La manipolazione della realtà
di Michael T. Klare - 23/11/2005
Fonte: nuovimondimedia.com
Tutti gli scenari di crisi creati ad arte dall'amministrazione Bush tramite inganni e illazioni, per promuovere il proprio programma politico e per distogliere l’attenzione pubblica dalle gravi difficoltà e dagli scandali interni
Nel film del 1998 Sesso e Potere (tit. orig. Wag the Dog), lo spin doctor della Casa Bianca Conrad Brean si “inventa” una finta crisi internazionale per cercare di deviare l’attenzione pubblica dallo scandalo su un presunto incontro sessuale all’interno della Casa Bianca tra il Presidente in carica e una minorenne scout. Con l’aiuto del celebre produttore hollywoodiano (interpretato da un Dustin Hoffmann ciarlatano ma divertente), Brean “diffonde” un falso rapporto secondo il quale l’Albania si sarebbe procurata delle bombe atomiche e starebbe cercando di farle sbarcare clandestinamente in suolo statunitense. Questa “minaccia esterna” giustifica, ovviamente, una rappresaglia militare contro l’Albania allo scopo di distogliere l’attenzione pubblica dall’accusa che ha colpito il Presidente. La stampa abbocca al falso documento (vi suona familiare?) e tutte le polemiche sul sexygate vengono messe a tacere o, come Brean avrebbe detto, la “coda” (che simboleggia la crisi costruita ad hoc) dimena il “cane” (ovvero, la politica nazionale).
Come nel film il personaggio di Brean spiega allo staff della Casa Bianca, i presidenti Usa tentano spesso di distogliere l’attenzione pubblica dai reali problemi politici interni, provocando e amplificando altrove una diversione bellica o una crisi. Ora che l’attuale occupante della Casa Bianca deve far fronte a scomodi scandali politici personali, non è da escludere che anch’egli, o il suo tormentato consigliere Karl Rove (per non parlare del suo assediato vice Dick Cheney) stiano già pensando di seguire queste linee di azione. Potrebbe Rove – versione attuale di Conrad Brean nella realtà – aver già inventato uno scenario alla “Wag the Dog”? Solo coloro che hanno accesso al ristrettissimo e riservato circolo di consiglieri della Casa Bianca di George Bush possono saperlo con certezza, ma, dato che l’hanno già fatto in passato, è comunque un’ipotesi plausibile.
È opportuno ribadire che questa amministrazione, più di qualsiasi altra negli ultimi tempi, si è servita di inganni e illazioni per influenzare l’opinione pubblica e promuovere il proprio programma politico. Lo stesso scandalo che ora vede coinvolta la Casa Bianca – l’aver svelato alla stampa l’identità di agente segreto di Valerie Plame, come vendetta politica contro il marito, la “spia” Joseph Wilson (il quale, ex ambasciatore in Africa, dopo aver indagato sulla vicenda, aveva dichiarato l’infondatezza del dossier sul presunto traffico di uranio tra Iraq e Niger - NdT) – parte, infatti, dalla necessità del Presidente di raccogliere consensi per invadere l’Iraq, fornendo intenzionalmente false notizie sulle risorse irachene di armamenti.
Per quale motivo allora Bush e i suoi consiglieri dovrebbero rifiutarsi di ingigantire o distorcere nuove informazioni su altre potenze nemiche, per poi utilizzare tali notizie manipolate per provocare una crisi internazionale?
