terra delle Tenebre sotto la guida del Khidr (14), viene proseguita, come in una seconda fase, da Giuliano, iniziato ai misteri solari di Mithra e banditore del culto di Helios. La guida è sempre la stessa, perché si tratta del maestro interiore facente tutt’uno col Sé vero e proprio; d’altronde il Khidr, epifania di una potenza spirituale altissima, viene identificato con Elia, il quale, tanto per il suo carattere solare quanto per una palese analogia fonetica, richiama esplicitamente Helios. E il regno del Khidr, nell’estremo Settentrione, “è conosciuto sotto il nome di Yûh, che è anche un nome del Sole” (15).
Ma Helios abbandonò Giuliano alla confluenza dei due fiumi, il Tigri e il Gyndes, così come il Khidr aveva abbandonato Alessandro alla confluenza delle due vie. L’Impero attende ancora il suo Restauratore.
Claudio Mutti
(1) Vir profecto heroicis connumerandus ingeniis, Ammiano Marcellino, XXV, 4, 1 (Le Storie, trad. Antonio Selem, UTET, Torino 1973, seconda edizione, p. 711).
(2) Augusto Rostagni, Appendice II, in: Giuliano l’Apostata, La restaurazione del paganesimo, Fratelli Melita Editori, La Spezia 1988, pp. 29-30.
(3) Orazione XII, 27, 44; XIII, 27, 48; XVIII, 32, 39.
(4) A. Rostagni, op. cit., p. 384.
(5) A. Guida, Un anonimo panegirico per l’Imperatore Giuliano, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1990, p. 132.
(6) Arnaldo Marcone, Commento, in: Giuliano Imperatore, Alla Madre degli dèi e altri discorsi, cit., p. 257.
(7) N. Gatta, Giuliano Imperatore, Edizioni di Ar, Padova 1995, p. 171.
(8) N. Gatta, op. cit., p. 172.
(9) N. Gatta, op. cit., ibidem.
(10) A questo proposito, ci limitiamo a citare due casi. Il primo si riferisce a Federico I di Svevia, che nella dura requisitoria contro i Comuni ribelli pronunciata davanti al Senato romano evocò “la clava di Eracle”. Agli occhi di colui che per Dante era il “buon Barbarossa”, la prevaricazione delle città lombarde costituiva un fatto analogo a quello dell’assalto all’Olimpo sferrato dalle forze telluriche, quando Eracle, alleato dei Celesti, aveva combattuto a colpi di clava contro i Giganti e i Titani. Il secondo caso riguarda la presenza della figura di Eracle su due edifici sacri eseguiti dalla corporazione dei Magisteri Comacini: il Battistero di Parma e il Duomo di Fidenza. Il motivo del leone nemeo sconfitto da Eracle, che ricorre nei due edifici, ha una probabile attinenza coi riti dell’investitura regale, poiché in epoca arcaica sia in Grecia sia in Asia Minore l’incoronazione del sovrano veniva preceduta da un combattimento rituale del re con uomini travestiti da bestie feroci. Sulla figura di Eracle nella simbolica imperiale del Medio Evo, cfr. i nostri saggi Simbolismo e arte sacra, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1978 e L’Antelami e il mito dell’Impero, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1986.
(11) Sulla visita del Conquistatore di Costantinopoli alla collina di Achille e al tumulo di Aiace, cfr. Franz Babinger, Maometto il Conquistatore e il suo tempo, Einaudi, Torino 1977, p. 224.
(12) Giovanni Boccaccio, De casibus virorum illustrium, VIII, 2.
(13) P. Athanassiadi-Fowden, L’Imperatore Giuliano, Rizzoli, Milano 1984, p. 208.
(14) La storia di Alessandro e del Khidr alla ricerca della Fonte di Vita è stata raccontata da Firdusî nello Shâhnâmeh (Firdusi, Il Libro dei Re, trad. it. di Italo Pizzi, 8 voll., Unione Tipografica Editrice, Torino 1886-1889, vol. V, p. 589) e poi da Nizâmî nella prima parte dello Eskandarnâmeh (Nizâmî, Sharafnâmeh, a cura di H. Pizhmân Bakhtyârî, Tehran 1345 H). La leggenda, che sviluppava un originario nucleo alessandrino, si diffuse in breve in tutto il mondo musulmano, dal Marocco alla Malesia. Cfr. Dario Carraroli, La leggenda di Alessandro Magno, Forni, Bologna 1979, pp. 150-208; AA. VV., Colloquio sul poeta persiano Nizâmî e la leggenda iranica di Alessandro Magno, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1977.
(15) Ananda K. Coomaraswamy, Khwâjâ Khadir e la fontana della vita, in Rivista di Studi Tradizionali, n. 20-21, luglio-dicembre 1966, p. 140. Circa il paese dell’angelo Yûh, sul quale regna Al-Khidr, cfr. C. Mutti, Hyperborea, in Vie della Tradizione, 125, pp. 28-36.