Dall'antropocentrismo all'etica "orientale" della compassione cosmica
di Paolo Scroccaro - 20/11/2005
Fonte: filosofiatv.org
Uomo e natura in Kant e Schopenhauer
Nell’età del ferro, “compassione” e “giustizia” abbandonano la terra e si rifugiano presso i “celesti”
Per focalizzare il tema essenziale attorno al quale girerà questa riflessione, seguendo lo stesso Schopenhauer possiamo prendere come punto di riferimento alcune preziose testimonianze degli antichi riguardanti la Grecia, che noi consideriamo, a torto o a ragione, la culla della nostra civiltà. Essi narrano che in Atene vi fosse addirittura un altare dedicato alla Compassione: tale presenza non era qualcosa di secondario, ed anzi era lì per rammemorare che proprio essa vivificava una civiltà degna di questo nome, essendone il fulcro. Ma quelli erano tempi luminosi, aurei! Oggi nessuno si sognerebbe di dedicare alla Compassione cosmica il cuore delle nostre città, occupato da cose triviali: banche, macellerie, osterie, agenzie d’affari, negozi…Se qualcuno osasse riproporre un altare alla Compassione, verrebbe affrontato con sorrisetti di sufficienza e considerato un essere quanto meno bizzarro…segni dei tempi!
Come è potuto accadere tutto questo? Perché ciò che un tempo era considerato sommamente nobile, ora è valutato sommamente ridicolo?
Ce lo spiegano, secondo Schopenhauer, poeti sapienziali ed ispirati, come Esiodo: egli racconta che nell’Età del Ferro Giustizia e Compassione abbandonano la Terra per rifugiarsi presso gli dei celesti; in assenza dei divini, la Terra resta in balìa della prepotenza, della malvagità, della violenza…tutte manifestazioni di quella Volontà egoica le cui espressioni Schopenhauer ha accuratamente descritto nelle sue varie opere.
Aggiunge Schopenhauer che, al posto delle autentiche virtù, si diffondono le loro contraffazioni, fondate sulla furberia e sull’astuzia calcolatrice.
Le pretese morali della volontà
Compassione e Giustizia sono le virtù cardinali o assiali per eccellenza, poiché da esse “derivano tutte le virtù”, e specialmente dalla prima, dato che “la compassione è l’unica genuina molla morale non egoistica”. Inoltre: “…anche la giustizia in quanto vera e libera virtù ha la sua origine nella compassione”.
Tolto tale asse, non può esservi alcuna forma di autentica moralità, ma solo dei surrogati. E’ vero che in Occidente, come altrove, si fa un gran parlare e scrivere di valori etici, di superiorità morale della nostra civiltà…è vero che i nostri intellettuali hanno cercato di elaborare le convinzioni morali più diffuse, pubblicando tonnellate di libri sull’argomento, come hanno fatto anche Kant e gli Idealisti...ma si tratta di tentativi malriusciti, e per lo più ipocriti, di escogitare una parvenza di morale, in assenza di Compassione: occorre perciò destrutturare e smascherare l’edificio pseudomoralistico occidentale, e denunciarne le insufficienze e l’immoralità di fondo, dato che “soltanto questa compassione è la base reale di ogni giustizia spontanea e di ogni genuino amore del prossimo. Solo in quanto è scaturita da questa, un’azione ha valore morale; e qualunque azione proveniente da altri motivi, non ne ha alcuno” (Il fondamento della morale, 16. Op. cit., pag. 213).
Kant e la morale razionale
Nell’età moderna, assistiamo dunque a vari tentativi di improntare una morale di ripiego che faccia a meno della Compassione; un conato particolarmente importante, dato il successo da noi riscontrato, è dovuto a I. Kant, la cui etica è forse la massima espressione delle pretese moralistiche dell’Occidente moderno: proprio per questo è indispensabile un confronto radicale con l’impostazione kantiana. La nostra epoca infatti oppone strenua resistenza all’ingresso dell’autentica moralità, e gli strumenti privilegiati di questo far fronte sono i surrogati dell’unica morale possibile. Tra questi palliativi ben figura anche il Kantismo, il quale esclude la Compassione, “poiché dichiara debolezza, e non virtù, la compassione”, obietta Schopenhauer, e la sostituisce con la Ragione, considerata l’unica guida, dato che “in campo morale giunge facilmente a una grande correttezza e completezza…Essa è perfettamente in grado di distinguere, in tutti i casi che si presentano, il bene e il male”: così Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi.
