Simone Weil sulla società industriale
di Mauro Bettiol - 21/11/2005
Fonte: filosofiatv.org
La riflessione di Simone Weil sulla società industriale tra le due guerre: dal concetto marxiano di “sfruttamento” a quello di “oppressione burocratica e tecnocratica”
Simone Weil in una lettera del febbraio 1933 all’amico sindacalista Urbain Thévenon scrive: “È il momento di intenderci tutti: sindacalisti, comunisti all’opposizione e anche ortodossi sinceri della base … È soprattutto il momento –e in particolare per tutti i giovani– di mettersi seriamente a rivedere tutte le nozioni, invece di adottare al 100% una qualsiasi piattaforma d’anteguerra (CGT anteguerra o partito bolscevico), ora che tutte le organizzazioni operaie hanno totalmente fallito”.[1] Per la filosofa era ormai innegabile che il movimento operaio uscito dalla Prima Guerra Mondiale fosse ostacolato dai limiti che affliggevano le proprie organizzazioni di riferimento, fossero esse partiti o sindacati; limiti teorici nei confronti del processo involutivo di burocratizzazione congenito alla Rivoluzione d’Ottobre e del crescente peso dello Stato all’interno del mondo occidentale, ma soprattutto limiti pratico-organizzativi essendo partiti e sindacati afflitti dal “male burocratico” come le istituzioni. Quello stesso sindacato, investito di una responsabilità rivoluzionaria dal sindacalismo rivoluzionario e su cui la Weil militante del 1931-32 riponeva la sua fiducia e le sue speranze di trasformazione della società, le appariva ora un’associazione al proprio interno gerarchica come le altre.[2] Proprio nella primavera del 1933, riferendosi ai suoi amici sindacalisti, così si esprimeva: “In principio ero con loro, ma ora mi accorgo che sono molti i problemi che essi non risolvono. A parer mio, invece di prendere posizione in questo senso, bisognerebbe considerare di nuovo ed esaminare, alla luce delle ultime esperienze e senza partito preso, il problema dell’organizzazione del proletariato”.[3]
La questione che agli occhi della filosofa stava assumendo una vitale importanza per le sorti del proletariato e che proprio per questo necessitava di una rapida soluzione era quella della ricerca di “un’organizzazione che non generi una burocrazia. Perché la burocrazia tradisce sempre. E l’azione non organizzata resta pura ma fallisce”.[4] La Storia insegna: l’esperienza di due grandi eventi che hanno visto protagonista il movimento operaio, la Comune di Parigi[5] e l’Ottobre '17, mostra infatti che “le insurrezioni del tipo della Comune sono ammirevoli, ma falliscono … Quelle del tipo dell’Ottobre '17 non falliscono, ma finiscono col rinforzare la macchina burocratica, militare e poliziesca”.[6] La Comune costituisce un esempio, non solo del potere creativo delle masse operaie in sommossa, ma anche dell’incapacità di un movimento spontaneo quando si tratta di lottare contro una forza repressiva organizzata. Viceversa l’Ottobre '17, dove si era trovato il modo di unire l’azione legale all’azione illegale, il lavoro sistematico dei militanti disciplinati all’insurrezione spontanea delle masse, aveva partorito un regime oppressivo che si era adattato ai confini delle frontiere nazionali e il cui ruolo verso l’esterno consisteva, come gli ultimi avvenimenti in Germania stavano a dimostrare, nello strangolare la lotta rivoluzionaria del proletariato.