A questo, si deve aggiungere un crescente livello di belligeranza già percepibile nelle dichiarazioni degli alti funzionari amministrativi nei confronti di potenziali avversari in Medio Oriente e in Asia. Tra queste dichiarazioni, la più sconvolgente è forse quella avanzata dal Segretario di Stato Usa Condoleezza Rice, la quale, il 19 ottobre, ha fatto la sua feroce comparizione davanti alla Commissione del Senato per le Relazioni Estere. Di fronte alle domande di senatori sia democratici che repubblicani, la Rice si è rifiutata di escludere l’utilizzo di forze militari contro la Siria o l’Iraq, e non ha nemmeno riconosciuto alcun obbligo presidenziale di consultare il Congresso prima di prendere parte ad un’azione di questo tipo. Quando il senatore Paul Sarbanes (Democratico del Maryland) le ha chiesto se l’amministrazione “stesse pianificando o meno un’azione militare contro la Siria o l’Iran” e se “possa impegnarsi a farlo senza ottenere un’autorizzazione dal Congresso”, la Rice ha risposto: “Ciò che ho detto è che il Presidente non esclude alcuna opzione e io non dirò nulla che limiti la sua autorità in qualità di Comandante in capo”. Se da una parte continuava a ribadire l’intento dell’amministrazione di utilizzare vie diplomatiche per risolvere le proprie divergenze con la Siria e l’Iran, dall’altra non ha lasciato alcun dubbio riguardo alla volontà (e al diritto) di Bush di impiegare l’uso della forza in qualsiasi momento o contro qualsiasi bersaglio di sua scelta.
Da più parti si sostiene che per ora Bush non potrebbe assolutamente contemplare la possibilità di un’azione militare contro Iran, Siria o qualsiasi altra potenza ostile: le truppe armate Usa sono già dispiegate oltre i limiti in Iraq, quindi mancherebbe la capacità di intraprendere una campagna significativa in un altro paese. Come minimo, questi analisti trascurano di considerare le enormi risorse aeree e navali americane difficilmente impiegate in Iraq e certamente utilizzabili altrove. Ma non è questo il punto. Come il film Sesso e potere suggerisce, la guerra stessa non è il solo modo per distrarre l’attenzione pubblica dai guai interni del Presidente. Creare un’atmosfera di crisi in cui si preannuncia l’arrivo di una guerra o i preparativi per un conflitto che facciano passare in secondo piano tutto il resto, può rivelarsi un espediente efficace. E i funzionari amministrativi non hanno bisogno di nuovi eserciti per realizzare tutto ciò, ma solo scenari verosimili che intensifichino gli attuali problemi interni di paesi stranieri, che purtroppo, non sono affatto difficili da rintracciare.
Quali sono allora gli scenari più promettenti a portata di mano per raggiungere un tale scopo? Molti di questi possono essere previsti, ma i più credibili – fatta eccezione di un nuovo grande attacco terroristico agli Stati Uniti – implicherebbero uno scontro militare con Siria, Iran e Corea del Nord.
Obiettivo Siria
La Siria sembra essere il candidato più probabile per creare un’immediata e turbolenta crisi di politica estera. Come prima cosa, è stata già ufficialmente definita uno “stato paria”, sia per il suo sospetto coinvolgimento nell’assassinio dell’ex Primo Ministro libanese Rafik Hariri, sia perché l’amministrazione Bush non fa altro che accusarla di facilitare il transito verso l’Iraq di jihadisti.
La questione del coinvolgimento siriano nella morte di Hariri è scaturita subito dopo l’esplosione dell’autobomba che il 14 febbraio scorso ha ucciso l’ex Primo Ministro (e altre 22 persone) nel centro di Beirut. Siccome Hariri aveva condotto una lunga campagna a favore del ritiro del contingente militare siriano di stanza in Libano, i suoi sostenitori hanno continuato a dichiarare il ruolo che Damasco deve aver giocato nell’esplosione. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno convinto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ad aprire un’inchiesta internazionale sull’attentato. Un rapporto preliminare redatto dalla commissione d’inchiesta e diffuso il 24 ottobre, suggerisce in maniera decisa il ruolo determinante degli alti ufficiali siriani nell’organizzazione dell’attacco. Washington e Londra, quindi, hanno fatto nuovamente ricorso al Consiglio di Sicurezza il 31 ottobre e hanno fatto approvare una risoluzione che chiede al governo siriano di cooperare appieno nell’inchiesta e di mettere a disposizione degli inquirenti tutti gli alti funzionari sospettati del coinvolgimento, che verranno poi sottoposti ad interrogatorio dalla stessa commissione d’inchiesta.