Vedremo, nel proseguio, che questa ottimistica aspettativa di Kant sarà del tutto disattesa, poiché egli pretendeva dalla ragione quanto non può mai essere alla sua portata.
Schopenhauer critico di Kant
La manualistica ricorda volentieri gli apprezzamenti di Schopenhauer nei riguardi di Kant: questa è solo mezza verità o anche meno, e va riferita più che altro a temi della Critica della ragion pura, là dove Kant, escludendo che le forme spazio-temporali e le categorie dell’intelletto possano avere portata ontologica, enuncia la nota distinzione tra fenomeno e noumeno ed attribuisce alla scienza della natura un carattere solo fenomenico. Restando nell’ambito di questo quadro sostanzialmente teoretico, Schopenhauer riconosce Kant come uno dei suoi punti di riferimento (sia pur con qualche riserva), accanto ad altri comunque più sostanziosi, quali Platone, l’Induismo, il Buddhismo. Infatti, in queste antiche correnti spirituali era già presente quel che di positivo emergerà in Kant a distanza di secoli o di millenni (per cui, anche qui, i meriti di Kant vengono ridimensionati non poco).
In ogni caso, quando ci si rivolge alla dimensione etica il filosofo di Konigsberg non svolge più alcun ruolo costruttivo: “Dell’etica di Kant io posso accettare ben poco”, avverte Schopenhauer nel Fondamento della morale (op. cit., pag. 166).
Il testo appena citato può esser considerato uno dei migliori scritti di morale che siano apparsi negli ultimi secoli, ed è diretto alla critica delle concezioni pseudomoralistiche moderne, con particolare riferimento a Kant (non a caso il II capitolo è intitolato espressamente “Critica del fondamento dato da Kant all’etica”).
La discussione dei limiti e degli errori della filosofia kantiana è comunque ben presente anche in altre opere: ricorderemo che in coda al Mondo come volontà e rappresentazione c’è il saggio che porta il titolo molto esplicito La critica della filosofia kantiana (circa 150 pagine: ben più di una semplice appendice all’opera maggiore). Infine, richiameremo anche lo scritto Sull’etica (compreso nei Parerga e paralipomena), una cinquantina di pagine in gran parte dedicate alla critica di Kant.
Questi riferimenti principali, assieme ad altri disseminati nelle varie opere, sono più che sufficienti per comprovare la grande distanza che separa i due filosofi.
Alcuni limiti ed errori di Kant
Poiché è impossibile esaurire in questa sede un argomento così ampio, qui ci limitiamo a segnalare in modo cursorio quei punti (a e b) che in qualche modo comportano ricadute sulla tematica morale. Ci soffermeremo invece sui punti c e d, che investono il centro della problematica in questione.
a) Confonde Intelletto e Ragione, violando una lunga tradizione filosofica, con tutti gli equivoci conseguenti.
E’ ben nota l’affermazione di Kant, secondo cui “l’intelletto non è intuitivo, ma discorsivo”, quindi operante esclusivamente tramite concetti (per lo più applicabili ai contenuti empirici) e tramite concatenazioni concettuali. Dicendo così, Kant riduce l’intelletto a ciò che tradizionalmente si intendeva per ragione: la superficialità odierna, che spesso usa indistintamente i termini intelletto e ragione, come se essi non avessero significati ben distinti, ha origini kantiane. Non meno grave è il fatto che l’esperienza intellettuale vera e propria (noetica) viene in questo modo svalutata e anzi cancellata, come se secoli di filosofia e di sapienza, centrati su tale esperienza, non fossero mai esistiti!
Schopenhauer aveva denunciato una simile aberrazione già nell’opera Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (anche se in essa non mancano inesattezze e incongruenze, che ne sminuiscono il valore).
Criticando i professori confusionari, egli scriveva: “Sempre e dappertutto, infatti, è indicato come intellectus…la facoltà immediata e più intuitiva…le parole intellettuale e razionale sono state sempre perfettamente distinte, come manifestazioni di due capacità mentali totalmente diverse e lontanissime” (v. cap. V, 34).