Era ormai tempo di bilanci e un primo bilancio dopo un secolo di esperienza operaia, interlocutorio, di carattere apparentemente pratico, la pensatrice lo fece nel maggio 1933 con uno scritto, rimasto inedito, significativamente intitolato Faisons le point; una riflessione ancora ad “uso interno”, destinata ai sinceri militanti del sindacato, ma ben presto il dovere della verità non avrebbe ammesso più remore. Trascorsi quasi mezzo secolo dal Manifesto comunista e sedici anni dalla Rivoluzione russa, Simone Weil rivolgendosi ai propri compagni chiede ironicamente a che punto siano le organizzazioni operaie dopo il tradimento della II Internazionale, dopo la disastrosa politica del Komintern e il costituirsi in U.R.S.S. di un apparato burocratico, militare e politico sempre più oppressivo; quali siano le possibilità di realizzare un cambiamento e più precisamente quali garanzie possano fornire i sindacati nel momento in cui si propongono di prendere il posto del partito nel ruolo di guida rivoluzionaria della classe operaia. Di fronte al fallimento generale del movimento operaio la conclusione che si impone è solo questa: bisogna “riprendere dalla base tutti i problemi posti dall’azione rivoluzionaria. Tutte le concezioni diffuse attualmente tra i militanti risalgono al periodo precedente la guerra. Ora, l’esperienza degli ultimi vent’anni ci impone la revisione totale di queste concezioni”.[7]
Era dunque per lei inevitabile rimettere in discussione e rivedere lucidamente sia la storia che i fondamenti teorici che stavano alla base del fronte operaio e rivoluzionario. Il fatto stesso che nessun rivoluzionario avesse mai tentato di trarre un insegnamento sistematico dal confronto tra la Comune e l’Ottobre '17 stava a dimostrare che l’elaborazione teorica del pensiero rivoluzionario era ormai obsoleta. Inoltre la stessa opera più importante di Lenin, Stato e rivoluzione, stabiliva per la Weil i principi di una rivoluzione che era fallita e alla quale aveva fatto immediatamente seguito una rivoluzione vittoriosa, ma, fin quasi dall’inizio, in completa contraddizione con quei principi, contraddizione che si era continuamente accentuata.[8] Proprio a causa di questi limiti nel pensiero di sinistra, auspicava che i rivoluzionari potessero liberarsi da tutte le tendenze ed imparare “a porre i problemi in modo onesto – cosa che i militanti raramente hanno il coraggio di fare”;[9] un contributo alla riflessione poteva eventualmente venire, secondo lei, solo da quei militanti che non approvavano il corso staliniano e, in quanto materialisti, lo consideravano non come caduto dal cielo ma come uno sviluppo naturale dell’Ottobre '17.
Nella stessa primavera del 1933, la filosofa scriveva Réflexions concernant la technocratie, le national-socialisme, l’URSS et quelques autres points,[10] testo che anticipa il grande articolo Perspectives e con il quale la Weil mostra di non accontentarsi più del marxismo esponendo le proprie idee “eretiche rispetto a tutte le ortodossie”. Marx rappresenta per lei un grande pensatore, artefice di una illuminante dottrina sociale, certamente valida per il suo tempo, ma ormai insufficiente per i nuovi fenomeni sociali che stavano caratterizzando la prima metà del '900. Si rende conto che il filosofo tedesco è utilizzato dal pensiero rivoluzionario come un semplice nome per tacciare l’avversario, mai come un metodo; è pienamente convinta che “il marxismo non può rimanere vivo che a patto di essere usato come metodo d’analisi di cui ogni generazione si serve per definire i fenomeni essenziali della propria epoca”.[11] La pensatrice non mette quindi in causa il metodo marxista, anzi spera che si continui ad applicarlo: Marx non ha potuto farlo, lo ha applicato solo all’analisi del suo tempo; spetta ora ai militanti onesti servirsene per comprendere la contemporaneità, dato che “noi ne sappiamo più di Marx nel '71 e di Lenin prima dell’Ottobre '17”.[12] Per la filosofa il fattore nuovo nella lotta sociale è la potenza della burocrazia, succeduta a quella del capitale e riscontrabile, seppure in forme differenziate, nel regime sovietico come nel capitalismo di Stato del nazionalsocialismo, e ancora in quel movimento tecnocratico che stava prendendo piede nell’America rooseveltiana. In Unione Sovietica la dittatura del proletariato ha lasciato il posto alla dittatura burocratica del partito che decide del tutto indipendentemente non solo della politica interna ed estera ma anche della politica industriale. L’economia sovietica soffre, infatti, di una deriva tecnocratica: essa è retta da una logica derivante direttamente dagli esperti della produzione (funzionari, ingegneri, tecnici d’ogni specie) che costituiscono una vera e propria burocrazia industriale. Il regime sovietico, lungi dall’instaurare una rottura radicale con il capitalismo secondo le affermazioni della sua propaganda, partecipa in verità ad una grossa tendenza dei paesi borghesi: anche nella grande industria capitalistica il potere viene ormai esercitato non dagli stessi capitalisti che “si sono andati sempre più staccando dalla produzione in quanto tale per consacrarsi alla guerra economica”,[13] bensì da ingegneri e amministratori che decidono sovranamente in materia di organizzazione. In America viene infatti sostenuta apertamente la teoria tecnocratica, mirando al raggiungimento di una nuova economia non più sballottata nel caos delle concorrenze, ma diretta dai tecnici investiti di una specie di potere dittatoriale. A sua volta in Germania l’apparato burocratico statale, nelle mani del movimento nazionalsocialista, si è alleato al capitale finanziario (cosa che non si è verificata in U.R.S.S.)[14] con lo scopo di creare un’economia chiusa e diretta dalla triplice burocrazia statale, industriale e sindacale, fusa in un unico meccanismo e posta sotto lo stretto controllo del partito. La constatazione della somiglianza tra i tre regimi (sovietico, fascista, liberale), quantunque le modalità assunte dal nuovo fenomeno sociale potessero essere differenti in ciascuno dei paesi interessati, permette a Simone Weil di concludere che le due categorie economiche stabilite da Marx, capitalisti e proletariato, non sono più sufficienti a dare ragione delle trasformazioni in atto nell’economia e nella società, impedendo di fatto di cogliere le sorprendenti analogie tra dei sistemi che pur si volevano in lotta tra loro.
