Compagni di scuola. Ascesa e declino dei postcomunisti (recensione)
di Stenio Solinas - 27/02/2007
Il loro motto (...come a destra): non essere mai niente di preciso, così da non doverne rispondere
Incapaci di trovare vere e innovative soluzioni ai problemi contemporanei, vivono nell’ansia di perdere potere e privilegi.
Q
uando eravamo ancora nelXX secolo a un Ferdinando
Adornato che scriveva
saggi in cui invitava ad
andare «oltre la Sinistra»»,
Massimo D’Alema replicò
ironicamente: «oltre la
Sinistra, caro Nando, c’è solo la Destra».
Adesso che siamo nel XXI secolo, e molta
acqua è passata sotto i ponti, non sorprende
ritrovare quella contrapposizione riveduta e
corretta: «La Sinistra è un male, solo l’esistenza
della Destra rende questo male sopportabile». Chiedersi a questo punto che
cosa siano e che senso abbiano i due termini
in questione, è un esercizio sterile: più interessante,
semmai, è interrogarsi sul perché di
uno slittamento progressivo dei significati
grazie al quale chi quindici anni fa fu l’altero
assertore della propria parte ideologica si
ritrova, quindici anni dopo, a coniugarla solo
in negativo, un non essere qualcos’altro piuttosto
che essere qualcosa. Un interrogarsi
che, volendo, si potrebbe agevolmente rovesciare
di segno... e quindi: «La Destra è un
male, solo l’esistenza della Sinistra rende
questo male sopportabile». Rispondere a uno
o all’altro significa comprendere il rebus
della politica italiana.
Restiamo al primo corno del problema,
come fa Andrea Romano in questo suo
Compagnidi scuola. Ascesa e declino dei postcomunisti
(Mondadori, 156 pagine, 16,50 euri).
Che cosa rimprovera l’autore ai D’Alema,
Veltroni, Fassino, Bassolino, Petruccioli e
insomma a una dirigenza che fece in tempo a
essere comunista e poi postera di se stessa?
L’essersi comportata più come una famiglia
che come una classe politica, l’essersi cioè
più impegnata a tutelare la propria sopravvivenza
e la propria identità dalle minacce
esterne e dalle sfide del cambiamento, che
non a giocare fino in fondo la partita del rinnovamento
della propria parte politica e dell’Italia,
prigioniera, dunque, di un blasone
familiare al quale non ha mai saputo veramente
rinunciare e che, a vent’anni dalla fine
del Pci, la condanna oggi a una parabola
mesta e senza eredi.
In questa «tutela», naturalmente, i vari leaders
in questione hanno messo in campo l’energia
e l’intelligenza che era loro propria.
Così, D’Alema ha sparso a pieni mani il suo
tatticismo, nella convinzione che solo l’esercizio
del potere era in grado di coprire l’assenza
di un reale progetto politico. E Veltroni
ha coerentemente percorso la sua strada di
finto
outsider di una nomenklatura di cui èinvece rimasto per tutto quel ventennio roccioso
esponente, segretario e vicepremier,
ministro e sindaco... Quanto a Fassino, il suo
ruolo è consistito in una strategia della
sopravvivenza, della ricomposizione e del
ritrovamento identitario, una battaglia, se si
vuole, di retroguardia, necessaria nel
momento in cui l’esperienza politica di
governo si era rivelata fallimentare e il magma
della cosiddetta «società civile» minacciava
di rompere i fragili argini di un partito
sconfitto e non più egemone.
Sul perché il rinnovamento non ci sia stato,
Romano dà più di una risposta. La prima
riguarda l’equivoco identitario. Per tutti gli
anni Sessanta e Settanta il Pci aveva fatto
della propria «diversità» l’elemento cardine
della identificazione fra partito ed elettorato:
una diversità ideologica ed etica che negli
anni Ottanta del craxismo trionfante aveva
consentito lo sventolare della questione
morale come vessillo dietro cui
nascondere una sempre più evidente
incomprensione della società italiana.