Specialmente nell’ultimo secolo, secondo Schopenhauer, si sarebbe diffusa l’alterazione dei rispettivi significati, ingenerando una confusione di cui lo stesso Kant sarebbe responsabile o almeno partecipe, come è espressamente ripetuto in più occasioni, e soprattutto nella Critica della filosofia kantiana: “…egli non ha in nessun luogo, e si tratta di un punto fondamentale, distinto la conoscenza intuitiva e la conoscenza astratta con precisione, e proprio perciò, come vedremo in seguito, si è avvolto in contraddizioni insolubili”.
b) Svaluta l’intuizione quale via principale di conoscenza, aprendo la strada alla supremazia della Ragione (v. Hegel).
Solitamente, la “ragion critica” di Kant viene considerata come alternativa alla “ragione assoluta” di Hegel. Tuttavia, appena ci si spinge un po’ in profondità, si può scorgere la continuità che vi è tra Kant e Hegel nel modo di considerare la ragione. Basti pensare al fatto che secondo il primo la ragione è la facoltà che non si ferma al finito (come farebbe l’intelletto), poiché tenderebbe verso l’Incondizionato, l’Assoluto. E’ ben vero che i risultati di questa tensione verso l’Assoluto non sono identici in Kant e Hegel, e tuttavia in Kant vi sono già i presupposti per quell’assolutizzazione della ragione che la filosofia hegeliana porterà a compimento. Per esempio, quando Kant definisce il fanatismo come “un oltrepassare per principio i confini della ragione umana” (v. Critica della ragion pratica, I, I, III), egli opera nella direzione dell’assolutizzazione hegeliana della ragione, la quale pretende di ridurre a sé tutto ciò che è realmente importante e contemporaneamente di negare o di svalutare tutto ciò che non si presta a tale riduzione!
In un saggio del 1786, molto significativo per il nostro argomento, Kant ripete con ossessionante insistenza che “la pietra ultima di paragone della verità è sempre la ragione”.
Schopenhauer, che pur si mostra il più possibile rispettoso nei riguardi di Kant, considera, in modo alquanto equilibrato, che le sue colpe non sono le stesse di Hegel, “per quanto non si possa negare che egli abbia dato occasione agli stravolgimenti successivi”.
c) Collega moralità e razionalità, credendo di compiere opera meritoria.
L’opinione corrente tende a dare un valore comunque positivo all’azione razionale in quanto tale; Kant, oltre a cercare di rielaborare tale convinzione si spinge anche oltre, attribuendo a tale generica positività la qualificazione aggiuntiva della moralità: in definitiva, l’azione razionale è in sovrappiù morale! Kant, come tutti quelli che svalutano ciò che si situa al di fuori del principio di ragione, è costretto a sostenere questa tesi, per cui “la legge morale ha origine interamente dalla ragione”, dato che la ragione umana sarebbe in grado di “distinguere perfettamente il bene e il male”.
Schopenhauer ha buon gioco nel replicare che la ragione, in quanto caratterizzata dalla coerenza logico-formale, di per sé non può fondare alcuna morale, prefigurandosi come mezzo che non può individuare la bontà o meno dei fini. Stando così le cose, la ragione può diventare lo “strumento necessario di ogni delitto”; inoltre, “la malvagità sta molto bene assieme alla ragione, anzi solo in questa unione diviene davvero temibile; al contrario si trova talvolta anche la nobiltà d’animo unita alla irragionevolezza”.
Questo è il motivo di fondo per cui Platone e gli antichi saggi non avevano mai cercato di fondare la virtù morale sulla semplice ragione: a differenza di Kant, sapevano bene che ciò era impossibile, essendo essa una facoltà intermedia tutt’altro che onnipotente, dato che “la ragione ce l’ha ogni cretino: se gli si danno le premesse, lui trae la conclusione. Ma l’intelletto fornisce la conoscenza primaria, quindi quella intuitiva, e qui stanno le differenze”.
d) Elabora una morale antropocentrica, che valuta la natura come strumento per l’uomo.
Kant ha cercato di individuare un criterio razionale per distinguere i comportamenti morali da tutti gli altri. Il criterio kantiano esige alcune condizioni irrinunciabili: 1) i comportamenti, per esser morali, devono esser guidati esclusivamente dalla “ragion pura”, cioè da una ragione non condizionata da elementi extrarazionali, quali le passioni, i sentimenti etc.; 2) gli atti autenticamente morali devono ubbidire a libere e profonde convinzioni del soggetto (massime soggettive); per sapere se una massima soggettiva ha effettivamente portata morale, dobbiamo universalizzarla, e controllare se essa possa istituire una legislazione universale, come tale esente da conflitti e contraddizioni per tutti i soggetti che la seguono..