Alla ricerca di nuove basi concettuali da dare al movimento rivoluzionario, la Weil elaborò nell’agosto 1933 il suo primo vero scritto di analisi teorica[15] che propose coraggiosamente e provocatoriamente agli amici della rivista “La Révolution prolétarienne” col semplice e neutro titolo di Perspectives, al quale i redattori fecero seguire un più incauto Allons–nous vers la révolution prolétarienne?.[16] Accanto al problema dell’inadeguatezza della riflessione marxista di fronte ai fenomeni più tristemente vistosi del tempo, lo stalinismo e il nazifascismo, domina il tema che sempre più l’occuperà, anche quando avrà abbandonato la militanza politica, vale a dire la ricerca degli strumenti e dei modi pratici per incidere sulla moderna organizzazione del lavoro, la quale opprime e rende schiavi i lavoratori sotto qualsiasi regime di governo. Questo testo rappresenta l’esito finale delle sue riflessioni sul fallimento della Rivoluzione russa, sulla sconfitta del movimento operaio tedesco, sull’esperienza delle organizzazioni operaie francesi: questi fatti vengono ormai inseriti in una crisi più profonda che investiva la società nel suo insieme e sembrava preparare il terreno all’avvento di un regime totalitario su scala mondiale. La burocratizzazione della società, che si è venuta instaurando in Unione Sovietica con lo stravolgimento delle ipotesi e dei progetti rivoluzionari, creando uno Stato oppressivo quanto un altro, che non è né capitalista né operaio,[17] si configura ormai in modo evidente come una nuova, inedita forma di oppressione, che la vulgata marxista si rivela incapace di interpretare e criticare.[18] Anche di fronte al fascismo e al nazionalsocialismo i marxisti appaiono teoricamente impotenti, paghi solo di ripetere che questi regimi sono «l’ultima carta nelle mani della borghesia prima del trionfo della rivoluzione».[19] Essi non sembrano rendersi conto sufficientemente che il dirigismo economico da parte dello Stato, presente in tutti i regimi, sta originando forme di potere burocratico e tecnocratico ugualmente, se non più oppressive. Dinanzi a questa trasformazione sociale, essa propone ai militanti un’analisi coraggiosa della situazione, nella fabbrica come nella società. Lo fa riprendendo Marx, ma anche avendo il coraggio di andare oltre Marx, perché “la verità ci è più cara di Marx”:[20] proprio la verità vieta di tergiversare ostinatamente di fronte alle inquietanti innovazioni introdotte in fabbrica dalla nuova organizzazione del lavoro. La meccanizzazione, che dagli anni di Marx non ha cessato di imporsi in maniera sempre più massiccia e sofisticata, ha fatto passare il lavoratore dalla fase dell’oppressione in nome del capitale, il cosiddetto sfruttamento, a quella ben più penosa dell’oppressione in nome della funzione. Il concetto di sfruttamento, comune a tutta la tradizione marxista, non è più sufficiente a definire questa fase, non dà ragione delle vere radici della sventura operaia. Dentro la fabbrica, ma poi di conseguenza anche nella società e nello Stato, l’opposizione fondamentale non è più, o meglio non è solo, tra chi compra e chi vende forza lavoro, ma “tra coloro che dispongono della macchina e coloro di cui la macchina dispone”.[21] Gli operai qualificati potevano, negli anni passati, sfuggire in una certa misura all’oppressione, in quanto la loro prestazione d’opera, proprio perché qualificata, consentiva l’esercizio di alcune forme di creatività e di libertà. Ora, con i sistemi coercitivi di razionalizzazione e parcellizzazione delle mansioni elaborati da Taylor, creatività e libertà sono pressoché scomparse. Il ciclo lavorativo è interamente determinato dalla macchina, e l’operaio è ridotto a mero esecutore di movimenti predeterminati. Inoltre, la stessa presenza della macchina ha portato a gonfiare l’organico dei tecnici, i quali attraverso la funzione di coordinamento e di direzione si sono trasformati in strumenti di nuova oppressione. I padroni di un tempo sono scomparsi per far posto a un nemico anonimo, invisibile, sfuggente, il nuovo strato sociale dei tecnici della direzione. L’operaio in questo modo non è più, come sosteneva Marx, unicamente sfruttato, ma defraudato della sua funzione produttiva, ridotto a semplice appendice a servizio della macchina: questa nuova condizione operaia viene chiamata dalla filosofa oppressione tecnocratica.