Questa risoluzione mette anche in guardia la Siria da “possibili ulteriori azioni” (un’ovvia minaccia di applicare sanzioni economiche) nel caso in cui il paese non ottemperi alle disposizioni. La posta in gioco è stata in seguito aggravata il 7 novembre, quando gli inquirenti dell’ONU hanno chiesto di interrogare sei alti funzionari siriani, tra cui il Generale Assef Shawkat, il potente cognato del Presidente siriano Bashar al-Assad.
Fin dall’inizio, la Casa Bianca ha approfittato degli sviluppi di questa vicenda per bollare la Siria come “stato fuorilegge” e preparare il terreno per un attacco diplomatico al regime di Assad. Condoleezza Rice è stata particolarmente dura. Dopo l’approvazione della risoluzione ONU il 31 ottobre, infatti, la Rice dichiara: “Con la decisione di oggi, abbiamo dimostriamo che la Siria si è isolata dalla comunità internazionale a causa delle sue false dichiarazioni, del suo sostegno a favore del terrorismo, della sua interferenza negli affari dei paesi confinanti, e del suo comportamento destabilizzante in Medio Oriente”, e formula, infine, l’argomento decisivo: “Il governo siriano deve ora prendere una decisione strategica per cambiare radicalmente il proprio modo di agire”.
Quali cambiamenti deve adottate il governo siriano? Quali saranno le conseguenze se si rifiuta di farlo? Non ci sono risposte chiare a queste domande, ed è probabile che non ne esistano proprio. L’intento, per quanto possa essere stabilito, non è quello di raggiungere una sorta di risoluzione pacifica del problema, ma piuttosto di tenere sul filo del rasoio Damasco, e il resto del mondo, nell’attesa di una nuova crisi da attuare in qualsiasi momento. Pare che questa strategia, conosciuta a Washington con l’espressione “rattling the cage”, sia stata scelta, stando a quel che si dice, da assistenti superiori del Presidente Bush il 1 ottobre durante un incontro alla Casa Bianca. Secondo il New York Times, tale strategia prevede il sottoporre il regime di Assad ad un’incessante pressione, forzandolo a fare concessioni umilianti a Washington (indebolendo, quindi, la Siria dall’interno) o ad affrontare rappresaglie sempre più violente da parte di Washington e dei suoi alleati.
La facciata pubblica di questo presunto attacco USA alla Siria è rappresentata dalla campagna diplomatica intrapresa da Condoleezza Rice e dai suoi associati del Dipartimento di Stato. Nel frattempo, il Dipartimento della Difesa è impegnato invece a condurre il lato oscuro e nascosto di questa iniziativa, attraverso una campagna militare segreta e di basso livello contro la Siria, comprese incursioni a sorpresa ad opera di commando da parte delle forze militari statunitensi con base in Iraq. Questi raid, riportati per la prima volta dal New York Times in ottobre, hanno l’apparente scopo di ostacolare i tentativi delle forze ribelli irachene o dei jihadisti stranieri di utilizzare la Siria come base logistica per incursioni su suolo iracheno. Essi fanno parte, invece, senza dubbio della strategia del “rattling the cage”, progettata per mantenere il regime di Assad in bilico, inducendolo a scontri con le milizie americane, e fornendo, in questo modo, agli Stati Uniti una giustificazione per successive intensificazioni degli attacchi.
È facile intravedere come questo possa trasformarsi in qualcosa che assomiglia di più ad un divampare di ostilità militari su vasta scala con la Siria o, più probabilmente, ad un’escalation di attacchi aerei e missilistici. L’analista militare William Arkin del Washington Post riferisce infatti che il Pentagono ha già avviato una pianificazione d’emergenza su vasta scala in vista di queste eventualità. Arkin ha recentemente osservato che: “Le agenzie di intelligence e i pianificatori militari statunitensi [hanno] ricevuto istruzioni di stilare liste aggiornate degli obiettivi per quanto riguarda la Siria e di incrementare le predisposizioni per potenziali operazioni militari contro Damasco”. Tali interventi bellici potrebbero includere “operazioni transfrontaliere per… distruggere rifugi segreti che ospitano ribelli iracheni” nonché “attacchi al regime del Presidente siriano Bashar al-Assad”.