Questa appena richiamata è considerata da Kant “la legge fondamentale della ragion pura pratica”, e la formula canonica di essa è riportata in tutta la manualistica filosofica: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre come principio di una legislazione universale”. In una nota al paragrafo 4 (Libro I, Capitolo I) della Critica della ragion pratica, Kant dà per scontato che sia facile applicare il suddetto criterio: “Quale forma nella massima si adatti a una legislazione universale e quale no, è cosa che l’intelletto più comune è in grado di distinguere, anche senza nessuna istruzione”. Si tratta di una convinzione che Kant ripeterà anche in altri contesti.
D’altronde, se così non fosse, se cioè i criteri non fossero validamente applicabili sulla base unica ed esclusiva della ragione, la morale razionale non si reggerebbe: ed è quanto mostra Schopenhauer, esaminando le esemplificazioni delle “massime soggettive” con preteso valore morale proposte da Kant nelle sue opere.
Tutti gli esempi riportati da Kant, evidenziano che dietro le pretese morali delle massime è all’opera la volontà egoica ed interessata. Quando Kant afferma che “io non posso volere una norma universale del mentire, perché mi si ripagherebbe con egual moneta” (per cui è invece morale la prescrizione che ordina di non mentire), è facile individuarvi la presenza di un calcolo di convenienza.
Lo stesso dicasi per la restante casistica, del tipo: “Bisogna rispettare i patti (altrimenti anch’io ne riceverei danno)”. Oppure: “Bisogna restituire i depositi ricevuti, altrimenti…”.
In definitiva, osserva Schopenhauer, la cosiddetta “ragion pura pratica” di Kant è una ragione alquanto impura, pragmatica e calcolatrice; Kant finisce per considerare morali le massime che non comportano svantaggi per il soggetto, nelle relazioni con gli altri uomini.
Il carattere in realtà calcolatore e utilitaristico della morale kantiana risulta evidentissimo anche quando Kant tratta del rapporto con il mondo non-umano; anzi qui è ancora più spregiudicato: in nome della potenza dell’uomo (camuffata sotto l’esile velo della “dignità dell’uomo”) egli pretende di dare consistenza etica all’affermazione che dice: “Nell’intera creazione si può adoperare anche come semplice mezzo tutto ciò che si vuole e di cui si dispone: solo l’uomo, e con lui ogni creatura razionale, è uno scopo in se stesso”. (La formula kantiana non deve trarre in inganno: in questo mondo, secondo Kant, non vi sono altri esseri razionali, oltre l’uomo; le altre “creature razionali”, cui si allude, sarebbero infatti “i buoni e cari angioletti”, sogghigna Schopenhauer con sottile e divertito sarcasmo!). Di conseguenza, anche “il rispetto si riferisce sempre a persone, mai a cose”.
Non si potrebbe esser più chiari di così: il rispetto per la persona, per la dignità dell’uomo, scaturisce da questa riduzione degli enti non-umani a cose manipolabili, in nome di una morale “umana, troppo umana”.
Non possiamo che convenire con Schopenhauer, quando conclude che “l’egoismo e il valore morale di un’azione si escludono a vicenda. Quando un’azione ha per motivo un fine egoistico, non può avere un valore morale”.
La dignità dell'uomo, in quanto soggetto razionale-morale
Questa nozione kantiana ha avuto un enorme successo, che perdura ancora ai nostri giorni, ed è sostenuta da tutti i “moralisti sconsigliati e spensierati che nascosero la loro mancanza di un fondamento della morale…sotto le impressionanti parole dignità dell’uomo, calcolando con furbizia che anche il loro lettore si vedesse fornito di questa dignità e si considerasse quindi soddisfatto. Noi invece vogliamo esaminare un po’ più da vicino questo concetto e vederne la realtà. Kant definisce la dignità un valore assoluto, incomparabile. E’ questa una spiegazione che col suo tono solenne impressiona al punto da non trovare facilmente chi osi avvicinarsi per controllarla; egli troverebbe che anch’essa è solo una vuota iperbole…”. Così Schopenhauer nel Fondamento della morale (op. cit., pag. 168), il quale poi prosegue con la canzonatura:
“Ché appunto dove mancano i concetti
soccorre, al tempo giusto, una parola”.