Erano via via seguite le illusioni
sulla
perestroika di Gorabaciov,applaudita come capacità
del comunismo di riformarsi,
mentre invece ne sarebbe stato
il più feroce distruttore;
sull’«antipolitica» provocata
dalle degenerazioni
della politica politicante,
che avrebbe sì
spazzato via l’unico
competitor
internoalla sinistra, il Psi, ma avrebbe
aperto la strada al fenomeno
Berlusconi contro cui il Pci-Pds
occhettiano sarebbe andato clamorosamente
a schiantarsi. Così,
classe dirigente ed elettorato si
sono a un certo punto ritrovati
prigionieri gli uni dell’altro. Le
sconfitte provocavano l’arroccamento,
l’arroccamento veniva
visto come l’unico modo per
evitare altre sconfitte.
L’elettorato diminuiva, ma quello che restava
chiedeva rassicurazioni sulla propria «diversità
», la classe dirigente si affannava a dargliele,
ma così facendo non poteva intercettare
nuovi voti né, tantomeno, proporre una
nuova politica.
La seconda risposta riguarda il come e dove
rinnovarsi. Una nuova sinistra avrebbe logicamente
dovuto cercare un suo posto in una
dimensione socialista e socialdemocratica
che a livello europeo aveva una lunga tradizione
e una riconosciuta legittimità. Lì si
poteva innovare, modificare, sperimentare,
ma questo urtava contro i troppi pregiudizi e
le troppe lotte interne alla storia italiana perché
potesse avvenire senza metaforici spargimenti
di sangue. Così, si preferì il salto mortale
della «rivoluzione liberale», il passaggio
annunciato dalle cooperative al mercato e
alle Merchant Bank, dalle tutele alla meritocrazia,
alle liberalizzazioni su cui il governo
D’Alema franerà rovinosamente.
Ci fu, insomma, sfiducia e paura. Sfiducia
nelle capacità di adattamento e di cambiamento
di un bacino elettorale che intanto si
andava prosciugando. Paura per un’impasse
che prima di essere politica era culturale,
significava cioè un profondo e coerente lavoro
di revisione, di studio, di elaborazione. E
probabilmente, sullo sfondo, c’è anche una
inadeguatezza a compiere un’impresa del
genere, se non una consapevolezza dei propri
limiti, mista all’ansia di perdere quello che si
era faticosamente guadagnato e che, con la
caduta definitiva del fattore K, perché il
comunismo non c’era più, significava la possibilità,
finalmente, di governare in proprio e
non per interposta persona, e ai massimi
livelli. E allora, perché rischiare dal momento
che, comunque, si era dentro la stanza dei
bottoni?
La «Sinistra come male» dell’aforisma dalemiano
è tutta qui, nell’incapacità ossia a
ripensarla e/o a farne a meno, nel doversi
accontentare della sua esistenza residuale nel
momento in cui diventa l’estremo elemento
identitario rispetto a una Destra che le sta di
fronte. Il dramma è che quest’ultima, per
altre vie, è nella stessa situazione di impasse.
Sul versante rappresentato da Forza Italia
non è in questione un’identità pregressa,
naturalmente, perché non è mai esistita, ma il
«cesarismo» di Berlusconi la condanna alla
angoscia del capo, alla impossibilità di sostituirlo.
La mancanza di progettazione di
Alleanza Nazionale schiaccia invece quest’ultima
su una idea di destra tanto classica
quanto anacronistica, mai esistita nella
moderna storia d’Italia, e la rimanda alla
pura pratica di governo, a un tatticismo di
stile dalemiano all’insegna dei professionisti
della politica. Perché anche qui, purtroppo,
c’è una classe dirigente fatta di «compagni di
scuola». Asini anche loro, ma
come loro convinti di
essere comunque
i primi della
classe.