Attacchi di questo tipo potrebbero essere organizzati in qualsiasi momento, e le probabilità aumenterebbero qualora Damasco si rifiutasse di sottostare agli obblighi previsti dalla risoluzione ONU, che prevede di poter interrogare alti esponenti siriani ritenuti colpevoli dell’attentato del 14 febbraio scorso, oppure se le condizioni in Iraq peggiorassero (come è probabile che succeda).
La situazione di stallo tra Stati Uniti e Siria ha già raggiunto livelli pericolosi e potrebbe aggravarsi ulteriormente nelle future settimane se Assad si rifiutasse di consegnare agli inquirenti dell’ONU suo cognato e altri alti ufficiali per l’interrogatorio (e il possibile arresto). In tali circostanze, sarebbe fin troppo facile per la Casa Bianca creare una situazione di guerra imminente, intensificando magari i raid di commando sul confine Iraq-Siria o minacciando di bombardare santuari terroristici in territorio siriano. Se attacchi del genere venissero anche soltanto accennati, l’ipotesi di una possibile guerra con la Siria monopolizzerebbe la copertura mediatica delle vicende riguardanti la Casa Bianca, deviando così l’attenzione pubblica dai problemi politici del Presidente.
Obiettivo Iran
Dopo la Siria, l’attuale imbroglio sulle attività nucleari dell’Iran rappresenta l’alternativa più promettente per creare uno scenario alla “Wag the Dog”. Questa controversia ha raggiunto momenti di grave tensione in precedenza, e si è smorzata solamente dopo concessioni da parte dell’uno o dell’altro dei due paesi, ma la crisi potrebbe certamente ripresentarsi. Al momento, comunque, sembra imminente un duro scontro tra Stati Uniti e Iran. Nonostante la prolungata gestazione, l’attuale situazione di stallo con l’Iran è stata ulteriormente ostacolata dal nuovo Presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, incline a pronunciare scioccanti affermazioni (si veda la sua recente dichiarazione nella quale annunciò che Israele “deve essere cancellata dalla carta geografica”). Tuttavia, la questione più importante sembra essere l’evidente determinazione dell’Iran di riprendere le proprie attività nucleari, decisione che agli occhi di Washington è vista come segno di una celata volontà di fabbricare armi atomiche. Arrivati a questo punto, è utile fare qualche passo indietro.
L’Iran è paese firmatario del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) e, in conformità a tale trattato, ha rivendicato il proprio diritto a costruire centrali nucleari e l’impianto necessario per l’“arricchimento” dell’uranio naturale, processo che consiste nell’aumentare la concentrazione dell’isotopo fissile U-235 da utilizzare nei propri reattori. Negli anni l’Iran ha violato le norme di non proliferazione costruendo impianti per l’arricchimento dell’uranio rompendo il dialogo con gli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA). Queste strutture comprendono una centrale per convertire il minerale di uranio in gas, il cosiddetto esafluoro di uranio (UF6), che può essere introdotto in centrifughe ad alta velocità che separano l’U-238 dal più leggero U-235, permettendo l’accumulo graduale di uranio “arricchito” – materiale grezzo che può essere utilizzato sia per i reattori nucleari sia (in forma altamente arricchita) per produrre armi atomiche. Gli iraniani ribadiscono la volontà di utilizzare il materiale arricchito esclusivamente per scopi pacifici e civili; tuttavia, il loro passato di occultamento delle attività nucleari porta a speculare che il loro fine ultimo sia quello di accumulare uranio altamente arricchito anche per altri scopi.
