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Le guerre dell’acqua (recensione)

di Silvia R. Lolli - 26/02/2007

Vandana, Shiva, (2003), Le guerre dell’acqua, Saggi Feltrinelli

 

La lettura del libro Le guerre dell’acqua scritto da Vandana Shiva, fisica ed economista indiana, nel 2002 e tradotto in italiano nel 2003, apre la mente, permette molti spunti di riflessione al lettore, attraverso l’acquisizione di informazioni, conoscenze non sempre facilmente reperibili nel villaggio globale odierno.

Il titolo invita a vedere la risorsa acqua come causa primaria delle guerre che continuano a svolgersi nel mondo. E’ forse un’informazione risaputa, ma la sua divulgazione non è certamente sufficiente; infatti parlando delle guerre oggi si preferisce fermarsi alle cause più manifeste, come la religione o la crisi petrolifera. Anche l’annoso conflitto palestinese continua ad esserci presentato come occupazione di territori per cause di egemonia culturale e religiosa. Shiva fra l’altro distingue le guerre di paradigma dalle guerre vere e proprie. Quelle paradigmatiche sono globali e si contrappongono culture diverse.

Dovremmo invece continuamente andare oltre la prima facile spiegazione e diffondere il più possibile una controinformazione come fa anche questa rivista.

Il libro può essere considerato un manifesto  politico  per l’oggi o l’immediato futuro già dalla prima pagina, con dedica, un antico inno del Rig Veda: “Acqua di vita” e dalla prefazione. Ricordare il passato, la memoria del passato e più nello specifico dell’acqua, è una scelta precisa: l’autrice descrive la fatica delle comunità indiane a mantenere la propria cultura millenaria dell’acqua di fronte al devastante potere delle multinazionali coadiuvate dalla banca mondiale. Non si limita però a presentare la situazione in India, dove ormai si sono lanciate le multinazionali che commerciano anche l’acqua da bere e vendono questa risorsa primaria piuttosto che donarla come è sempre successo qui, ma apre finestre su altre parti del mondo: dalla Bolivia alla Francia…

Il libro è “dedicato alla popolazione di Tehri e della valle di Bhagirathi, le cui case stanno per essere sommerse dalla diga di Tehri, che annullerà così anche la penitenza di Bhagirath.”  Oggi dovrebbe esserci un libro simile dedicato alle popolazioni cinesi evacuate a causa della diga costruita sul fiume Giallo.

Sono infatti le dighe, costruite in modo invasivo da ingegneri di imprese private di livello mondiale (è il privato che costruisce con capitali pubblici della Banca Mondiale promettendo sviluppo, ricchezza alle popolazioni locali), fra le principali cause dell’impoverimento delle popolazioni che vivono in molte regioni indiane. Sono le imprese multinazionali che investono in più settori: opere pubbliche, servizi idrici, Ogm, commercio dell’acqua minerale.

Gli stati territoriali indiani in nome dell’idea di sviluppo delegano queste imprese multinazionali a costruire senza verificare troppo la reale sostenibilità del futuro dei territori, cambiando sistemi agricoli o di pesca che per millenni avevano mantenuto le popolazioni. Dopo queste operazioni che arricchiscono le borse mondiali, più che la ricchezza annunciata rimane sul territorio locale solo desertificazione, povertà e fragilità ecologica. A questo proposito Shiva ricorda l’escalation dei disastri umani nello stato di Orissa, dovuto ai mutamenti climatici e alla trasformazione artificiale delle coste nell’India orientale: il ciclone del 1999 o la siccità del 2001.

Ma la situazione non è migliore in altre parti del mondo, “la privatizzazione dei servizi idrici è il primo passo verso la privatizzazione dell’acqua in tutte le sue forme”. Ormai ci sono regole sovranazionali che determinano le scelte degli stati nazionali, sono regole stabilite dal Wto e dal Gats. “Il Gats è uno strumento che serve a ribaltare il decentramento democratico cui aspirano società diversificate. L’organismo può contestare misure varate dai governi centrali, regionali o locali e da enti non governativi. Le sue regole sono state formulate esclusivamente dalle grandi aziende, senza che Ong, governi locali e nazionali avessero la minima voce in capitolo.”