Si è già fatto riferimento all’origine antropocentrica di questa altisonante espressione; esaminandola più da vicino, seguendo Schopenhauer, si possono svolgere ulteriori considerazioni, che ci permettono di completare il quadro delle pretese umanocentriche: da un lato, la “dignità dell’uomo, in quanto valore assoluto”, pretende una assoluta valorizzazione dell’umano; dall’altro lato, proprio tale valorizzazione esige contestualmente la radicale svalorizzazione di tutti gli enti non-umani (eccezion fatta per “i cari angioletti”), che solo così possono essere ridotti a strumenti per l’uomo. In definitiva, la mossa strategica della Ragione, che ipervalorizza l’umano e svaluta il non-umano, non è altro che una prevaricazione violenta, un atto di prepotenza, dietro al quale opera l’istanza della Volontà di potenza, quale si manifesta nel mondo umano.
In nome della “dignità dell’uomo” e del suo “valore assoluto e incomparabile”, Kant teorizza e giustifica l’utilizzazione e la manipolazione sfrenata degli enti e dell’intera natura, e per completare l’opera cerca di coprire il misfatto con una verniciatura di eticità, molto apprezzata dai moderni e dai contemporanei: anche in questo Kant ha fatto scuola, e però è stato un cattivo maestro; infatti è proprio questo tipo di pensiero “razionale-morale” quello che ancor oggi sta guidando verso la devastazione della Terra, come afferma anche U. Galimberti in un testo recente.
Le dure parole di Schopenhauer, che considera le posizioni kantiane sul rapporto uomo-natura “rivoltanti e abominevoli”, potranno risultare eccessive solo a chi non abbia del tutto compreso le enormi responsabilità che gravano sull’etica di Kant, sconsideratamente strumentalizzatrice e irrispettosa degli enti. Chi invece ha acquisito tale consapevolezza, potrà a maggior ragione apprezzare le istanze premonitrici presenti nell’inattuale Schopenhauer, il quale, solitario lottando contro il suo tempo, ne ha censurato con determinazione le tendenze di fondo
Merita segnalare, in particolare, che la critica dell’etica dei valori, quale si ritrova nella lucida denuncia di alcuni dei maggiori pensatori europei del secolo appena trascorso, pensiamo a M. Heidegger e E. Jünger , era già stata elaborata da Schopenhauer (anche se all’epoca era passata quasi inosservata, fatta eccezione, qualche decennio dopo, per Nietzsche, che però la svilupperà in una diversa direzione).
Ma non basta: Kant, per tentare di fondare l’etica dei Valori e della Dignità dell’uomo, deve necessariamente isolare l’uomo dal resto della natura, e contrapporre a quest’ultima, vista come sostanziale negatività, la grandezza del soggetto morale-razionale. Gli argomenti che Kant escogita in vista di tale strategia mostrano una volta di più l’inconsistenza del suo impianto moralistico. Quando Kant sostiene che l’uomo “ha un valore assoluto, incomparabile”, lo dice sulla base di alcune motivazioni di fondo: 1) è l’unico ente dotato di ragione, e come tale sarebbe superiore agli animali e al resto della natura; 2) in quanto soggetto razionale-morale, sarebbe completamente autonomo dalla natura e da chicchessia, e ubbidirebbe esclusivamente alla legge morale che lui stesso si dà.
Circa il primo punto, Schopenhauer controbatte che certamente l’animale non è razionale, ma intuitivo, spontaneo, immediato…Come tale non elabora progetti, non precalcola su larga scala, come può fare l’uomo. Ciò, lungi dall’esser solo un difetto, può tramutarsi in un pregio: l’animale più feroce non può mai architettare malefatte di immensa portata, come è consentito agli umani proprio utilizzando il principio di ragione! Sulla base di queste e altre considerazioni, Schopenhauer può concludere che l’animale razionale è “un animale barbaro e spaventoso”, “l’animal méchant (malvagio) par excellence”, “l’unico animale che arreca dolore agli altri, senz’altro scopo che appunto il dolore”.
Circa il secondo punto, riguardante l’assoluta autonomia del soggetto morale da tutto ciò che è “natura” in senso lato, si possono svolgere diverse considerazioni; in questa sede, ci limitiamo a segnalare l’essenziale.
