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Teorema di Corea: chi non ha l'atomo se lo faccia

di Angelo Baracca - 23/02/2007

 
La vicenda della Corea del Nord vale più di una dimostrazione matematica del «teorema nucleare». Come nel gioco dell'oca, l'ultimo lancio di dadi riporta alla casella iniziale. Potere di un botto nucleare.

L'accordo dell'amministrazione Clinton del 1994 era basato sulla fornitura alla Corea del Nord di reattori nucleari ad acqua leggera e aiuti alimentari. Quando il Congresso degli Stati uniti - a maggioranza repubblicana - lo aveva boicottato e il paese fu catalogato tra gli «stati canaglia», Pyong Yang aveva giocato la carta nucleare. In una escalation da manuale il paese aveva accentuato le minacce, poi era uscito dal trattato di non proliferazione (cosa assolutamente legittima, doppiezza degli Stati nucleari che si erano lasciata aperta questa strada), aveva moltiplicato i test missilistici, pur se di dubbia riuscita, fino al fatidico ultimo test. Non scevro anch'esso da dubbi, ma che importa: sarebbe cambiato il risultato se il test fosse stato fasullo? A parte che anche il polverone di una reazione a catena a metà si porterebbe un bel fall out radioattivo, in fin dei conti per i paesi più deboli il nucleare serve unicamente come deterrenza. Il commento più pertinente al test era stato di Israele: «Uno stato con armi nucleari è immune da attacchi contro le sue installazioni». Deducendo ovviamente, pro domo sua, che i programmi nucleari dell'Iran devono essere fermati prima che sia troppo tardi, anche se le applicazioni militari sono dubbie e comunque molto lontane. Al di là delle roboanti minacce (e dei dubbi sulle reali capacità missilistiche), Pyong Yang non potrebbe bombardare nessuno, poiché verrebbe immediatamente cancellato dalla carta geografica. Né lo potrebbe fare Tehran se - con molta fantasia, in un futuro comunque lontano - disponesse di queste armi: Israele ha ben cinque sommergibili con capacità nucleare (generosamente ceduti in saldo dalla Germania), indistruttibili e capaci di una ritorsione che riporterebbe l'Iran all'età della pietra.

Questo è il teorema nucleare: che ha due facce complementari. Una per i paesi che sono o si sentono minacciati: fate di tutto per farvi la bomba, e quanto più siete deboli tanto più fate la voce grossa e branditela come minaccia.
Per gli stati forti, meglio dire per gli Stati uniti, è invece la versione nucleare dei classici «carota e bastone». Verso gli avversari il pretesto nucleare, giusto o sbagliato che sia, per demonizzarli (anche se potrebbero esserci pretesti ben più validi) e per attaccarli preventivamente. Al contrario, l'esca nucleare per quei paesi che si vogliono attirare sotto la propria influenza. Ecco allora che si chiudono entrambi gli occhi di fronte al Brasile, che ha fatto fino in fondo quello che si contesta come intenzione all'Iran (ed ha avuto programmi militari, che si sono arrestati negli anni '80, quando tutto era stato fatto e mancava solo di assemblare la bomba). Ecco la «storica» partnership con l'India, beninteso nel nucleare «civile»: quello appunto che ha consentito a New Dehli, come a tutti gli stati nucleari, di arrivare alla bomba. Ecco, ancora, che Washington approva i progetti egiziani di arricchimento dell'uranio e li sostiene per mezzo di esperti e con l'elargizione di 63 milioni di dollari, per cominciare.
Non sempre il tentativo i avere «la botte piena e la moglie ubriaca» fila liscio: l'accordo con la Corea del Nord fa scalpitare Tokyo, che aveva finalmente trovato un ottimo motivo per dar corso alle brame di farsi la bomba. E che Washington ha sempre visto di buon occhio, in chiara funzione anti-cinese.