Nonostante le situazioni presentate il libro finisce comunque con una speranza, perché presenta alcuni esempi concreti di movimenti locali che ripropongono sistemi di raccolta idrica diversi dai grandi progetti; per scongiurare i pericoli della desertificazione o si  ricostruiscono i tradizionali sistemi di serbatoi per la raccolta dell’acqua o si costruiscono sistemi idrici di piccole dighe, molto più sostenibili. Alla base di queste esperienze si avvia la ricostruzione di un tessuto democratico; attraverso la decisione e la gestione collettive si evitano i conflitti:

“La gestione comunitaria evita i disastri ecologici e previene così i conflitti sociali…I movimenti di conservazione idrica stanno anche mostrando che la vera soluzione alle crisi dell’acqua risiede nell’energia del popolo, nel lavoro, nel tempo, nella cura e nella solidarietà di cui esso è capace. L’alternativa più efficace ai monopoli dell’acqua è la democrazia dell’acqua…”. Shiva sottolinea che anche le donne hanno un ruolo primario. Nel Gujarat si inseriscono nei consigli per l’acqua e stanno assumendo la guida delle iniziative per la creazione di sistemi di raccolta. Fra i risultati di questi movimenti viene ricordato che nel Swadhyaya, in cui è attuato il principio di volontariato (bhatkti), durante la siccità del 2000, non è mai stata esaurita l’acqua.

La speranza di Vandana Shiva è dunque lo sviluppo di questa democrazia dell’acqua, possibile se si ricostituisce o si mantiene il “valore dell’acqua”; l’acqua è sacra, occorre darle un valore, perché è “un essere forte, valido”, “si fonda sul ruolo e la funzione di forza vitale per animali, piante ed ecosistemi…”

Solo in questo modo si potrà mantenere la democrazia che passa ed è prodotta dal mantenimento del diritto comunitario; l’acqua può essere solo di proprietà comune: “Al di là delle burocrazie e delle potenze industriali c’è la promozione della democrazia dell’acqua.” L’acqua non può essere colonizzata (la deviazione dei corsi d’acqua per l’irrigazione, la costruzione di dighe, la logica da Far West…), diventare una proprietà privata ed essere commercializzata acquisendo solo un valore economico, ma deve rimanere un diritto ripario, che nella cultura indiana e di altre popolazioni più rispettose della natura, permette di continuare a donare l’acqua che viene condivisa come risorsa naturale. L’acqua è un diritto naturale, della specie dei diritti di usufrutto: si può utilizzare ma non possedere.

Quindi per evitare i conflitti occorre riappropriarsi culturalmente sui più antichi principi ripari che si basano “sull’idea di condividere e conservare una comune fonte idrica”.

In libro dunque come un manifesto politico per il ventunesimo secolo? Può diventarlo assieme a scritti di altri autori che mantengono la conoscenza delle loro tradizioni. Basti pensare ad amartya Sen o a Serge Letouche.

Le varie contaminazioni culturali dovrebbero servire per impostare un’agenda poitica per il futuro mondiale che risponda non tanto al global dell’attuale economia e della finanza, quanto ad una rinnovata localizzazione nel rispetto della sostenibilità ecologica. Questa dovrebbe essere la nuova idea di sviluppo (lo chiamiamo de-sviluppo?)

Ci si può poi domandar: possiamoa ttenderci un contributo in questo senso dai pensatori cinesi? Non sembra ancora possibile visto il predominio dell’idea di sviluppo industriale spesso incontrollato in questo paese (vedi per esempio i vari reportages di Rampini). C’è la continuità allo sviluppo occidentale sotto la spinta dei poteri economici mondiali aiutati in questo dallo Stato burocratico comunista che continua ad incarnare bene lo sviluppo capitalistico del comunismo come già Lenin aveva fatto introducendo i principi tayoloristici dell’organizzazione industriale.

Tuttavia, accanto alla distruzione dei luoghi e di molte comunità locali, forse in altre forme sta passando il pensiero tradizionale cinese; sono le pratiche orientali sul corpo/mente che stanno invadendo l’occidente.

Ritornando a Le guerre dell’acqua il manifesto può essere già racchiuso in alcuni punti scritti nella prefazione, quando Shiva ricorda “le lezioni che ho tratto dalle crescenti e diversificate espressioni del fondamentalismo e del terrorismo…”:

“1) I sistemi economici non democratici che centralizzano il controllo sulle decisioni e sulle risorse e sottraggono alla popolazione occupazioni produttive e mezzi di sostentamento creano una cultura dell’insicurezza.

2) La distruzione del diritto alle risorse e l’erosione del controllo democratico sui beni naturali, sull’economia e sui mezzi di produzione minano l’identità culturale.

3) I sistemi economici centralizzati erodono anche la base democratica della politica…Anziché integrare le popolazioni, la globalizzazione d’impresa sta lacerando le comunità.”

E finendo con una frase di Gandhi: “La terra ha abbondanza per le necessità di tutti ma non per l’avidità di pochi”, Shiva sottolinea che l’ecologia della pace “sta nell’alimentare la democrazia ecologica ed economica e nel favorire la diversità”.

Concludendo rimane solo un nostro auspicio: di trovare presto tradotti gli altri libri dell’autrice per poter approfondire meglio il suo pensiero attraverso le sue conoscenze.