[22] Sia pure in modo negativo, la centralità della fabbrica sussiste perché “la fabbrica razionalizzata, nella quale l’uomo si trova spossessato, a tutto vantaggio di un meccanismo inerte, della sua iniziativa, intelligenza, sapere, metodo, è come l’immagine della società attuale”.[23] Tra la macchina burocratica, costituita dai nuovi funzionari, “carne ben nutrita”, e la macchina coordinatrice, formata dai tecnici, non vi è alcuna differenza: entrambi sono irresponsabili e incoscienti, entrambi tendono a riprodursi e a conservare i privilegi di cui godono. Per questo –ed è il limite, secondo la Weil, della riflessione di Marx, che occorre quindi superare– se anche una rivoluzione politica “può «espropriare gli espropriatori», non si capisce come una forma di produzione basata sulla subordinazione di coloro che eseguono a coloro che coordinano, non dovrebbe produrre automaticamente una struttura sociale caratterizzata dalla dittatura di una casta burocratica”.[24] Se Marx si era reso ben conto della forza oppressiva insita nella macchina burocratica e militare dello Stato, non aveva previsto che questa avrebbe seguitato a funzionare indipendentemente dal gioco dell’economia capitalistica, poiché è questione che non concerne il regime economico (sia esso capitalismo privato, capitalismo di Stato o socialismo reale), bensì la forma di produzione (il sistema della grande industria):[25] “Tutta l’evoluzione della società attuale tende a sviluppare le diverse forme di oppressione burocratica e a dare loro una sorta di autonomia rispetto al capitalismo propriamente detto”.[26] Tale potere sorto con l’esigenza di un miglioramento della produttività nei lavori in fabbrica, tende a trasformarsi in apparato burocratico e tecnocratico di Stato, in grado di assommare in sé l’insieme dei poteri economico, militare e sindacale, come dimostravano l’U.R.S.S., la Germania e l’Italia. Nel corso della Storia, finché la produzione è rimasta ad uno stadio primitivo, la questione del potere si è risolta con le armi. Le trasformazioni economiche l’hanno trasferita sul piano della produzione stessa, dando origine al regime capitalista. L’evoluzione di questo regime, secondo la Weil, ha ristabilito la guerra come mezzo essenziale di lotta per il potere, ma sotto un’altra forma rispetto al feudalesimo: la superiorità nella lotta militare presuppone ora la superiorità nella produzione. Se la produzione ha come obiettivo, in mano ai capitalisti, il gioco della concorrenza, in mano ai tecnici organizzati in una burocrazia di Stato ha come fine la guerra, che continua sotto forma di preparazione sistematica alla guerra. Ciò che si sta generando è dunque per la pensatrice una società razionalizzata sul modello della fabbrica, in cui domina, grazie al progresso della tecnica, la funzione amministrativa, cioè il dominio del “macchinario collettivo” sull’individuo: il risultato è la riduzione di ogni facoltà di giudizio autonomo e di creatività nella vita sociale con lo scopo ultimo, e nelle dittature già acquisito, di ottenere “un miscuglio di dedizione mistica e di bestialità senza freno; una religione di Stato che soffocherebbe tutti i valori individuali, cioè tutti i valori veri … ogni iniziativa, ogni cultura, ogni pensiero”.