Secondo Kant, la moralità presuppone la libertà di scelta di un soggetto autonomo e razionale, svincolato da qualsivoglia condizionamento eteronomo; abbiamo già esaminato la vacuità di un tale presupposto. In aggiunta, sottolineiamo che Schopenhauer conclude lo scritto Sull’etica (v. Parerga e Paralipomena) negando perentoriamente una simile impostazione, secondo lui contaminata dall’ebraismo, “il quale esige che l’uomo venga al mondo come uno zero morale, onde poter decidere, grazie a un immaginario liberum arbitrium indifferentiae, dunque in seguito a riflessione razionale, se vuol essere un angelo o un demonio o magari qualcosa di mezzo…Il liberum arbitrium indifferentiae, sotto il nome di libertà morale, è uno dei balocchi più cari ai professori di filosofia – lasciamolo dunque a queste persone…”.
In definitiva, autonomia, libertà morale, imperativo categorico, ragion pura pratica etc. sono solo gingilli per cattedratici e favole per vecchie comari, di cui manca, e non potrebbe essere diversamente, qualsiasi serio riscontro (v. Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente).
Ne consegue che l’intera “ragion pratica di Kant, con il suo imperativo categorico…è un postulato del tutto infondato e nullo, sicché nessuno che abbia anche solo una scintillina di giudizio, può credere più a tale finzione”.
Parole severe, quelle di Schopenhauer: e però dobbiamo segnalare che anche autori molto diversi dal filosofo di Danzica sotto il profilo culturale, hanno dovuto prendere le distanze dall’etica kantiana, in modo non meno deciso.
Oltre Kant: dal “Principium individuationis” al “Tat tvam asi” (dall’antropocentrismo alla compassione cosmica)
Nel Mondo come volontà e rappresentazione (Libro IV, 70) Schopenhauer scrive che “finché la conoscenza rimane prigioniera nel principium individuationis, e schiava del principio di ragion sufficiente, la potenza dei motivi è irresistibile; ma quando si è riusciti a vedere al di là del principium individuationis…una tale conoscenza diviene per noi un quietivo universale del volere, allora i motivi particolari perdono ogni loro efficacia; perché la conoscenza che ne era dominata, viene oscurata e sostituita da una conoscenza diversa”.
Vi sono dunque due principi del conoscere e correlativamente due modi di intendere l’etica: il principium individuationis è un principio separativo-oppositivo, poiché nasce dalla madre di tutte le separazioni, che è quella tra soggetto e oggetto; il soggetto viene pensato come contrapposto al resto del mondo, valutato come oggetto in funzione dell’io. L’oggetto quindi viene frazionato e scomposto nei suoi molteplici aspetti, in vista delle possibili utilizzazioni, in base alle esigenze del soggetto. E’ dunque un principio che instaura divisioni e strumentalizzazioni.
In aggiunta, è anche un principio di ristrettezza mentale, poiché per suo tramite il mondo viene letteralmente “spiato” a partire da un angolo visuale molto limitato, che è quello dell’ego, valutato come se esso fosse l’unico punto di vista possibile, o comunque il più importante in assoluto. La minuscola casa dell’ego, o comunque dell’uomo, viene assolutizzata come se fosse l’unica casa, nel mentre la dimora cosmica viene svalutata, sezionata e misurata per esser dominata, tramite i procedimenti di progettazione posti in essere dalla ratio, che è essa stessa un prolungamento della Volontà di potenza.
Lo sguardo inquieto dell’ego e della ragione calcolante è sempre e comunque ristretto ed iperselettivo e come tale esclude tutto ciò che non rientra nei piani di tale interessato ed aggressivo progettare.
Tat tvam asi è una formula sacra, una grande sentenza delle Upanishad. Alla lettera essa significa Tu sei quello, dove per quello, secondo i contesti e i livelli interpretativi, si può intendere Brahman, oppure, più semplicemente, l’Ente che sta di fronte, che appare fenomenicamente diverso e che però interiormente custodisce la stessa essenza che è in te in quanto soggetto. Schopenhauer si riferisce a questo secondo significato, volendo mettere in evidenza che un frammento, per così dire, della stessa universale realtà è immanente in tutti gli enti senza eccezione alcuna, e tale consapevolezza, nella sua profonda e disarmante semplicità, è il retroterra indispensabile per il superamento del Principium individuationis e per il sopraggiungere dell’unica vera Etica, quella della Compassione cosmica.
“Presso gli indù e i buddhisti vale invece il mahavakya (la grande sentenza) tat tvam asi che dev’essere pronunciata in qualsiasi momento nei riguardi di ogni animale per tenere sempre presente l’identità dell’essenza intima in esso e in noi, a guisa di direttiva per il nostro agire”.
