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L'India che non perdona l'Occidente

di Kiran Desai/Livia Manera - 08/03/2007

Livia Manera intervista la scrittrice indiana Kiran Desai, autrice del romanzo Eredi della sconfitta. Kiran Desai sostiene che in India vi sia ancora un sentimento antioccidentale alimentato dal ricordo della colonizzazione britannica.
La scrittrice esprime la sua critica a chi pensava che la globalizzazione economica fosse in grado di incrementare il benessere complessivo degli indiani, evidenziando come il progresso abbia in alcuni casi aumentato le disparità sociali.
In
Eredi della sconfitta non vi sono eroi, né tra i vecchi anglofili né tra i nuovi nazionalisti. Una riflessione, quella della Desai, particolarmente critica sulla occidentalizzazione economica del subcontinente asiatico e sulla emigrazione degli indiani.

Così, sulle prime, si stenta a credere che la ragazza timidamente educata che ci sta davanti in un caffè del Greenwich Village, sia l’autrice di un romanzo dall’anima di ferro e la prosa di velluto che attacca il mito della globalizzazione in India, e che gli abitanti della regione dove è ambientato minacciano di dare pubblicamente alle fiamme. Eppure è così: a trentacinque anni Kiran Desai, con Eredi della sconfitta la più giovane vincitrice nella storia del premio Booker [...], è la destinataria di messaggi d’odio alla maniera in cui lo sono state prima di lei altre due scrittrici di area indiana, Arundhati Roy e Monica Ali. «Di questi tempi è difficile per un romanziere sottrarsi a una lettura politica» si rammarica la bella Kiran, che vive a Brooklyn. «Da un lato ti considerano un’ambasciatrice dell’India, e dall’altro s’infuriano perché ritengono che tu nel tuo libro li abbia rappresentati in modo coerente con i pregiudizi dell’Occidente». Kiran Desai si riferisce soprattutto ai nepalesi e ai Gurkha che a lungo si sono disputati il potere e l’autonomia in quell’angolo di India chiamato Kalimpong, e che non hanno apprezzato affatto Eredi della sconfitta, in uscita da Adelphi nella bella traduzione di Giuseppina Oneto: un romanzo complesso nella costruzione e ornato nella prosa, che attraverso le storie parallele di un pugno di personaggi indiani, dice cose durissime e forse anche assolutamente necessarie su temi attuali e internazionali come globalizzazione, multiculturalismo, diseguaglianza economica e fanatismo. [...]
«Bisogna capire che in India la rabbia antioccidentale è molto diffusa, e ha radici antiche — dice la scrittrice —. Lo so che in Occidente il colonialismo sembra storia lontana, ma in Oriente non è così. La generazione dei miei genitori è cresciuta nell’India coloniale e ha attraversato momenti politicamente molto difficili. Sono troppi i problemi rimasti irrisolti per credere che stiamo tutti vivendo in un mondo nuovo. Al contrario: in India la rabbia nasce dalla constatazione che nulla o troppo poco, è cambiato».
Ambientato in parte a Kalimpong e in parte a New York, Eredi della sconfitta comincia con i colori del crepuscolo in una grande casa ai piedi di una vetta intagliata nel ghiaccio, dove una ragazzina di quattordici anni chiamata Sai s’intristisce a leggere un articolo sui calamari giganti condannati a vivere nella solitudine degli abissi marini. La ragazzina abita col nonno, un giudice anglofilo che ha studiato a Cambridge e che ora si sveglia sulla veranda di cattivo umore perché il cuoco ancora non gli ha portato il suo tè. Ed è in ritardo anche il bel Gyan, il giovane insegnante privato di cui Sai si è innamorata, atteso da un momento all’altro mentre all’insaputa di tutti loro, nei boschi che circondano la casa, un gruppo di ribelli si sta avvicinando per appropriarsi dei fucili del giudice. Siamo nel 1986 e siamo in un villaggio all’incrocio tra Nepal e Tibet dove il nazionalismo etnico spinge i Gurkha a reclamare l’indipendenza. E questo mentre in America [...] Biju, l’amatissimo figlio di quel cuoco che sta preparando il tè, lavora come uno schiavo in locali dai nomi esotici, sognando un irraggiungibile permesso di soggiorno. Ognuno di questi personaggi condivide la solitudine dei calamari degli abissi e il peso di ideologie fallite o destinate secondo l’autrice al fallimento: colonialismo, nazionalismo, globalizzazione.