[27] La situazione imporrebbe al movimento operaio e rivoluzionario un compito nuovo, consistente nella progressiva abolizione della subordinazione dei lavoratori alle macchine e nel progressivo riassorbimento della mansione burocratica e coordinatrice dei tecnici in fabbrica, e dei funzionari nella vita sociale. Infatti, “si avrà il socialismo solo quando la funzione dominante sarà lo stesso lavoro produttivo; ma questo non potrà succedere finché durerà un sistema di produzione in cui il lavoro propriamente detto si trova subordinato, per il tramite della macchina, alla funzione di coordinamento del lavoro” dato che “ogni potere esclusivo e non controllato diventa oppressivo in mano a coloro che ne hanno il monopolio”.[28] I militanti dovrebbero in sostanza conseguire una visione chiara e lucida dei meccanismi oppressivi e, senza lasciarsi irretire dai dogmi marxisti, individuare nuove forme di resistenza, a cominciare dal rafforzamento della democrazia operaia dentro la fabbrica sostenendo il primato dell’individuo attraverso la conoscenza e il controllo globale di tutte le fasi del processo lavorativo. Tuttavia Simone Weil ritiene che le organizzazioni operaie non siano in grado di cogliere la complessità di questi nuovi problemi e quindi di superare una concezione rivoluzionaria che fa ancora coincidere la liberazione dall’oppressione con la presa del potere da parte del proletariato: per lei è chiaro che la vocazione totalitaria della società industrializzata non sarà minimamente scalfita da un semplice rovesciamento del potere politico. Questo quadro negativo della realtà che toglie ogni motivo di speranza nell’esito positivo della rivoluzione, non assolve comunque dalle responsabilità di riflessione e di azione dato che “niente al mondo può impedirci di essere lucidi. Non c’è nessuna contraddizione tra il compito di chiarificazione teorica e i compiti che la lotta effettiva ci impone; al contrario c’è correlazione, perché non si può agire senza sapere ciò che si vuole, e quali sono gli ostacoli da vincere”.[29] Bisogna perciò, in vista dell’edificazione teorica e, fin dove possibile, pratica di una società ragionevole, raggruppare solamente i rivoluzionari onesti e consapevoli del momento storico, coloro che “hanno realizzato dentro di sé, per quanto possibile nella società attuale, l’unione del lavoro manuale e del lavoro intellettuale che definisce la società che noi proponiamo”.[30] Prepararsi e preparare gli operai più coscienti: sono questi i compiti dell’attesa, che non è certo il tempo della rinuncia o del ripiegamento su se stessi, ma il tempo in cui bisogna: “Non essere complice. Non mentire – non restare cieco…”. [31]
Le parole finali dell’articolo Perspectives alludono alla svolta di carattere insieme intellettuale ed esistenziale che porterà Simone Weil, congedandosi dagli anni un po’ febbrili della militanza sindacale, a distribuire il proprio tempo tra l'elaborazione teorica e l'esperienza sul “campo” della condizione operaia con l’entrata in fabbrica nel dicembre 1934.
[1] S. PÉTREMENT, La vita di Simone Weil, Milano 1994, p.206.
[2] Si veda a questo proposito S. WEIL, À qui le pouvoir?, in Oeuvres Complètes di S. Weil, II, 1, Paris 1988, p.357.
[3] PÉTREMENT, La vita di Simone Weil, cit., p.218. Corsivo nostro.
[4] Ivi, p.208.
[5] La Comune di Parigi è il governo autonomo che nel marzo-maggio 1871, durante gli ultimi strascichi della Guerra franco-prussiana, si diedero i parigini (per la maggior parte operai e piccoli artigiani), raccolti intorno alla municipalità. In un clima di assoluta libertà e spontaneità, in mezzo a un fiorire di club politici, di giornali, di rivendicazioni civili, come quelle dei diritti delle donne, furono presi numerosi provvedimenti: fu sospeso il pagamento degli affitti e dei debiti degli operai, artigiani e bottegai; fu dichiarata la separazione della Chiesa dallo Stato e laicizzata l’istruzione pubblica; furono infine progettate cooperative operaie per gestire le fabbriche abbandonate dai proprietari. A maggio l’esercito regolare riconquistò la città, cui fece seguito una feroce repressione.
