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Informazione e guerra,la libertà di stampa non abita più qui

di Sabina Morandi - 08/03/2007

 
Il difficile compito di raccontare un conflitto e le censure sui fatti. E’ il mondo dei media occidentali che preferisce nascondere piuttosto che confrontarsi Informazione e guerra, la libertà di stampa non abita più qui di Sabina Morandi rmai è un dato di fatto: nell’era dell’informazione in tempo reale la censura regna sovrana. L’ultimo episodio riguarda le due stragi di civili in Afghanistan e il comportamento del comando Usa che ha ordinato il sequestro e la distruzione delle immagini raccolte dai giornalisti presenti. Che non sia un caso isolato lo dimostrano i numerosi episodi degli ultimi anni, dal bombardamento della sede di Al Jazeera di Kabul, nel 2001, alla cannonata contro l’hotel Palestine di Baghdad, per non parlare di quel tentativo di controllo su larga scala che è la pratica del giornalismo embedded, inaugurata dal Pentagono con l’attacco all’Iraq. Sull’informazione tira insomma una brutta aria se, come scrive il famoso reporter di guerra Robert Fisk «i militari giocano a O fare i giornalisti e i giornalisti giocano a fare i soldati», felici di indossare le divise mimetiche e di sottoporre i propri servizi al vaglio delle autorità militari.

Le conseguenze, come fa notare lo stesso Fisk, sono molteplici. Prima di tutto la mancanza di informazioni attendibili sulla dura realtà dei conflitti in corso è pericolosa per i nostri stessi soldati, che sbarcano in paesi descritti come pacificati per ritrovarsi nell’incubo della guerra di tutti contro tutti. Perché la censura occidentale riguarda solo noi che, all’interno di quel fortino dorato che sono i nostri paesi, non siamo consapevoli delle stragi che vengono compiute in nostro nome. Sì perché gli altri – i nemici – le immagini le vedono eccome. Alla progressiva chiusura della stampa occidentale si è infatti accompagnato il boom del giornalismo arabo che vede in Al Jazeera il caso più noto. Formati alla scuola anglosassone, i giornalisti dell’emittente satellitare del Qatar hanno trasmesso immagini che le televisioni occidentali tentavano con ogni mezzo di tenere lontane dai propri teleschermi.

Durante l’attacco all’Afghanistan, nel 2001, le grandi testate occidentali ritirarono i loro corrispondenti dal paese e la favola dei bombardamenti chirurgici riuscì a reggere per qualche settimana. Ma le immagini dei corpi dilaniati dalle bombe a grappolo fecero lo stesso il giro del mondo e alla fine anche Cnn e Bbc furono costrette a comprare le riprese di Al Jazeera. L’emittente fu premiata con la conquista di una fetta di mercato che, 5 anni dopo, può mettere a frutto con il lancio di un canale in lingua inglese. Oggi, se volete vedere qualche immagine della vita quotidiana in Iraq, dei bombardamenti Usa sui villaggi somali o del tiro al palestinese nella striscia di Gaza, è Al Jazeera che dovete guardare. La censura quindi manifesta il suo principale difetto proprio nella sua incapacità di interagire con i meccanismi della globalizzazione. Paradossalmente i teorici dello scontro di civiltà non fanno i conti con il fatto che le informazioni arrivano proprio dove è più pericoloso che arrivino, cioè ai nostri “nemici”, lasciando gli “amici” a chiedersi sconsolati «ma perché ci odiano tanto»? Il che dimostra che il vero scopo della censura preventiva non sono tanto i cuori e le menti di quelli che siamo andati a liberare ma l’opinione pubblica dei paesi democratici, che va tenuta all’oscuro sulle reali condizioni dei paesi in cui stanno mandando i propri figli. Gli “altri”, i nemici della civiltà e della democrazia, sono invece perfettamente informati sui nostri “errori” e sui “danni collaterali” dei nostri bombardamenti chirurgici, grazie alle innumerevoli televisioni e giornali in lingua araba che stanno spuntando uno dopo l’altro. Lasciamo agli storici il difficile compito di spiegare com’è possibile che la patria del libero giornalismo – l’Occidente – si stia trasformando nella sua tomba.

Possiamo solo concordare con Fisk quando afferma che il cambiamento è avvenuto con la complicità degli stessi operatori dell’informazione allettati dalla vita comoda e sempre più restii ad «accarezzare il potere contropelo » per utilizzare l’espressione di Anna Politkovskaia, giornalista che ha pagato con la vita la propria professionalità. C’è da dire che la figura del reporter di guerra è sempre più rara, e non è solo il coraggio a difettare: sono le redazioni stesse che preferiscono stipendiare dei giornalisti locali – ben più economici - piuttosto che puntare sulla formazione dei propri giovani, e sono infatti i giornalisti locali a morire. Sì perché la censura ha un triste corollario: che siano embedded confusi con il nemico o testimoni scomodi da far tacere, i giornalisti sono entrati nel mirino degli uomini in armi. Lo testimonia una ricerca condotta dall’International News Safety Institute di Bruxelles, un’associazione di organi dell’informazione. Dal rapporto diffuso ieri risulta infatti che negli ultimi dieci anni sono morti più di mille fra giornalisti e personale di supporto, con Iraq e Russia in cima alla lista dei paesi più pericolosi. Il 2006, secondo il rapporto, è stato l’anno più sanguinoso, a dimostrazione del fatto che il tiro al giornalista è uno sport sempre più diffuso. «In molti paesi» ha dichiarato Rodney Pinder, direttore dell’Istituto «l’omicidio è diventato il modo più facile e più economico per mettere a tacere notizie scomode». Dal rapporto risulta anche che la maggior parte delle vittime erano del posto e che raramente - un caso ogni otto – vengono avviate delle inchieste. Secondo Tom Curley, presidente dell’Associated Press, «lo studio dimostra quanto sia diventata pericolosa la ricerca delle notizie ma anche quanto insignificanti siano gli sforzi tesi a ottenere giustizia per i giornalisti feriti o perseguitati mentre lavorano per tenere informato il mondo».