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Cdm? Sviluppo a buon mercato

di Karima Isd - 20/11/2005

Fonte: ilmanifesto.it

 
Cdm sta per Clean Development Mechanism («Meccanismo per lo sviluppo pulito»), l'invenzione - da parte degli attori forti nell'ambito del Protocollo di Kyoto - che doveva aiutare gli stati a combattere i cambiamenti climatici. Delineato nel 1997 a Kyoto, il meccanismo è gestito dalle parti aderenti alla Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici (Rio 92): in sostanza stabilisce che i paesi industrializzati possono ridurre il proprio peso come produttori di emissioni di Co2 investendo in progetti di energia pulita nei paesi in via di sviluppo. La riduzione delle emissioni derivante da questi investimenti va nel conteggio del taglio di emissioni del paese finanziatore. In cambio, i paesi «riceventi» possono usare i fondi per ridurre le proprie emissioni e aumentare le percentuali di energia pulita. Sulla carta, un'opzione win-win, in cui cioè guadagnano tutte le parti in gioco. Solo sulla carta, però. Del coro degli scettici fa parte il Centre for Science and Environment (Cse) di New Delhi, da molti anni impegnato sul fronte della «equità climatica» fra paesi e fra individui. Secondo il Cse, il Cdm non porterà a un modello di produzione e consumi sostenibile perché non è stato concepito per questo (e finora hanno fatto poco per promuovere davvero energie pulite, riferiva terra terra l'11 novembre 2004). Il Centro di ricerca e azione indiano ha condotto una ricerca sulle modalità di applicazione in India (i risultati sono pubblicati sul quindicinale Down to Earth) deducendone che «il Cdm, per come è stato ideato, è un modo facile per le nazioni ricche e inquinanti di acquistare crediti a buon mercato di riduzione delle emissioni di anidride carbonica dai paesi in via di sviluppo negoziando direttamente con compagnie private, tramite il coinvolgimento di certificatori privati».

Dunque il Cdm è piuttosto un «cheap development mechanism» (meccanismo di sviluppo a buon mercato) e anche un corrupt development mechanism: corrotto perché le compagnie coinvolte nei progetti ottengono enormi benefici finanziari senza necessariamente rispettare l'impegno alla sostenibilità. Rapporti preparati da compagnie di certificazione di fama internazionale come Pricewaterhouse Coopers e Ernst & Young, relativi a progetti da milioni di dollari, sono talvolta chiaramente fraudolenti. Il Centre for Science and Environment analizza il caso indiano. Ad esempio, la Gfl (Gujarat Fluorochemicals Limited) di Godhra nello stato del Gujarat e la Srf Fluorochemical di Alwar in Rajasthan hanno venduto la propria riduzione di emissioni a governi e compagnie stranieri, per una cifra non resa pubblica (segreto di pulcinella, comunque: il prezzo più basso è di 5 dollari per unità certificata di riduzione di Co2, e la Gfl vende 3 milioni di unità certificate all'anno; il totale sarebbe dunque 15 milioni di dollari). Ebbene, i documenti di progetto preparati da certificatori internazionali semplicemente fanno un «copia e incolla» di documenti standard; segno che la sostenibilità ambientale del progetto, che deve essere certa, non è affatto comprovata sul campo.

E' dunque un affare bilaterale, oscuro e privato: anche nel senso che in India non ci sono progetti Cdm pubblici, nei settori cruciali della produzione energetica o dei trasporti; anche i progetti nel settore delle biomasse (che totalizzano il 44% del portfolio Cdm nel paese) sono tutti di privati; e non si sa se le biomasse - legno e residui agricoli - siano ricavate in modo sostenibile, perché i documenti (redatti dall'agenzia Ernest & Young) anche qui «copiano e incollano» le sezioni relative alla valutazione di sostenibilità. Il Cse dunque chiede una riforma del meccanismo da parte delle Nazioni unite: «Non può diventare un'industria, un'invenzione fatta per l'industria, e dall'industria». Una faccenda in cui gli attori pubblici praticamente sono estromessi. E infatti, non si capisce quanto e se e come questi progetti aiutino l'India a raggiungere obiettivi di sviluppo sostenibile.