[6] PÉTREMENT, La vita di Simone Weil, cit., p.205. Corsivo nostro.
[7] S. WEIL, Faisons le point, in Oeuvres Complètes di S. Weil, II, 1, cit., p.222.
[8] In questo periodo la filosofa incominciava a nutrire dei dubbi sulla assenza di responsabilità da parte di Lenin e dei bolscevichi del '17 nella degenerazione della Rivoluzione russa; così confida le sue perplessità ad un amico: “Lenin stesso e i bolscevichi d’Ottobre hanno una responsabilità nella decadenza attuale della rivoluzione? Oppure hanno fatto tutto ciò che era loro possibile? Questione che per me non è chiara” (PÉTREMENT, La vita di Simone Weil, cit., p.217).
[9] Ivi, p.207.
[10] Questo scritto è ora riportato in WEIL, Oeuvres Complètes, II, 1, cit., pp.213-216. Una traduzione italiana è S. WEIL, Riflessioni sulla tecnocrazia, il nazional-socialismo, l’URSS, e qualche altro punto, in Oppressione e libertà di S. Weil, Milano 1956, pp.43-48.
[11] WEIL, Riflessioni sulla tecnocrazia, il nazional-socialismo, l’URSS, e qualche altro punto, cit., pp.43-44. Corsivo nostro.
[12] PÉTREMENT, La vita di Simone Weil, cit., p.253.
[13] WEIL, Riflessioni sulla tecnocrazia, il nazional-socialismo, l’URSS, e qualche altro punto, cit., p.46.
[14] La pensatrice precisa però che neanche in Unione Sovietica la burocrazia “ha avuto un ruolo indipendente; d’altronde, fin quando [in Europa] è durata la feudalità, anche la borghesia ha dovuto allearsi contro di essa con le classi oppresse, o con essa contro le classi oppresse” (Ivi, p.47).
[15] In esso confluiscono la maggior parte dei temi teorici che, successivamente elaborati, contraddistinguono il nucleo fondamentale di tutta la dottrina politica e sociale della pensatrice.
[16] Questo articolo è ora riportato in WEIL, Oeuvres Complètes, II, 1, cit., pp.260-281. Una traduzione italiana è S. WEIL, Prospettive. Andiamo verso la rivoluzione proletaria?, in Sulla Germania totalitaria di S. Weil, traduz. di G. Gaeta, Milano 1990, pp.163-196.
[17] Simone Weil si serve di una famosa analogia cartesiana per mettere in rilievo la diversità sostanziale che contraddistingue lo Stato sovietico da quello socialista: “Descartes diceva che un orologio che non funziona non è un’eccezione alle leggi dell’orologio, ma un meccanismo diverso che obbedisce a leggi proprie; allo stesso modo bisogna considerare il regime staliniano, non come uno Stato operaio che non funziona, ma come un meccanismo sociale diverso, definito dagli ingranaggi che lo compongono, e funzionante in conformità alla natura di questi ingranaggi” (WEIL, Prospettive. Andiamo verso la rivoluzione proletaria?, cit., p.169).
[18] Le argomentazioni su cui fonda la propria teorizzazione, in questo saggio e successivamente nelle Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale, la filosofa le aveva acquisite nel contatto e negli scritti di Boris Souvarine e di Lucien Laurat. Il primo stava lavorando al suo Staline, un’ampia biografia che tracciava un ritratto essenziale del personaggio; il secondo era l’autore de L’économie soviétique, nella cui terza parte analizza l’oligarchie bureaucratique. Di Laurat, la Weil aveva certamente letto con attenzione anche i numerosi articoli che l’economista tra il 1931 e il 1933 pubblicò su “La Critique sociale”: Le mouvement cyclique de la production moderne (marzo 1931), L’économie dirigée (ottobre 1931), Contribution à la théorie des crises (gennaio 1933), L’héritage de Marx (aprile 1933).