L’amministrazione Bush ha già preso una decisione sulla questione. Questa la dichiarazione avanzata il 17 agosto del 2004 dal Sottosegretario di Stato per il controllo degli armamenti e la sicurezza (ora Ambasciatore Usa alle Nazioni Unite) John R. Bolton: “Per oltre diciotto anni, l’Iran [ha] tenuto nascosto un programma di proliferazione nucleare segreto e su vasta scala”. Ha poi aggiunto che: “La costosa infrastruttura che permette di eseguire tutti questi processi [di arricchimento] oltrepassa di gran lunga i limiti di qualsiasi programma nucleare pacifico. Nessuna nazione ricca di petrolio paragonabile all’Iran ha mai preso parte, o prenderebbe parte, a questo genere di attività, né le porterebbe avanti per quasi due decenni dietro un’ombra di segretezza e bugie nei confronti degli ispettori dell’AIEA e della comunità internazionale, a meno che il suo scopo non sia quello di fabbricare armi atomiche”.
Nonostante affermazioni di questo genere da parte degli americani, l’AIEA e la comunità internazionale non hanno raggiunto un consenso unanime in merito alle intenzioni ultime dell’Iran. Tuttavia, l’AIEA ha ripetutamente affermato l’inadempienza dell’Iran ai propri obblighi di non proliferazione, che prevedono il rivelare interamente tutte le attività di tipo nucleare e l’astenersi da azioni che potrebbero portare alla fabbricazione di armi atomiche. Nel 2003, un ‘terzetto’ di nazioni dell’Unione Europea composto da Gran Bretagna, Francia e Germania (il cosiddetto ‘gruppo UE-3’ – NdT) aveva raggiunto un accordo con Teheran per la sospensione temporanea delle attività relative all’arricchimento dell’uranio, mentre erano in corso le negoziazioni per un’interruzione permanente in cambio di agevolazioni economiche da parte dell’UE. Tuttavia, né queste trattative né i ripetuti avvertimenti dell’AIEA hanno totalmente arrestato questi programmi di arricchimento nucleare. L’amministrazione Bush chiede ora una risoluzione dell’AIEA che provi la mancata ottemperanza da parte iraniana agli obblighi di non proliferazione e che denunci la questione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per eventuali azioni, compresa l’imposizione di sanzioni economiche e di altro tipo.
Durante un incontro tenutosi il 24 settembre, il Consiglio dei Governatori dell’AIEA ha formalmente riconosciuto la non conformità delle attività nucleari dell’Iran al Trattato di non proliferazione, ma il caso non è stato deferito subito al Consiglio di Sicurezza, presumibilmente per lasciare un più ampio spazio alle trattative. Il Presidente Ahmadinejad, comunque, ha respinto la risoluzione dell’AIEA, annunciando in seguito la ripresa della produzione di UF6 e criticando aspramente il gruppo UE-3. Nel frattempo, Washington ha intensificato i propri sforzi per cercare di convincere altri Stati della determinazione iraniana ad acquisire armi nucleari. È probabile che un confronto decisivo avvenga verso fine novembre o i primi di dicembre, quando il Consiglio dell’AIEA si riunirà di nuovo.
Se questa questione dovesse arrivare alle Nazioni Unite, è improbabile l’imposizione di dure sanzioni, poiché Russia e Cina, entrambe alleate dell’Iran, fanno parte del Consiglio di Sicurezza e possono esercitare il potere di veto sulle risoluzioni presentate. Cosa farebbe, quindi, la Casa Bianca se l’Iran annunciasse la ripresa su vasta scala delle attività di arricchimento nucleare? In circostanze del genere, un attacco militare contro gli impianti nucleari in Iran può essere considerata una reale possibilità. Dopotutto, il Presidente Bush ha già dichiarato che gli Stati Uniti non “tollereranno” l’acquisizione di armi atomiche da parte dell’Iran: una chiara manifestazione della volontà di Bush di impiegare la forza militare. Inoltre, già alla fine di gennaio, Seymour Hersh aveva riportato sul settimanale New Yorker che le unità di forze speciali statunitensi stavano già conducendo delle incursioni segrete in territorio iraniano per localizzare le installazioni nucleari nascoste, in preparazione di future decisioni di attacco.
