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L’uranio colpisce ancora

di Tatiana Genovese - 24/02/2007



L’uranio impoverito miete ancora vittime. Così mentre cresce il numero dei militari italiani, reduci dai Balcani e affetti da tumori, correlati alla contaminazione dalla sostanza radioattiva, la nuova Commissione d’inchiesta parlamentare sull’uranio impoverito tarda a partire per “inspiegabili motivazioni”.
È Amedeo d’Inverno, anni trenta, volontario dell’Esercito italiano, più volte in missione nell’area balcanica, la nuova e giovane vittima dell’uranio. Il militare aveva prestato servizio in particolare nel 19/o reggimento “Guide” di Salerno, prendendo parte alla missione nella caserma di Sarajevo “Tito Barrak”; la stessa caserma da cui provenivano altri 513 soldati ammalati e 13 che sono deceduti. D’Inverno, tornato dai Balcani non con qualche medaglia in più appuntata sul petto, ma con il famigerato linfoma di Hodgkin, aveva subito quattro trapianti e proprio durante il terzo intervento, avvenuto tre mesi fa, si era detto contento del via libera ai lavori della seconda commissione d’inchiesta sull’uranio impoverito, ma, come ha rivelato in una nota il responsabile del comparto Difesa dell’Osservatorio militare, Domenico Leggiero, nessuno aveva avuto il coraggio di rivelargli che, in realtà, la commissione ancora non aveva iniziato i lavori, perché “i tempi della politica sono ormai troppo lunghi per chi vive e muore per la pace”. Inoltre ha anche ricordato Leggiero che al soldato “gli era stata riconosciuta la causa di servizio - ma - non aveva ancora preso un soldo”.
I funerali dell’ennesima vittima dell’uranio impoverito si sono tenuti nei giorni scorsi ad Acerra, in provincia di Napoli, dove il giovane era nato nel 1977.
Secondo quanto rivelato dai familiari, il militare era morto sei giorni fa, ma su esplicita richiesta dei parenti, la morte è stata resa nota solo domenica scorsa per evitare l’inopportuna presenza dell’apparato militare che avrebbe offeso la memoria dei ragazzi anche ai funerali. Ha infatti sottolineato un familiare della vittima: “Non avremmo sopportato l’ennesima umiliazione da quel mondo militare in cui Amedeo ha creduto e che gli portato la morte - proseguendo - nonostante il rumoroso silenzio caduto sulla vicenda, speriamo in una reazione dell’opinione pubblica affinché non cali il silenzio su queste morti bianche nelle Forze Armate italiane”.
Dopo aver appreso la notizia, la neo direttrice della nuova Commissione parlamentare d’inchiesta sull’Uranio impoverito, Livia Menapace, che ieri era presente al convegno “Uranio: verità a confronto. Spunti per la nuova Commissione d’inchiesta” organizzato dall’ANAVAFAF, e che è ancora in attesa di indire l’avvio dei lavori, ha dichiarato: “Mi ha addolorato moltissimo la notizia della morte di un altro giovane militare italiano reduce dai Balcani” affermando che “questo ennesimo tragico decesso rende ancora più urgente ed importante la delicata missione della commissione da me presieduta, per stabilire con certezza le cause”; l’esponente del Prc ha inoltre ricordato quanti sono i giovani militari e civili ammalati “ignari degli effetti dell’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e della dispersione nell’ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni” ed ha concluso rassicurando gli ammalati e le famiglie con la garanzia del suo massimo impegno e di quello di tutta la Commissione “per chiarire in modo definitivo il ruolo svolto dall’uranio impoverito e poter quindi adottare i provvedimenti più adeguati per garantire la sicurezza al personale militare e civile”.
È d’obbligo ricordare che il primo caso di uranio impoverito, che concerne la Bosnia, fu segnalato dall’ANAVAFAF, presieduta da Franco Accame, e riguardava il militare Salvatore Vacca, ammalatosi dopo una permanenza nei Balcani. All’epoca venne espressa una certa preoccupazione riguardo la possibile contaminazione del militare con l’uranio impoverito. Ma il ministero della Difesa negò, in un’interrogazione parlamentare che tale sostanza fosse stata impiegata in Bosnia. A quel punto, l’associazione che si occupa delle vittime appartenenti alle forze armate, inviò al ministero della Difesa l’intera documentazione rilasciata dal Pentagono che invece comprovava in modo inequivocabile l’utilizzo di armi all’uranio in Bosnia. Ma, del resto, l’uso della sostanza letale era già ben noto nella base di Aviano (base al comando di un Colonnello dell’Aeronautica italiana), da cui erano partiti gli aerei che avevano bombardato la Bosnia. Se il Comando quindi, aveva impartito gli ordini di operazione relativi e aveva, di contro, ricevuto i relativi rapporti di operazione, il nostro ministero della Difesa doveva necessariamente essere a conoscenza dell’utilizzo dell’uranio. Ma, passò molto tempo prima che il ministero della Difesa ammettesse l’uso dell’uranio impoverito in Bosnia e, quando lo fece, dichiarò anche che erano stati sparati diecimila proiettili. Resta il fatto, comunque, che già nel 1984 la Nato aveva emanato e rese pubbliche delle norme per il maneggio a temperatura ambiente delle barre all’uranio impoverito, utilizzate per timoni di direzione negli aerei e nei missili. Ma, mentre gli americani adottarono misure precauzionali già durante l’operazione “Restore Hope” in Somalia nel 1993, i nostri militari dovettero attendere sei anni. In particolare, le prime misure non furono adottate neanche all’ingresso dei soldati italiani in Kosovo, nella primavera del 1999, ma solo cinque mesi più tardi. Altro dato importante che va ad inserirsi in questa situazione kafkiana, riguarda le inutili Commissioni Mandelli, istituite nel 2001 dall’allora ministro della Difesa Sergio Mattarella, che, mentre da una parte decretavano con assoluta superficialità la non correlazione tra l’incidenza di forme tumorali e di altre patologie con l’elemento radioattivo, dall’altra non escludevano che il linfoma di Hodgkin, assai diffuso nei militari impegnati nei Balcani (non statisticamente definitivo per alcuni), “potesse essere stato causato dalla contaminazione con l’uranio impoverito”, come affermò in un’intervista dal titolo “Non abbiamo mai escluso che l’uranio fosse letale”, il professore Marino Grandolfo (Direttore di Ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità e membro della Commissione Mandelli).
Così oggi mentre esiste un documento dell’Army Environmental Policy Institute (AEPI), Health and Envirronmental Consequences of Depleted Uranium Use in the U.S. Army, pubblicato nel 1995 e in cui si legge che “gli effetti a breve termine dell’assorbimento di dose elevate di uranio impoverito possono condurre al decesso, mentre dosi meno massicce, a lungo termine, possono produrre alterazioni neoplastiche” e mentre cresce a quarantacinque, nella sola Italia, il numero delle persone decedute per probabile contaminazione da uranio, si è prima metastatizzata e poi sempre più consolidata nei governi l’idea che ammettere che l’utilizzo dell’uranio impoverito vada impedito, o che comunque i soldati vadano adeguatamente protetti sia impossibile. Aumenteranno così i tumori e i linfomi tra i militari reduci, mentre i politici a gran voce smentiranno l’utilizzo di questo “maledetto elemento radiottaivo” o addomesticheranno le cifre dei morti per dimostrare che sono casuali, dimenticando che esiste una sola verità, oramai certa: le nanoparticelle di uranio generatesi nelle esplosioni possono penetrare negli alveoli polmonari o nell’apparato digerente e causare linfomi e altri tumori.