(In questo contesto, Schopenhauer mostra la miseria delle pseudomorali strumentalizzatrici e antropocentriche, che si spingono invece a giustificare perfino la vivisezione – e tra queste vi è anche quella kantiana. Di qui la solenne imprecazione “levatevi dai piedi con la vostra ultraperfetta morale!”).
Anche se può venire spontaneo accomunare prima di tutto uomini e animali, la formula sacra tat tvam asi non si applica solo ad essi, ma si estende a tutti gli enti senza esclusione: “…davanti allo sguardo del discepolo si fanno sfilare per ordine tutti quanti gli esseri del mondo, viventi e inanimati, e per ciascuno viene ripetuto quel detto ch’è divenuto una formula e si chiama…tat tvam asi”.
Il tat tvam asi (al contrario del principium individuationis) è un principio unitivo e di espansione coscienziale: esso infatti comporta una visione appunto unitiva degli enti tutti, visti come cosmicamente relazionati in modo da formare un tutt’uno; ora si vede che un filo invisibile ed indistruttibile affratella quella molteplicità di enti che la ratio considerava divisi e contrapposti: gli indù sintetizzano tale profonda consapevolezza nel simbolismo del “sutratma”, richiamato nella Bhagavad-Gita là dove è detto: “In Me tutte le cose sono infilate come una collana di perle in un filo”.
In virtù di tale universale legame unitivo, ora si scorge immediatamente che la violenza esercitata in un punto cosmico qualsiasi si ripercuote ovunque; il dolore di qualsiasi ente assume istantaneamente una portata cosmica, poiché nel sutratma tutto è relazionato. La coscienza del compassionevole si irradia ovunque come la luce del sole: essa considera tutti gli esseri e non solo gli umani…. L’occhio cosmico del saggio non scruta il mondo in modo pragmatico, valutando e selezionando in funzione di un ente privilegiato; gli enti non vengono precalcolati, ma contemplati e lasciati essere. Tale occhio cosmico comporta apertura universale-contemplazione pura-accoglimento incondizionato degli enti, poiché ogni ente è degno di rispetto, e non solo alcuni. Qui si percepiscono le cordiali vibrazioni di un’atmosfera amicale, per tutti eterica e trasparente, tipica dell’etica sapienziale correlata al tat tvam asi ed alla compassione cosmica, etica che conduce non solo al risanamento dell’individuo e della civiltà, ma alla redenzione del cosmo intero!
Di fronte all’ospitale universalismo dell’etica compassionevole, come appare piccina la morale di Kant, che lungi dall’esser contemplativa, esclude-seleziona-discrimina in nome dell’arroganza e della mania di protagonismo di un ente particolare!!
La compassione cosmica tra Oriente e Occidente
Sono ben note le preferenze di Schopenhauer per l’Oriente: non a caso egli insiste sul fatto che “il fondamento della morale si trova in ultima analisi in quella verità espressa nei Veda e nel Vedanta con la formula mistica permanente tat tvam asi” (Sull’etica). Schopenhauer, dovendo indicare il principale punto di riferimento della vera morale, segnala proprio la sacra sentenza indù. Più in generale, sono moltissimi i passi in cui traspare un’evidente simpatia per l’Oriente; per esempio: “…l’India, questo suolo sacro, questa culla del genere umano”.
“Le Upanishad sono l’emanazione della più alta saggezza”.
Nel Mondo come volontà e rappresentazione, la spiritualità indù è qualificata come “la sapienza originaria del genere umano” (IV, 63, alla fine), che come tale “non sarà soppiantata dagli accidenti successi in Galilea”.
Nell’opera Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, elogia la profondità del Buddhismo, del Confucianesimo, del Taoismo, rispetto alle tendenze teistiche diffuse in Occidente (op. cit., v. pag. 184, 185, 186, 187…).
Ciò nonostante, Schopenhauer riconosce la presenza dell’etica della compassione cosmica, e della correlata sapienza, anche nell’area mediterranea e in Occidente: Gesù, sopra ogni altro, è visto come sublime modello di santità cosmica e redentrice. Schopenhauer, che pur disprezza il cristianesimo nella versione teistica e dogmatica dei preti, si spinge a scrivere: “…la mia etica si accorda con quella cristiana, in generale e fin nelle sue tendenze più elevate, così come con quella del brahmanismo e del buddhismo”.
