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Non c'è «politica nuova» senza la difesa della natura

di Carla Ravaioli - 08/03/2007

 
Una cultura politica nuova, diversa, alternativa, ecc. Bertinotti, Polo, Diliberto, Migliore, Pagliarulo, tutti convengono. La povertà di contenuti e l'incertezza di obiettivi delle sinistre, e comunque la loro inadeguatezza a fronte dei problemi attuali, appare consapevolezza comune. Così come appare presente in tutti l'esigenza di trovare risposte alla grande crisi della politica e del mondo, tentando di superare contrapposizioni e risse tra una sinistra e l'altra. Un dibattito ricco e appassionato, dal quale non sembra però ancora emergere l'indicazione di un percorso nuovo rispetto a quelli della tradizione di sinistra, o un possibile punto di partenza. Mentre proprio questo ci occorre.

A partire da questa convinzione azzardo un'ipotesi: forse l'idea di una «politica nuova», anzi la sua necessità, è presente in uno dei più gravi fenomeni che sovrastano la società e ne minacciano il futuro. Di recente la scienza mondiale ha detto, senza più margini di dubbio, che la crisi ecologica planetaria è conseguenza dell'economia oggi dovunque operante: della quale è obiettivo primo la crescita illimitata del prodotto, secondo il dettato dell'accumulazione capitalistica, ma in evidente insuperabile conflitto con i limiti della Terra. Muovere da questa verità per farsi carico di una minaccia finora da tutti (sinistre incluse) sottovalutata, porre in essere provvedimenti che agiscano alla radice del problema anziché limitarsi a emendarne, tardi e male, gli effetti, significherebbe non solo rispondere a un'esigenza non più rinviabile, ma anche imboccare un percorso assolutamente diverso da tutta la politica del passato, di destra e di sinistra.

Finora lo squilibrio ecologico è stato considerato non più che una sorta di occasionale disturbo alla normalità della vita e al buon andamento dell' economia, una questione da affidare ad organi specificamente previsti, mai ritenuta tale da interferire con le grandi scelte economiche e politiche. Mai l'ambiente naturale è stato considerato per ciò che è: base costitutiva della produzione, cioè fattore determinante dell'economia, dunque della politica. E ancora oggi, nonostante il ripetersi di allarmi sempre più drammatici, le cose non sono gran che cambiate. La più parte di politci e economisti continua a invocare crescita e pil, serenamente programmando grandi opere, ovviamente destinate a squilibrare ulteriormente gli ecosistemi. Mentre un'altra parte, sempre più consistente, è con fervore occupata nel «business verde» (energie rinnovabili, auto ibride, edilizia ecologica, rottamazioni, ecc.) impegnata cioè a sfruttare il guasto ecologico capovolgendolo in risorsa, utilizzando provvedimenti pensati in difesa dell'ambiente per obiettivi che sono la causa prima del suo dissesto. In pratica assimilando il problema alla forma del sistema che lo produce, inglobandolo nella sua stessa patologia.

Prendere atto dell'assurdo di questa separatezza dell'economia dalla sua base naturale; ascoltare la scienza mondiale che, annunciando e per dettagli descrivendo l'inevitabile e non lontana catastrofe, pone sotto accusa i modi e le quantità del sistema produttivo attuale; contestare produttivismo, consumismo e crescita nel loro ruolo di intoccabili dogmi. Cioè rifiutare l'accumulazione capitalistica. Impugnare la dimensione eversiva che la crisi ecologica in sé contiene; affermare la necessità di una cesura netta, di una discontinuità storica, per la ricerca di una nuova razionalità economica e esistenziale; una rivoluzione, perché no, ancorché tutt'affatto diversa da quelle, traumatiche e cruente, del passato. Non sarebbe questa una possibile via per la ricerca di quella cultura politica nuova di cui, tra le sinistre più attente, si avverte il bisogno?
So bene che la difesa della natura proposta come fattore determinante di un nuovo ordine socio-economico, tra le stesse sinistre non può avere vita facile. Non solo perché anche per questa area politica l'ambiente è stato, e spesso è ancora, un tema scarsamente sentito, ma perché a dissestare l'equilibrio ecologico sono gli stessi meccanismi che a lungo hanno migliorato le condizioni dei lavoratori. Cosa che in passato ha di fatto indotto tra le sinistre la tacita accettazione dell'ordine dato, affiancata però a una continua azione intesa a correggerlo, e spesso seguita da importanti vittorie: imponendo così un'idea della crescita produttiva come infallibile viatico al progresso sociale, e coltivandone l'illusione. Ed è una posizione ancora oggi largamente diffusa.

Questi temi, io credo, dovrebbero appartenere alla ricerca di una cultura politica nuova delle sinistre, con una rilettura della propria storia che constati l'inservibilità attuale di strumenti pur validissimi in passato, e l'esigenza di mettere a fuoco, e rendere praticabile, una nuova razionalità, definita da valori decisamente diversi da quelli propri della realtà antropologica capitalistica. Una razionalità che induca a considerare come la sempre più affannata corsa verso produzione e consumo, la quantità come categoria portante del nostro agire, la competitività che da strumento vincente sui mercati diventa regola di ogni rapporto, non sono solo premessa di terrificanti sconvolgimenti ecologici, ma sono esse stesse la causa delle crescenti mostruose iniquità sociali, di un sempre più esoso sfruttamento del lavoro, di vite stravolte all'inseguimento della ricchezza come unica identità apprezzabile.

Sulla base di queste considerazioni, sarebbe forse possibile anche rovesciare quel rapporto, ormai da tempo invalso, che vede l'economia prevalere e, al di là della sua funzione specifica, imporsi come agente culturale primario, perenne termine di riferimento, addirittura come forma della collettività, mentre la politica la segue e obbedisce. Ciò che non può essere estraneo a quel deterioramento della politica da tutti lamentato.