Di nuovo, lo spunto esiste per scatenare una crisi internazionale su vasta scala. Sebbene il gruppo UE-3, assieme a Russia e Cina, sia fermamente deciso a evitare uno scontro militare con l’Iran, l’amministrazione Bush, in maniera palese, non si pone questi freni. Al contrario, ha già posto le fondamenta per attacchi aerei e missilistici su impianti nucleari iraniani e si è rifiutata, stando alle parole di Condoleezza Rice, di “scartare qualsiasi possibilità”. Persino la convinta allusione a un imminente attacco all’Iran farebbe probabilmente impennare i prezzi del petrolio greggio in maniera esponenziale e scatenerebbe sentimenti di rabbia e preoccupazione in tutto il mondo. Tuttavia, queste conseguenze potrebbero non essere sufficienti a dissuadere Bush e i suoi consiglieri dall’innescare una tale crisi qualora essi non vedessero altro modo per aumentare gli indici di gradimento del Presidente.
Obiettivo Corea del Nord
Sebbene meno invitante rispetto agli obiettivi Siria e Iran, uno scenario che preveda un possibile conflitto con la Corea del Nord è probabile che compaia nella lista dei futuri attacchi della Casa Bianca. Questo scenario appare meno allettante degli altri perché è risaputo che un conflitto ad oltranza con la Corea del Nord produrrebbe probabilmente un terribile bagno di sangue e causerebbe persino un tracollo economico, dell’Asia in primis e del mondo intero poi. Qualsiasi tentativo di condurre una crisi del genere a livelli pericolosi scatenerebbe anche un’agguerrita resistenza da parte di Cina, Russia, Corea del Sud e dell’intera comunità internazionale. Nel frattempo, però, la Corea del Nord è già stata etichettata come “stato fuorilegge” e le sue attività nucleari sono molto più avanzate rispetto a quelle dell’Iran. Il Dipartimento della Difesa Usa dispone anche di una massiccia presenza militare aerea, terrestre e navale nella regione, quindi, uno scontro nella penisola coreana non richiederebbe nemmeno la dislocazione delle forze armate americane dall’Iraq – come, invece, sarebbe presumibile in uno scenario di guerra che coinvolge la Siria o l’Iran.
Si ritiene che la Corea del Nord abbia sviluppato un programma di proliferazione nucleare segreto dopo il termine della Guerra di Corea. Tuttavia, con l’accordo del 1994, conosciuto come “Agreed Framework” (quadro di accordi tra Stati Uniti e Corea del Nord – NdT), si era impegnata a cessare tali attività in cambio di incentivi economici e politici da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Entrambe le parti hanno rispettato alcuni obblighi previsti dall’accordo ma hanno retrocesso di fronte ad altri. L’amministrazione Clinton era sul punto di risolvere queste incongruenze, ma George W. Bush, assunta la presidenza all’inizio del 2001, fece ripiombare tutto al punto di partenza.
Subito dopo essere salito al potere, infatti, Bush precluse qualsiasi serio legame diplomatico con i nordcoreani e bloccò molti degli obblighi americani previsti dall’“Agreed Framework”. Durante il discorso alla nazione del 2002, il Presidente Bush incluse la Corea del Nord nel suo famoso triangolo dell’“asse del male”. In risposta, i nordcoreani annunciarono il loro ritiro dall’”Agreed Framework” e ripresero la loro attività di proliferazione nucleare. Invece di trattare direttamente con Pyongyang sulla crisi nucleare, la Casa Bianca si ostinò a voler discutere qualsiasi futura trattativa in termini multilaterali. La Cina, quindi, organizzò successivamente una conferenza a sei (Stati Uniti, Giappone, Russia, le due Coree e se stessa) per negoziare sulla questione.