[19] WEIL, Prospettive. Andiamo verso la rivoluzione proletaria?, cit., p.171. Questa citazione rinvia all’opinione dominante nel movimento socialista internazionale dell’epoca: il fascismo rappresenta la reazione controrivoluzionaria violenta del capitalismo in periodo di crisi, quando si trova minacciato nella sua stessa esistenza.
[20] Ivi, p.170.
[21] Ivi, p.177.
[22] Si veda l’ottima analisi che DOMENICO CANCIANI fa di questo concetto weiliano confrontato con quello marxista di sfruttamento in Simone Weil prima di Simone Weil, Padova 1983, pp.88-89 e in Simone Weil. Il coraggio di pensare, Roma 1966, pp.117-119. L’intuizione di tale concetto è già presente in due scritti del '32, Le capital et l’ouvrier e Après la visite d’une mine, che vengono quindi a costituire degli abbozzi preparatori dei saggi successivi. Nel primo la pensatrice insiste maggiormente sull’analisi storica e teorica dell’oppressione tecnocratica, riecheggiando i contenuti dei suoi corsi di filosofia. Il progressivo svuotamento della dignità operaia è definito schiavitù completa: in esso si attua il totale rovesciamento dei rapporti tra i lavoratori e gli strumenti di lavoro vale a dire l’operaio non li padroneggia più come un tempo, ne è invece dominato. Nel secondo intervento predomina invece l’aspetto partecipativo ed esperenziale. La Weil era scesa in una miniera ed aveva avuto un primo contatto fisico con la macchina, manovrando un martello pneumatico ed un compressore. Ai suoi occhi il minatore, privato del suo piccone e assoggettato al ritmo accelerato impresso allo strumento dall’aria compressa, diventa l’immagine ingigantita, profondamente espressiva, dell’intera classe operaia del tutto asservita alla macchina: “questa macchina che non è stata ideata a partire dalla natura umana, ma a partire dalla natura del carbone e dell’aria compressa, i cui movimenti seguono un ritmo profondamente estraneo al ritmo della vita, piega con violenza un corpo umano al suo servizio” (S. WEIL, Après la visite d’une mine, in Oeuvres Complètes di S. Weil, II, 1, cit., p.97). Questo scritto lascia intravedere come sia nella natura dell’oppressione tecnocratica di essere colta solo attraverso l’esperienza: se lo sfruttamento operaio può essere studiato anche solo teoricamente, non così la nuova forma di oppressione, che insieme allo studio domanda di essere sperimentata. È comunque in entrambi i saggi un concetto di oppressione che spiega solamente il rapporto alienante che relaziona l’uomo alla macchina, non ancora quell’organizzazione coercitiva industriale che dà vita ad un luogo di lavoro diviso in chi comanda e in chi ubbidisce.
[23] WEIL, Prospettive. Andiamo verso la rivoluzione proletaria?, cit., p.182.
[24] Ivi, p.183. In sostanza per la pensatrice l’espropriazione dei mezzi di produzione rappresenta la condizione necessaria, ma non certo sufficiente, per risolvere il problema del controllo del proprio lavoro.
[25] Poiché la scissione tra coloro che controllano il lavoro e coloro che lo eseguono (creatasi con la produzione capitalistica) precede, nella società contemporanea, lo sfruttamento operaio, la categoria marxiana di modo di produzione viene dalla Weil divisa in due sottocategorie: forma di produzione e regime economico, che in Marx coincidevano. La prima indica il modo in cui l’uomo interagisce con la propria base materiale in vista della produzione, vale a dire i cosiddetti rapporti di produzione e quindi nel ventesimo secolo la subordinazione di chi esegue a chi coordina (l’oppressione tecnocratica) che ha condotto alla grande industria; la seconda sottolinea la diversità con cui degli identici rapporti di produzione possono manifestarsi, individuando ad esempio il particolare soggetto sociale che detiene lo stesso potere nella produzione e nella distribuzione, sia esso il capitalista (generando così lo sfruttamento capitalistico), lo Stato od entrambi.
[26] WEIL, Prospettive. Andiamo verso la rivoluzione proletaria?, cit., p.182.
[27] Ivi, p.186.
[28] Ivi, p.184.
[29] Ivi, p.196.
[30] Ivi, pp.195-196. Corsivo nostro.
[31] S. WEIL, Quaderni, I, a cura di G. GAETA, Milano 19944, p.113.