«[...] La verità è che questo boom economico avvantaggia alcuni prostrando altri. La ricchezza non cade a pioggia, in India. Il sistema della divisione in classi funziona troppo bene. I rappresentanti delle varie classi si assicurano che i soldi restino nei loro confini, e niente scenda in basso».
Kiran Desai racconta di una sua recente visita alla periferia di New Delhi «dove si stanno costruendo enormi edifici all’americana finanziati da grandi nomi come American Express e Tata». Ha visto coi suoi occhi cosa significa: «I muratori di quei cantieri stanno letteralmente morendo di fame. Sono analfabeti che vivono sotto coperture di plastica, con i bambini di due anni che tengono in braccio neonati. È un incubo assoluto. Altro che brave new world. È orrore allo stato puro, è perversione». Per questo ha scelto di ambientare la sua storia in un villaggio come Kalimpong, dove quando aveva la stessa età della ragazzina del romanzo, ha vissuto per un po’ in casa di una zia prima di trasferirsi in Inghilterra e poi in America. Perché a quell’epoca e in quel contesto la globalizzazione sembrava un antidoto al nazionalismo e al separatismo, e una medicina per livellare le differenze di classe in vista di un’economia migliore. Mentre invece la scintillante New York mostrava già che essere cittadini del mondo globale all’interno dei suoi confini significava soltanto unirsi all’esercito di immigrati illegali che ogni giorno schiattano di fatica in cucine bollenti: gente come Biju che perde il lavoro perché puzza, o perché malgrado imbottisca i vestiti di giornali per proteggersi dal freddo, non riesce a pedalare abbastanza veloce per consegnare il cibo da asporto prima che si raffreddi e i clienti si lamentino. E tuttavia è proprio il perdente Biju a conquistarsi l’ammirazione del lettore, perché è l’unico a intuire quello che oggi comincia a essere chiaro anche ad altri: e cioè che la metafora della cuccagna globale, della «marea che salendo solleva tutte le barche», può tradursi in realtà solo a condizione che non a tutti sia concesso di salire a bordo. Ed è questa la novità di un romanzo come Eredi della sconfitta: [...] il suo multiculturalismo amaro che fa sembrare quello effervescente di tanti romanzi anglo-indiani un lusso riservato alle metropoli europee. E la sua idea di una modernità offensiva per la dignità umana. C’è anche ironia e c’è senso del comico, nella prosa di Kiran Desai. Ma lo sguardo dell’autrice rimane fermo: non ammette eroi né redenzione. Non è un eroe il vecchio giudice umiliato dagli inglesi, che diventando anglofilo non si rende conto di riversare su se stesso quello stesso odio. Non è eroico Gyan che si dissipa nella causa nazionalista, e non lo è il perdente Biju, che pure ha la saggezza di capire che voltare le spalle al sogno americano e tornarsene a casa renderà la sua sconfitta, se non altro, meno ambigua. «Ognuno di loro era il prodotto di scelte fatte molto tempo fa — scrive Kiran Desai —. Ma una cosa nuova c’è», dice la scrittrice sollevando lo sguardo. «Ed è il dubbio che vedo in alcuni. Il sospetto che forse potrebbe essere meglio restare a casa. Non emigrare. Che possa valer la pena finire gli studi perché non è escluso che alla fine un lavoro salti fuori. Questa è l’unica cosa che ho visto in India che una volta non c’era». E non è poco.

Kiran Desai, Eredi della sconfitta, Adelphi, pp. 416, € 19,50.