Durante un colloquio a sei nel mese di settembre, i nordcoreani hanno infine acconsentito ad abbandonare il loro programma nucleare ma solo a patto di ricevere in cambio significativi benefici economici dagli altri paesi e l’impegno di non aggressione da parte americana. In successive dichiarazioni, Pyongyang ha suggerito che qualsiasi passo compiuto verso il disarmo nucleare implicherebbe anche l’impegno da parte degli altri partecipanti al tavolo del negoziato di rifornire la Corea del Nord di un reattore nucleare ad acqua leggera (per generare energia elettrica a scopi pacifici). Gli Stati Uniti hanno ormai respinto qualsiasi obbligo di questo tipo, ma hanno dichiarato di essere disposti a fornire diversi incentivi alla Corea del Nord non appena dia inizio al completo smantellamento del proprio arsenale nucleare.
A questo punto, c’è ragione di credere che una risoluzione pacifica della controversia sia vicina. La Cina e la Corea del Sud si sono impegnate duramente per incoraggiare una posizione costruttiva nei confronti di Pyongyang, ma la situazione potrebbe precipitare da un momento all’altro. Come a voler sottolineare questa possibilità, gli Stati Uniti hanno recentemente rinforzato i propri potenziali militari nella zona, inviando alla Corea del Sud diciassette bombardieri F-117 “Stealth” (caccia invisibili ai radar – NdT) ed altre armi avanzate, e annunciando ulteriori sforzi per isolare la Corea del Nord.
L’amministrazione Bush dispone di molti punti di forza su cui far leva, qualora si decidesse di provocare un nuovo scontro con la Corea del Nord. Senza dubbio, un’iniziativa del genere si rivelerebbe impopolare agli occhi di Cina e Corea del Sud, come della maggior parte del resto del mondo, ma permetterebbe di creare un’atmosfera di crisi a Washington in modo tale da distrarre l’attenzione pubblica dai crescenti problemi presidenziali interni. Pertanto, non è da escludere come potenziale scenario alla “Wag the Dog”.
Senza un microfono (o una spia) nell’Ufficio Ovale, è impossibile per gli estranei determinare quali scenari per deviare l’attenzione pubblica il Presidente Bush, il suo vice, e i suoi più intimi consiglieri stiano discutendo al momento. Per certi versi, lo stato delle cose sarà anche determinato dalle azioni imprevedibili dei leader stranieri, soprattutto i capi e gli assistenti di Siria, Iran e Corea del Nord. Tuttavia, sulla base dei trascorsi della Casa Bianca, si può senz’altro supporre che gli uomini del Presidente stiano contemplando ogni possibilità per trasformare queste crisi di politica estera in qualche convincente diversivo che distragga l’attenzione pubblica dall’attuale malessere politico dell’amministrazione. Essi hanno già mostrato, attraverso le decisioni prese in Iraq, di essere disposti a versare fiumi di sangue per perseguire vantaggi politici; quindi, la possibilità che una crisi forzata con Siria, Iran e Corea del Nord possa trasformarsi in qualcosa di molto più grande – persino una vera e propria guerra o un crollo economico su vasta scala – potrebbe non impedire loro di attuare una manovra alla “Wag the Dog”.
Micheal T. Klare è docente all’Università di Hampshire, dove insegna Pace e Sicurezza Mondiale. È autore di 'Blood and Oil: The Dangers and Consequences of America’s Growing Dependence on Imported Petroleum' (Owl Books) e di 'Resources Wars, The New Landscape of Global Conflict'
Sulla questione dell''Asse del Male' Nuovi Mondi Media ha pubblicato 'INVENTARE L'ASSE DEL MALE. LA VERITA' SU IRAN, SIRIA E COREA DEL NORD' di Bruce Cumings, Ervand Abrahamian e Moshe Ma'Oz
Fonte: http://www.motherjones.com/commentary/columns/2005/11/wag_the_dog.html
Tradotto da Arianna Ghetti per Nuovi Mondi Media