“La Stampa” pubblica un brano del saggio del premio nobel Alexandr Solzhenitsyn Riflessioni sulla Rivoluzione di febbraio, uscito in Russia con un'altissima tiratura in occasione dell’anniversario del febbraio 1917 e alla vigilia delle elezioni politiche. Il premio nobel individua nell’omicidio dell’influente “monaco” Rasputin non tanto un gesto di protezione della monarchia, quanto l’evento che diede avvio alla caduta dello zarismo e alla dissoluzione della Santa Russia. Nella sua interpretazione antiliberale e antibolscevica, Solzhenitsyn attribuisce la responsabilità della Rivoluzione di febbraio proprio allo zar e al suo “non-governo”, sottolineando l’importanza di una conduzione energica delle sorti del paese.
I tre monarchici che hanno eliminato Rasputin per salvare la corona e la dinastia hanno fatto con determinazione un passo in quella foschia con la quale spesso ci inganna l’apparenza storica: le conseguenze delle nostre azioni più indubbie a sorpresa si rivelano opposte alle nostre attese. Sembrava che i peggiori nemici della monarchia russa non avrebbero potuto inventare una piaga più visibile della figura di Rasputin; una combinazione così fantasiosa, un muzhik russo che copre di vergogna una monarchia ortodossa, per di più nella forma della santità. Il pubblico abituato a leggere e il popolo analfabeta erano eccitati dalla calunnia riguardante il trono, e perfino il tradimento del trono. Ma cancellare questa piaga significava solo imprimere un moto inarrestabile all’incedere delle distruzioni. L’assassinio, atto materiale, è stato notato da una cerchia molto più ampia di quella che veniva considerata opinione pubblica: tra gli operai, i soldati e perfino i contadini. E la partecipazione di due membri della dinastia all’omicidio faceva pensare che le voci su Rasputin e la zarina fossero vere, che perfino i grandi principi fossero stati costretti a vendicare l’onore del sovrano. L’impunità degli assassini era stata molto notata, e si rivoltò in un’interpretazione oscura: o gli assassini avevano completamente ragione, oppure in alto non si trovava la verità, e i parenti del sovrano hanno ucciso l’unico muzhik riuscito ad arrampicarsi lassù. In questo modo l’omicidio di Rasputin non è stato un gesto di protezione della monarchia, ma il primo sparo della Rivoluzione, il suo primo passo reale. Rasputin non c’era più, mentre lo scontento schizzava: contro chi ormai, se non contro lo zar? E poi un’altra, in apparenza non importante conseguenza dell’omicidio: il comandante in capo delle forze imperiali russe ha abbandonato l’esercito in guerra per nove settimane. (Così si è avverata anche la calcolata profezia del prodigio di Tobolsk, che senza di lui la dinastia sarebbe morta: dalla sua morte alla morte della dinastia sono passate solo dieci settimane). Tutti i casi comuni della vita finiti sotto la lente d’ingrandimento della storia appaiono poi fatali.
Traditi da Nicola II In un Paese enorme non si esauriscono mai uomini di qualità nei campi più disparati. Ma in alcuni periodi oscuri ai migliori viene sbarrata la strada. Ogni popolo ha il diritto di attendersi dal suo governo la forza, altrimenti a cosa serve un governo? All’inizio del 1917 la monarchia russa conservava ancora un’enorme forza materiale, sia per condurre la guerra sia per conservare l’ordine interno. L’immagine dello zar era fermamente impressa nella mente della Russia contadina, e per domare i moti urbani non era difficile trovare le truppe. Il trono non ha ceduto materialmente, non ha nemmeno iniziato a combattere. La potenza fisica nelle mani dello zar non è stata usata contro la rivoluzione. Molto prima ha ceduto lo spirito, del trono e del governo. La monarchia è un sistema forte ma solo quando il monarca non è troppo debole. Si può essere cristiani sul trono ma non fino all’oblio dei propri doveri, non fino alla cecità di fronte al collasso incombente. In russo c’è la parola «zazaritsa», che significa scordarsi di tutto regnando. Le sfilate, le esercitazioni dell’amato esercito e i chioschi di fiori per l’imperatrice alle parate della guardia hanno occultato al sovrano la vista del Paese. Nella sua indecisione non all’altezza di uno zar è il suo vizio principale per il trono russo. Si è lasciato piegare e spaventare. [...]
Sotto i colpi del terrore Non si può spiegare tutto ciò solo con la stupidità, o con un unico moto meschino, una naturale tendenza al tradimento. Poteva essere solo segno di un generale vacillare morale del potere, solo un fenomeno prodotto dal coinvolgimento di tutto il ceto colto nel potente Campo liberal-radicale (e perfino socialista). Per anni (decenni) questo Campo si è espanso impunemente, permeando tutti i cervelli del Paese almeno vagamente sfiorati dall’istruzione. Possedeva l’intellighenzia quasi al completo. Più rade, le sue emanazioni penetravano gli ambienti dei funzionari di Stato, i militari, perfino il clero e il vescovato (la Chiesa era ormai impotente contro questo Campo), e perfino quelli che lo combattevano, gli ambienti della destra e il trono stesso. Sotto i colpi del terrore, sotto la pressione della derisione e del disprezzo, anche loro si rammollivano preparandosi alla resa. Nella secolare lotta tra radicalismo e statalità, la seconda soccombeva sempre più al primo con la sua fiducia nella vittoria. Il Campo fluiva da cento anni, così forte che oscurava la mentalità nazionale (bollata come «primitivo patriottismo») e il ceto colto ha smesso di vedere gli interessi della vita nazionale. [...] La Rivoluzione di Febbraio, se esaminata separatamente e non in paragone con l’Ottobre, era spiritualmente disgustosa, fin dalle prime ore aveva introdotto l’ostilità dei costumi e la dittatura collettiva sull’opinione indipendente (il branco), le sue idee erano piatte e i suoi leader delle nullità. | |