Nel paragrafo 68 del libro IV del Mondo come volontà e rappresentazione, accanto a Gesù, Buddha e i saggi indù, elogia quali grandi asceti e mistici compassionevoli Angelus Silesius, Meister Eckhart, Taulero, Francesco d’Assisi…Alla fine del paragrafo 63, riconosce la portata sapienziale della mitologia pitagorico-platonica, così simile a quella indù proprio sui contenuti più cruciali. E non si dimentichi quanto riferito in apertura: la presenza risanatrice della compassione nella spiritualità dell’antica Grecia.
L’etica dei “miglioratori” del mondo e quella dei “superatori”
“Ma rivolgiamo lo sguardo dalla nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro che superarono il mondo…Allora, in luogo dell’incessante, agitato impulso; in luogo del perenne passar dal desiderio al timore e dalla gioia al dolore…ci appare quella pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell’assoluta quiete dell’animo pari alla calma del mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia e letizia, il cui semplice riflesso nel volto…è un completo e certo vangelo”. (Il mondo come volontà e rappresentazione, IV, 71)
Kant, con la sua morale razionale, appartiene al tipo umano dei “miglioratori” del mondo: essi calcolano di poterlo rettificare escogitando programmi etico-razionali ad hoc.
Le buone intenzioni dei “miglioratori” sono in definitiva affidate al principio di ragione: chi meglio di un soggetto morale-razionale potrebbe progettare e realizzare un mondo migliore, o almeno un’esistenza migliore, tramite azioni indirizzate a tale scopo?
Schopenhauer osserva che quelle azioni (si vedano gli esempi ricavati dalla morale kantiana) saranno necessariamente egoiche e strumentali, e comunque incapaci di conseguire il bene morale cui pretendono di aspirare; l’insistenza sulla vacuità delle progettazioni della ragione e del volere umani non si riduce ad una bizzarra presa di posizione polemica di Schopenhauer: essa è una presenza costante e centrale nelle varie forme sapienziali. Proprio in riferimento a tale questione, nella dottrina cristiana si dice che le opere umane non salvano, nonostante le buone intenzioni, perché l’ego (cioè la volontà) con le sue forze è incapace di salvezza: esso è votato al peccato, cioè al fallimento, sempre e comunque (di qui anche la dottrina cristiana del peccato originale).
L’etica dei “superatori” del mondo, invece, non fa leva su nessuno degli elementi cui si affidano i “miglioratori”. Ai fini salvifici, deve anzi subentrare un principio radicalmente diverso, come tale estraneo all’ego (alla volontà) e al principio di ragione: l’estinzione della volontà egoica, da cui scaturiscono le azioni disinteressate, l’etica della compassione universale e la liberazione dal “mondo come volontà e come rappresentazione”, non è il risultato di laboriose cogitazioni razionali capaci di programmare tale risultato, è piuttosto una Grazia inspiegabile (cioè non riducibile al principio di ragione), un evento che irrompe in modo imprevisto, cioè dal di fuori rispetto ai calcoli minuziosi della ragione: di qui la dottrina cristiana della Grazia, considerata nella sua più profonda portata.
“…quella negazione del volere, quell’entrar nella libertà non si può ottenere con deliberato proposito…Viene perciò d’un tratto, quasi arrivasse volando. Perciò la Chiesa la chiama azione della grazia” (Il mondo come volontà e rappresentazione, IV, 70).
La posizione di Schopenhauer è tutt’altro che un caso isolato: basterà far notare che anche autori come Hölderlin e Heidegger hanno suggerito qualcosa del genere, quando hanno avvisato che ai mortali soggiornanti sulla Terra, non resta che guardare al Cielo, attendendo cenni divini, e questo perché “ormai solo un dio ci può salvare”.
Ora, è ben nota l’insofferenza di Schopenhauer per il termine “dio” e per tutto ciò che sa di teismo; ma se il divino salvifico non è il dio-persona di certa dogmatica religiosa antropomorfica, bensì quel principio enigmatico che, operando al di fuori del cerchio della ragione, conduce all’estinzione della
Volontà e alla Compassione cosmica, “grande mistero dell’etica”, allora non si è fatto torto a Schopenhauer, prendendo a prestito qualche espressione di Heidegger e del poeta occidentale più sapiente dell’età moderna!
In ogni caso, considerando che Schopenhauer era alquanto permaloso, è d’obbligo concludere questa riflessione con parole sue: auspico perciò che quell’antica sapienza compassionevole torni a fluire verso l’Europa e produca una fondamentale mutazione del nostro pensare.
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